Starplex Robert J. Sawyer La missione dell’astronave Starplex è indagare sui scorciatoie, misteriose anomalie del cosmo che permettono di viaggiare sia nello spazio che nel tempo. Ma durante l’esplorazione il comandante keith Lansing e la sua nave si trovano di fronte a una stella tanto vecchia da risuktare più antica dell’universo stesso! Non è l’unica scoperta “impossibile”: una razza sconosciuta viene identificata in quell’assurda regione della galassia, e la Starplex è attaccata da nemici sconosciuti. Lansing sa che c’è un solo mezzo per uscire dalla situazione critica: entrare nel scorciatoia e varcare la soglia di parecchi miliardi di anni per scoprire il segreto della stella verde. Robert J. Sawyer Starplex Anche se l’arco dell’universo morale è lungo, esso si piega verso la giustizia.      Martin Luther King jr Ringraziamenti Questo romanzo si è condensato dalla nube primordiale delle mie idee con l’aiuto degli editor Susan Allison, della Ace, e Stanley Schmidt, di “Analog”; Richard Curtis; il dottor Ariel Reich; i colleghi scrittori J. Brian Clarke, James Alan Gardner, Mark A. Garland e Jean Louis Trudel; lo straordinario correttore di bozze Howard Miller; e i consueti e brillanti lettori dei miei manoscritti: Ted Bleaney, David Livingstone Clink, Terence M. Green, Edo van Belkom, Andrew Weiner e, soprattutto, la mia amorevole moglie, Carolyn Clink. Alpha Draconis Il costo sarebbe stato spropositato. La gravità era già stata annullata e Keith Lansing fluttuava a zero G. Di norma quell’esperienza gli distendeva i nervi, ma non oggi. Oggi respirava a fatica e scuoteva la testa. Per riparare i danni alla Starplex ci sarebbero voluti miliardi. E quanti cittadini del Commonwealth erano morti? Be’, questo lo avrebbe accertato l’inevitabile inchiesta, alla quale non dedicò nemmeno una frazione delle sue riflessioni. Tutte le sue stupefacenti scoperte, compreso il primo contatto con i matos, potevano ancora essere messe in ombra dalla politica… o addirittura da una guerra interstellare. Keith toccò il pulsante verde sulla consolle di fronte a sé. Udì il rumore dell’esplosione, trasportato dalle pareti d’acciaio dello scafo, quando la scialuppa si staccò dall’anello d’accesso, situato sulla parete posteriore del molo d’attracco. Il tragitto era preprogrammato nel computer della scialuppa: uscire dai moli della Starplex, volare verso la scorciatoia, imboccarla, uscire alla periferia del sistema Tau Ceti e attraccare a uno dei moli di Grand Central, la stazione spaziale delle Nazioni Unite che controllava il traffico della scorciatoia più vicina alla Terra. Poiché era tutto programmato, Keith non aveva niente da fare durante il viaggio se non riflettere su ciò che era accaduto. In quel momento non era nelle condizioni di apprezzarlo, ma si trattava di un miracolo: ormai attraversare metà della galassia in un batter d’occhio era diventata una routine. Tutt’altra cosa dall’eccitazione di diciotto anni prima, quando lo stesso Keith aveva scoperto la rete delle scorciatoie: una vasta schiera di portali, evidentemente artificiali, che costellava la galassia e consentiva trasferimenti istantanei da punto a punto. A quel tempo Keith la chiamava magia. Dopotutto, vent’anni prima erano servite le risorse dell’intero pianeta Terra per stabilire le colonie di Nuova Pechino su Tau Ceti IV, ad appena 11,8 anni luce dal Sole, e quella di New New York su Epsilon Indi III, a 11,2 anni luce di distanza. Ora, invece, saltellare da un capo all’altro della galassia era diventata un’abitudine per gli esseri umani. E non soltanto per gli esseri umani. Benché i costruttori delle scorciatoie non fossero mai stati trovati, infatti, esistevano altre forme di vita intelligente nella Via Lattea, tra cui i waldahudin e gli ib. Erano stati loro, insieme con gli umani e con i delfini terrestri, a fondare 11 anni prima il Commonwealth dei Pianeti. La scialuppa di Keith raggiunse il bordo del molo 12 e s’inoltrò nello spazio. Era una bolla trasparente, progettata per mantenere in vita una persona per un paio d’ore, che conteneva le attrezzature di supporto vitale e i razzi di manovra in un’ampia banda bianca equatoriale. Keith si girò a guardare la nave-madre che si allontanava alle sue spalle. Il molo d’attracco era sul bordo del grande disco centrale della Starplex. Mentre la scialuppa si spingeva sempre più lontano, Keith osservò il gioco a incastro dei moduli abitativi triangolari, quattro nella parte superiore e quattro in quella inferiore. “Cristo” pensò mentre guardava la nave. “Gesù Cristo!” I finestrini dei quattro moduli inferiori erano bui. Cicatrici da laser, sottili come capelli, zigzagavano in tutto il disco centrale. Quando la scialuppa si spostò più in basso, Keith vide le stelle attraverso il foro circolare aperto nel disco centrale, dal quale era stato staccato di netto un cilindro dello spessore di dieci ponti. “La spesa sarebbe stata uno sproposito” pensò ancora Keith. “Un vero sproposito.” Tornò a guardare davanti a sé, oltre le pareti curve della bolla. Da tempo aveva smesso di esaminare il vuoto in cerca di un indizio della presenza delle scorciatoie: prima di essere toccate da un oggetto materiale non erano che invisibili, infinitesimali, punti geometrici. E la sua scialuppa ne avrebbe toccata una — diede un’occhiata alla consolle — entro 40 secondi. A quel punto la scorciatoia si sarebbe dilatata e avrebbe inghiottito ciò che la stava attraversando. Lui sarebbe rimasto a Grand Central forse per otto ore, il tempo necessario per fare rapporto al primo ministro Petra Kenyatta sull’attacco alla Starplex. Poi sarebbe tornato indietro. Per allora, se tutto andava bene, Jag e Lunga Bottiglia avrebbero avuto notizie sull’altro grosso problema in cui erano coinvolti. I razzi di manovra della scialuppa si accesero secondo schemi complessi. Per uscire all’altezza di Tau Ceti era necessario imboccare la scorciatoia locale da sopra e da dietro. Le stelle si spostarono velocemente mentre la scialuppa modificava la sua traiettoria secondo l’angolo appropriato, per poi… toccare il punto. Attraverso lo scafo trasparente, Keith vide l’ardente discontinuità color porpora tra i due settori di spazio passare oltre la scialuppa: prima e dopo, due panorami stellati che non combaciavano. Dietro, la stregata luce verde della regione che stava lasciando; davanti, una rosea nebulosità… Nebulosità? No, era tutto sbagliato. Non c’era nessuna nebulosità a Tau Ceti. Quando la scialuppa ebbe completato il transito, non ci furono più dubbi: era sbucato nel posto sbagliato. Una bellissima nebulosa color rosa, dall’aspetto di una mano a sei dita, riempiva quattro gradi di cielo. Keith si girò a guardare in tutte le direzioni. Conosceva bene le costellazioni visibili da Tau Ceti, versioni leggermente distorte di quelle terrestri, tra le quali Bootes, che oltre alla lucente Arcturus conteneva lo stesso Sole. Quelle invece erano stelle sconosciute. Keith sentì l’adrenalina entrare in circolo. Sapeva che nuovi settori di spazio si aprivano a gran ritmo, e ogni istante una nuova uscita diventava una scelta possibile nel reticolo delle scorciatoie. A quanto pareva, una scorciatoia giunta da poco all’esistenza aveva reso più stretti gli angoli d’avvicinamento a Tau Ceti. Niente panico, si disse Keith. Poteva ancora arrivare a destinazione con una certa facilità. Doveva semplicemente tornare alla scorciatoia secondo un tracciato un po’ diverso, accertandosi di ridurre a zero lo scostamento dal centro matematico del cono di angoli accettabili per la stazione Grand Central. Eppure… un intero nuovo settore! Con questo, il totale saliva a cinque nell’ultimo anno. “Buon Dio” pensò “sarebbe davvero un peccato che avessero cannibalizzato metà della futura sorella della Starplex per le parti di ricambio. Avrebbero potuto mettere in pista immediatamente un’altra nave-madre esplorativa, se le cose fossero andate in modo diverso.” Keith controllò il registratore di volo, per assicurarsi di poter fare ritorno a quelle coordinate. Gli strumenti sembravano in perfetto ordine. Il suo primo istinto sarebbe stato quello di lanciarsi nell’esplorazione, di scoprire che cosa aveva da offrire quel nuovo settore, ma una scialuppa era progettata soltanto per rapidi trasferimenti attraverso le scorciatoie. Inoltre aveva un appuntamento da rispettare, al quale — consultò l’orologio impiantato — mancavano solo 45 minuti. Abbassò lo sguardo sul pannello di controllo e digitò le istruzioni per un altro passaggio nella rete delle scorciatoie. Poi controllò i parametri che l’avevano condotto lì, e aggrottò le sopracciglia: aveva impostato l’angolo di approccio a Tau Ceti con la massima esattezza. Prima di allora non aveva mai sentito di un trasferimento andato male, però… Quando alzò gli occhi, vide l’astronave. Aveva la forma di un drago, con uno scafo centrale lungo e serpentino e ampie estensioni laterali che sembravano ali. Era un insieme di curve e spigoli smussati, e non c’era alcun segno di interruzioni sulla sua superficie color uovo di pettirosso: né giunzioni, né finestrini, né orifizi o segnali della presenza di motori. Keith aveva giudicato la Starplex una nave bellissima, prima dei recenti sfregi della battaglia, ma pur sempre un manufatto destinato a precise funzioni. Quella nave aliena, invece, era pura arte. La nave-drago si diresse verso la scialuppa di Keith. Secondo i dati che apparvero sullo schermo, era lunga almeno un chilometro. Keith strinse il joystick della scialuppa nel tentativo di spostarsi dalla traiettoria della nave in avvicinamento, ma quando fu a una cinquantina di metri di distanza il drago azzerò improvvisamente la sua velocità relativa. Keith sentiva il cuore battere come un tamburo. Ogni volta che compariva una nuova scorciatoia, il primo compito della Starplex era quello di cercare le tracce dell’intelligenza che l’aveva attivata attraversandola per la prima volta. Ma lì, in quella scialuppa monoposto, non c’erano né strumenti di segnalazione né computer adatti a tentativi di comunicazione, per quanto elementari. A parte questo, quando qualche istante prima aveva esaminato il cielo non aveva visto alcun segno della nave. Qualunque vascello che potesse muoversi così rapidamente e poi azzerare la sua velocità all’istante doveva essere il frutto di una tecnologia avanzatissima. Keith si sentì sopraffatto. Avrebbe avuto bisogno, se non dell’intera Starplex, almeno di un membro dello staff diplomatico ospitato nei moli d’attracco. Premette il tasto che avrebbe dato inizio al ritorno della scialuppa verso la scorciatoia. Non successe nulla. No, non era del tutto esatto. Allungando il collo, Keith riuscì a scorgere i razzi di manovra accendersi all’esterno dell’anello che circondava l’abitacolo. Eppure la scialuppa non accennava a muoversi: le stelle sullo sfondo restavano immobili come rocce. Doveva esserci qualcosa che lo tratteneva. Se si trattava di un raggio trattore, aveva una delicatezza a lui sconosciuta: le scialuppe sono fragili, e un normale raggio trattore avrebbe fatto scricchiolare le giunture dello scafo di vetro-acciaio. Keith contemplò di nuovo la meravigliosa astronave, e proprio mentre la guardava vide un… poteva essere solo un molo d’attracco comparire su un fianco, sotto una delle ali ricurve. Nessuna paratia si era aperta per rivelarlo: un istante prima non c’erano aperture e un istante dopo nella pancia del drago c’era una cavità a forma di cubo. Keith notò che ora la scialuppa si muoveva nella direzione opposta a quella in cui lui le aveva ordinato di dirigersi e andava dritta verso il vascello alieno. A dispetto del suo volere, stava cedendo al panico. Era completamente favorevole al primo contatto, ma lo preferiva in termini più egualitari. E poi aveva una moglie da cui tornare, un figlio lontano, all’università, e una vita che desiderava continuare a vivere. La scialuppa fluttuò nel molo, e Keith vide una parete affiorare dietro di sé e chiudere l’apertura del cubo sullo spazio esterno. L’interno era illuminato su tutti e sei i lati. Probabilmente la scialuppa era ancora sotto l’effetto del raggio trattore: nessuno avrebbe portato dentro un oggetto solo per lasciarlo sfracellare sulla parete opposta, trascinato dalla sua stessa inerzia. Da nessuna parte, però, si scorgevano apparecchi trasmittenti. Mentre la scialuppa continuava a muoversi, Keith tentò di pensare razionalmente: era entrato nella scorciatoia con l’angolo giusto per Tau Ceti, non aveva fatto errori. Eppure, in un modo o nell’altro, era stato dirottato lì. Il che significava che chiunque fosse al controllo di quel drago interstellare conosceva le scorciatoie molto meglio delle razze del Commonwealth. Fu allora che giunse la comprensione. L’orribile comprensione. “Era arrivato il momento di pagare il pedaggio.” 1 Era stato come un dono degli dèi: la scoperta che la Via Lattea era costellata da una vasta rete di scorciatoie artificiali, che permettevano viaggi istantanei fra i sistemi stellari. Nessuno sapeva chi le avesse costruite o per quale scopo. Quale che fosse l’avanzatissima razza che le aveva create, non aveva lasciato altra traccia della sua esistenza. Le indagini effettuate con telescopi iperspaziali suggerivano l’esistenza, nella nostra galassia, di quattro miliardi di uscite indipendenti dalla rete: circa una ogni cento stelle. Le scorciatoie erano facili da individuare nell’iperspazio, circondate com’erano da una inconfondibile sfera di tachioni orbitanti. Ma soltanto venti di esse apparivano attive. Senza dubbio anche le altre esistevano, ma erano irraggiungibili. La scorciatoia più vicina alla Terra si trovava nella nube di Oort di Tau Ceti. Grazie a essa, le navi potevano compiere un balzo di 70 mila anni luce arrivando a Rehbollo, la patria dei waldahudin. O di 53 mila anni luce, in direzione di Flatlandia, dimora della bizzarra razza degli ib. Invece era inaccessibile, per esempio, l’uscita della scorciatoia che si trovava nei pressi della Stella Polare, a soli 800 anni luce di distanza. Quella, come quasi tutte le altre, era dormiente. Una particolare scorciatoia non poteva funzionare da uscita per astronavi in arrivo da un’altra scorciatoia fino a quando non fosse stata usata da qualcuno come punto di partenza. Dunque, la scorciatoia di Tau Ceti era diventata una potenziale uscita per altre razze solo da diciotto anni, cioè dal 2076, quando le Nazioni Unite avevano inviato una sonda ad attraversarla. Tre settimane più tardi, un’astronave waldahud era sbucata dalla stessa scorciatoia… e da quel momento umani e delfini non erano più stati soli. Molti argomentavano che proprio quella era la funzione delle scorciatoie: i vari settori della galassia dovevano restare in quarantena fino a quando almeno una razza in essi presente non raggiungeva la maturità tecnologica. Considerato lo scarsissimo numero di scorciatoie attive, alcuni sostenevano che le due specie senzienti della Terra, l’Homo sapiens e il Tursiops truncatus,fossero tra le prime razze galattiche ad aver raggiunto quel livello. L’anno successivo, alcune navi provenienti dal mondo natale degli ib sbucarono presso Tau Ceti e a Rehbollo, e ben presto le quattro razze stabilirono un’alleanza sperimentale, battezzata il Commonwealth dei Pianeti. Allo scopo di accrescere il numero di scorciatoie utilizzabili, diciassette anni prima ciascun mondo del Commonwealth aveva lanciato trenta “boomerang”, sonde che volavano alla massima velocità consentita dai loro iperpropulsori (22 volte la velocità della luce) in direzione di altrettante scorciatoie dormienti localizzate grazie alla loro corona di tachioni. I boomerang dovevano tuffarvisi e fare ritorno a casa, attivando così le scorciatoie come uscite utilizzabili. Per il momento i “boomerang” avevano raggiunto 21 scorciatoie, entro un raggio di 375 anni luce da ciascuno dei tre mondi natali. All’inizio questi settori erano stati esplorati da piccole astronavi, ma poi il Commonwealth si era reso conto che occorreva una soluzione meno improvvisata: una gigantesca nave-madre dalla quale si potessero lanciare sonde di esplorazione e che fosse utilizzabile non solo come base di ricerca durante la delicata fase iniziale dell’esplorazione di un nuovo settore, ma anche come eventuale ambasciata del Commonwealth. Un grande vascello non limitato a ricerche astronomiche, ma in grado di organizzare missioni di primo contatto. Così un anno prima, nel 2093, era stata lanciata la Starplex. Finanziata in pari misura da ciascuno dei tre mondi, e costruita nei cantieri orbitali di Rehbollo, era la nave più grande che le tre razze avessero mai costruito: 290 metri nel punto di maggiore larghezza, un’altezza di 70 ponti e un volume totale di 3,1 milioni di metri cubi, riempiti da mille membri d’equipaggio e da 54 piccole navi ausiliarie di vario aspetto. Attualmente la Starplex si trovava a 368 anni luce da Flatlandia, in direzione del sud galattico, per esplorare i dintorni di una scorciatoia appena attivata. La stella più vicina era una subgigante di tipo F, e si trovava a 0,25 anni luce di distanza. Era circondata da quattro fasce di asteroidi e non aveva pianeti. Fino a quel momento la missione era stata priva di eventi significativi: nessuna particolarità astronomica osservata, nessun rilevamento di segnali radio alieni. L’equipaggio della Starplex era ormai occupato nei dettagli conclusivi dell’esplorazione. Entro sette giorni un altro “boomerang” avrebbe raggiunto una scorciatoia-bersaglio, questa volta a 376 anni luce da Rehbollo. Il prossimo incarico della Starplex sarebbe stato quello di investigare in quel settore. Tutto sembrava assolutamente tranquillo, finché… «Lansing, adesso devi starmi a sentire.» Keith Lansing smise di camminare lungo il freddo corridoio, sospirò e si massaggiò le tempie. La voce non tradotta di Jag suonava come l’abbaiare di un cane con l’occasionale contorno, per buona misura, di sbuffi e ringhi. La voce tradotta, resa con un antiquato accento di Brooklyn, non era molto migliore: suonava dura, secca, maligna. «Che c’è, Jag?» «La ripartizione delle risorse a bordo della Starplex è completamente sbagliata» abbaiò la creatura «e la colpa è tua. Chiedo che sia rettificata prima del trasferimento alla prossima scorciatoia. Hai danneggiato la divisione fisica assegnando un trattamento preferenziale alle scienze biologiche.» Jag era un waldahud, una creatura irsuta e simile d’aspetto a un maiale a sei zampe. Dopo la fine dell’ultima era glaciale su Rehbollo, le calotte polari si erano fuse, sommergendo gran parte delle terre emerse e costellando di fiumi le terre rimaste asciutte. Gli antenati dei waldahudin si erano adattati a una vita semiacquatica: i loro corpi si erano dotati di un ottimo isolamento termico, costituito da uno strato di grasso coperto di pelliccia bruna, utile per difendersi dal gelo dell’acqua di fiume nella quale vivevano. Keith fece un respiro profondo prima di guardare Jag. “È un alieno, ricordatelo. Comportamenti diversi, educazione diversa.” Tentò di mantenere equanime il tono di voce. «Non credo che l’accusa sia fondata.» Altri latrati. «Tu riservi un trattamento particolare alle scienze biologiche perché la tua sposa dirige quella divisione.» Keith fece una risatina forzata, anche se sentiva le tempie pulsare per la rabbia repressa. «Rissa a volte sostiene il contrario, e cioè che non le do abbastanza risorse. Che resto aggrappato al passato per compiacere voi.» «Lei ti manipola, Lansing. Lei… qual è la metafora umana? Ah sì, ti rigira a suo piacimento.» A Keith venne la tentazione di mostrargli un dito. “E sono tutti così” pensò. “Un intero pianeta di maiali queruli, stizzosi ed eternamente insoddisfatti.” Si sforzò di non mostrare la sua esasperazione. «Che cosa vorresti esattamente, Jag?» Il waldahud sollevò la mano superiore sinistra e con quella destra si toccò una alla volta le dita tozze e pelose. «Altre due sonde assegnate in esclusiva alle missioni delle scienze fisiche. Una banca dati in più sul computer centrale riservata all’astrofisica. Venti membri aggiuntivi alla divisione.» «L’incremento del personale è impossibile» disse Keith. «Non abbiamo più alloggi. Ma vedrò cosa posso fare per le altre richieste.» Fece una pausa di un secondo, poi aggiunse: «Comunque, Jag, in futuro ti accorgerai che è più facile convincermi quando nella discussione non è coinvolta la mia vita privata.» Jag abbaiò con foga. «Lo sapevo!» esclamò la voce tradotta. «Tu prendi le decisioni in base ai sentimenti, non in base alla ragione. Sei inadatto a ricoprire il posto di direttore.» Keith era sul punto di esplodere. Tentò di calmarsi chiudendo gli occhi, con la speranza di evocare un’immagine che gli desse serenità. Si aspettava di vedere sua moglie, ma comparve invece il viso di una bellezza asiatica, più giovane di Rissa almeno di vent’anni, il che servì solo a irritarlo anche con se stesso. Aprì gli occhi. «Senti» disse, con voce malferma «non me ne frega un accidenti se tu approvi o no che abbiano scelto me come direttore della Starplex. Resta il fatto che il direttore sono io, e che lo rimarrò per altri tre anni. Se, in un modo o nell’altro, riuscirai a farmi rimuovere dall’incarico, ricorda che gli accordi sul comando a rotazione stabiliscono che in questo momento debba esserci un umano in questa posizione. Se ti liberi di me, o se io decido di mollare tutto perché ne ho abbastanza di te, continuerai comunque a fare rapporto a un umano. E alcuni di noi non amano molto…» Si interruppe prima di dire “voi maiali”. «Questo atteggiamento non ti fa onore, Lansing. Era per il bene della missione che chiedevo altre risorse.» Keith sospirò ancora. Stava diventando troppo vecchio per quelle schermaglie. «Non intendo continuare la discussione, Jag. Le tue richieste sono state esposte e avranno la considerazione che meritano.» Il waldahud spalancò le quattro narici quadrate. «Sono stupefatto che la regina Trath abbia anche solo concepito l’idea» disse «che avremmo mai potuto lavorare con gli umani.» Fece una giravolta sugli zoccoli neri e risalì il corridoio senza pronunciare un’altra parola. Keith rimase immobile per un paio di minuti facendo esercizi di respirazione, quindi avanzò nel gelido corridoio in direzione degli ascensori. Keith Lansing e sua moglie, Clarissa Cervantes, condividevano un appartamento umano standard a bordo della Starplex: salotto a L, camera da letto, ufficetto con due scrivanie, bagno con sanitari adatti all’uso umano e secondo bagno multispecie. Non c’era la cucina, ma Keith amava darsi da fare ai fornelli e si era procurato un piccolo forno per non rinunciare a quel passatempo. La porta d’ingresso si spalancò e Keith fece irruzione nell’appartamento. Rissa doveva essere arrivata solo da qualche minuto: uscì nuda dalla camera da letto, dove si stava preparando per la doccia di metà giornata. «Ciao, Chesterton» disse sorridendo. Il sorriso però svanì subito, e Keith capì che gli aveva letto la tensione sul volto, dalla fronte corrugata e dalla bocca piegata all’ingiù. «Cos’è successo?» Keith si lasciò cadere sul divano. Da quell’angolazione vedeva il bersaglio per le freccette che Rissa aveva appeso su una parete. Le tre freccette erano tutte piantate nel cerchio centrale da cento punti… Rissa era la campionessa di bordo. «Un altro scontro con Jag.» Rissa annuì. «È la sua natura. Anzi, è la “loro” natura.» «Lo so, lo so. Però, Cristo santo, a volte si fa fatica a sopportarla.» Il loro appartamento aveva una finestra su una parete, una finestra vera, che mostrava il cielo stellato intorno all’astronave. Il panorama era dominato dalla vicina stella di tipo F. Altre due pareti trasmettevano ologrammi e poiché Keith era originario di Calgary, nell’Alberta, e Rissa era nata in Spagna, una parete mostrava il lago Louise alimentato da un ghiacciaio sullo sfondo delle maestose Montagne rocciose canadesi, mentre l’altra mostrava una panoramica del centro di Madrid, con il suo affascinante miscuglio di architetture del Sedicesimo e del Ventunesimo secolo. «Me l’aspettavo che saresti arrivato» disse Rissa. «Avevo proprio voglia di fare una doccia con te.» Per Keith fu una piacevole sorpresa. Si erano fatti la doccia insieme molto spesso appena sposati, quasi vent’anni prima, ma quell’abitudine si era persa con il passare degli anni. La necessità di farsi la doccia due volte al giorno per ridurre al minimo gli odori corporei umani, che i waldahudin trovavano molto fastidiosi, aveva trasformato il rituale della pulizia in un irritante obbligo. Ma forse la vicinanza del loro anniversario aveva reso Rissa più romantica del solito. Keith le sorrise e cominciò a spogliarsi. Rissa entrò nel bagno principale e fece scorrere l’acqua. La Starplex era un mondo totalmente diverso da quello delle astronavi che Keith aveva conosciuto in gioventù, come la Lester B. Pearson, sulla quale si trovava nel momento del primo contatto con i waldahudin. A quei tempi doveva accontentarsi delle docce soniche. C’era qualche vantaggio nel portarsi dietro un oceano in miniatura come parte integrante della nave. Seguì Rissa nella stanza da bagno. Lei era già sotto la doccia e si sciacquava i lunghi capelli neri. Quando uscì da sotto il getto, Keith si affrettò a prendere il suo posto, apprezzando la sensazione del corpo bagnato di lei che scivolava contro il suo. Con gli anni aveva perso la metà dei capelli, e i rimanenti li teneva tagliati corti, ma si strofinò comunque il cranio con vigore, nel tentativo di cancellare il suo litigio con Jag. Lavò la schiena di Rissa e in cambio lei lavò quella di lui. A turno si risciacquarono, poi lui chiuse l’acqua. Se non fosse stato così arrabbiato forse avrebbero fatto l’amore, ma… «Maledizione! Lo detesto» esclamò Keith, cominciando ad asciugarsi. Rissa annuì. «Lo so.» «In realtà non è Jag che detesto, ma me stesso. Non sopporto di sentirmi un bigotto. Si passò l’asciugamano sulla schiena.» Insomma, lo so benissimo che i waldahudin hanno un concetto di buone maniere diverso dal nostro. Lo so e mi sforzo di accettarlo. Però… accidenti, mi detesto anche solo perché lo penso, ma sono davvero tutti uguali. Odiosi, insistenti, aggressivi. Non ne ho mai incontrato uno che non lo fosse. «Si spruzzò il deodorante sotto le ascelle.» Credere di sapere tutto di qualcuno solo perché si sa a quale razza appartiene è un’idea obbrobriosa… è il simbolo di tutto ciò contro cui io combatto. Eppure adesso non riesco a smettere di pensarci. «Sospirò.» Waldahud uguale maiale: nella mia testa i due termini sono diventati intercambiabili. Rissa aveva finito di asciugarsi. Prese una camicetta beige a maniche lunghe e un paio di mutande. «Loro la pensano allo stesso modo di noi, lo sai: tutti gli umani sono deboli, indecisi. Non hanno korbaydin.» Keith rise a denti stretti nell’udire la parola waldahudar. «Io sì, invece» replicò abbassando lo sguardo. «Ovviamente ne ho solo due e non quattro, ma funzionano alla perfezione.» Si infilò un paio di boxer puliti e prese dal cassetto i pantaloni di cotone marrone. Dovette tirare in dentro la pancia per abbottonarli. «Comunque, il fatto che anche loro siano pieni di pregiudizi non migliora la faccenda.» Fece un altro sospiro. «Con i delfini è stata tutta un’altra cosa.» «I delfini sono diversi» intervenne Rissa, prendendo un paio di pantaloni rossi. «Forse però è proprio questa la chiave: sono così diversi da noi che le differenze ci tranquillizzano. Il problema con i waldahudin è che hanno troppe cose in comune con noi.» Andò alla specchiera. Rissa non faceva uso di trucco o fard: la moda del momento, tanto per gli uomini quanto per le donne, esigeva la massima naturalezza. Però indossò due orecchini nei quali erano incastonati diamanti grandi come chicchi d’uva. Le importazioni di diamanti a basso prezzo da Rehbollo avevano fatto crollare il valore delle gemme naturali, ma la loro intrinseca bellezza era ancora insuperabile. Anche Keith aveva finito di vestirsi. Si era messo una camicia bruna, di tessuto sintetico lavorato a spina di pesce e un cardigan beige. Grazie al cielo, una delle prime zavorre che l’umanità aveva deciso di scaricare dopo essersi spinta nell’universo era l’usanza di giacca e cravatta. Ormai quell’abbigliamento non era più richiesto neanche nell’occasione più formale. Con l’avvento sulla Terra della settimana lavorativa di quattro giorni, e poi di tre, ogni distinzione tra tenuta da casa e da ufficio era scomparsa. Guardò Rissa. Era davvero bellissima, a quarantaquattro anni. Forse l’idea di fare l’amore non era malvagia. Che importava se si erano appena vestiti? E poi c’erano stati quei pensieri pazzeschi… Bip. «Karendaughter chiama Lansing.» A parlare del diavolo. Keith alzò la testa e parlò al soffitto. «Aperto. Che c’è?» Dall’altoparlante a muro uscì la voce calda di Lianne Karendaughter. «Notizie stupende, Keith. Un Watson appena mandato da CITA dice che è stata attivata una nuova scorciatoia!» Keith aggrottò le sopracciglia. «Il boomerang ha raggiunto Rehbollo 376A prima del previsto?» A volte succedeva. Valutare le distanze interstellari era un gioco pieno di incognite. «No, si tratta di una scorciatoia diversa, e si è attivata perché qualcosa… o qualcuno, se siamo fortunati… l’ha attraversata dalla sua parte.» «È uscito qualcosa di inatteso dalle scorciatoie dei mondi d’origine?» «Per ora no» rispose Lianne, con la voce ancora piena di entusiasmo. «Abbiamo saputo dell’attivazione soltanto perché un modulo di carico ha imboccato accidentalmente la nuova scorciatoia.» Keith si alzò in piedi di scatto. «Richiama tutte le sonde» ordinò. «Convoca Jag sul ponte e allerta tutte le stazioni per una potenziale situazione di primo contatto.» Si affrettò a uscire dall’appartamento, seguito a ruota da Rissa. Beta Draconis Keith Lansing esaminò l’interno del molo d’attracco dello strano vascello alieno. Anche lì, come fuori, non c’erano tracce di giunture, di attrezzature, di discontinuità agli spigoli delle sei lucenti facce del cubo. Quando erano state scoperte le scorciatoie, tutti i giornali avevano riportato un detto di un secolo prima, attribuito a uno scrittore dello Sri Lanka, Arthur C. Clarke: “Ogni tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia”. Le scorciatoie erano magia. E lo stesso valeva per quella bizzarra, meravigliosa astronave, quell’astronave che nel muoversi sembrava negare le leggi di Newton… Keith trasse un respiro profondo. Sapeva che cosa stava per accadere, se lo sentiva nelle ossa: avrebbe incontrato i costruttori delle scorciatoie. Il tragitto della scialuppa nella stiva deviò leggermente verso il basso e poco dopo si arrestò sulla piatta superficie del molo. Keith sentì il peso ritornare, aumentare lentamente fino a farlo posare sul pavimento. La gravità continuò a crescere, sempre di più, finché raggiunse lo standard della Starplex. E non smise di crescere. Keith dovette fronteggiare un’ondata di panico quando contemplò la possibilità di finire schiacciato dal suo stesso peso. Alla fine, però, la gravità si stabilizzò… esattamente sul livello che Keith manteneva nella propria cabina, che corrispondeva al nove per cento in più della gravità standard del Commonwealth. Ovvero alla gravità terrestre al livello del mare. Poi, all’improvviso, ogni cosa attorno a lui diventò… normale. Era sulla Terra. Il margine di un bosco, aceri e abeti rossi che svettavano verso un cielo con una sfumatura d’azzurro che lui non aveva mai visto su nessun altro pianeta. La luce aveva l’esatto colore di quella solare… ed era identica a quella delle lampade antinostalgia che lui e Rissa tenevano nel loro appartamento sulla Starplex. Sulla destra c’era un lago coperto di ninfee, contornato da macchie di giunchi. Nel cielo volava uno stormo di oche canadesi, nell’inconfondibile formazione a V e infine, per togliere gli ultimi dubbi, ecco una gibbosa luna diurna sulla quale si distinguevano con chiarezza il Mare della Tranquillità e, più a destra, la forma tondeggiante del Mare delle Crisi. Un’illusione, ovviamente. Realtà virtuale. Per farlo sentire a suo agio. Forse potevano leggergli i pensieri, o forse avevano già avuto contatti con viaggiatori provenienti dalla Terra. La scialuppa non possedeva sensori raffinati, ma lì dentro c’era aria. Sentiva addirittura… Dio, sentiva i grilli, le rane e, sì, l’ossessivo richiamo di una strolaga, tutti suoni trasmessi attraverso lo scafo della nave. Non c’era modo di analizzarla, ma non era possibile che avessero curato ogni dettaglio per poi rovinare tutto sbagliando una banalità come la miscela di gas corrispondente all’aria respirabile dagli esseri umani. Eppure esitava. Il viaggio a Tau Ceti doveva essere un trasferimento da nulla e prima della partenza Keith non si era nemmeno preoccupato di controllare se nell’armadietto di emergenza della scialuppa ci fosse una tuta spaziale. Quello, tuttavia, era chiaramente un invito: un invito al primo contatto. E il primo contatto era proprio ciò per cui la Starplex era stata concepita. Keith toccò una serie di comandi per scollegare le chiusure di sicurezza che impedivano l’apertura del portello posteriore della scialuppa quando era collegato a un anello di accesso. Il pannello di vetro-acciaio scivolò nel soffitto. Keith azzardò un respiro… E starnutì. “Cristo” pensò “anche il polline. Questa gente è davvero in gamba.” Respirò ancora e sentì tutti gli odori che avrebbe percepito se si fosse davvero trovato sulla Terra: erba e fiori di campo, legno umido e migliaia di altri sentori sottilmente miscelati. Avanzò di un passo. Avevano pensato a tutto, una ricostruzione perfetta. C’erano persino le sue impronte sulla terra soffice, un elemento che quasi tutte le simulazioni di realtà virtuale trascuravano. Sentiva addirittura la consistenza del terreno attraverso le suole delle scarpe, sentiva l’elasticità dell’erba sotto i piedi, l’orlo aguzzo di una pietra. Era tutto perfetto… Il sospetto arrivò in quel momento. Forse si trovava davvero sulla Terra. I costruttori delle scorciatoie si erano dimostrati in grado di balzare da un punto all’altro del cosmo in un batter d’occhio, e forse quello che stava vedendo era autentico. Forse era davvero a casa. Però nel molo d’attracco non c’era una seconda scorciatoia, non aveva visto il lampo color porpora di radiazione Soderstrom. E, in ogni caso, dove diavolo avrebbero potuto trovare sulla Terra un simile angolo di natura inviolata? Alzò lo sguardo in cerca di un aereo o della scia di condensazione di uno shuttle. Eppure… lo starnuto significava che avevano sintetizzato le giuste molecole di allergene, oppure che erano riusciti a manipolargli il cervello in maniera molto raffinata. All’improvviso Keith sentì un tuffo al cuore. Uno zoo! Un maledetto zoo e lui era uno degli esemplari in mostra. Era in trappola, prigioniero. Fece dietro front, deciso a rientrare in tutta fretta nella scialuppa, quando vide l’uomo di vetro. «Ciao, Keith» disse. Ogni parte del suo corpo era trasparente, come se fosse stata fatta di un materiale perfettamente cristallino, che fluiva a ogni movimento. La sagoma trasparente mostrava soltanto una vaghissima traccia di colore, un tocco di fredda acquamarina. Keith rimase muto per parecchi secondi. I tonfi del suo cuore coprivano tutti i suoni della natura. Alla fine disse: «Tu sai chi sono?» «Più o meno» rispose l’uomo di cristallo. Aveva una voce maschile, profonda. Il corpo, benché di forma umanoide, appariva stilizzato, come i manichini delle boutique più raffinate. La testa era un ovale privo di lineamenti, con la parte più appuntita in corrispondenza del mento. Braccia e gambe, anche se ben proporzionate, erano lisce, senza traccia di muscolatura. Pancia e torace erano piatti e anche il trasparente organo sessuale era semplificato, a forma di missile. Keith fissò l’uomo di vetro, incerto sul da farsi. Alla fine, abbandonando ogni speranza di capire, disse: «Voglio andarmene.» «Puoi farlo» ribatté l’uomo di vetro, incrociando le braccia trasparenti. «Quando lo desideri. La tua scialuppa è pronta a prenderti a bordo.» Non c’era segno di un orifizio vocale sulla schematica testa-uovo, ma la sensazione di Keith fu che la voce provenisse da lì. «Questo… questo è uno zoo?» chiese. Si udì un suono simile a uno scampanellio… una risata vetrosa? «No.» «E non sono prigioniero?» Un altro scampanellio. «No. Sei un… la parola giusta è “ospite”. Sei mio ospite.» «Come fai a conoscere la mia lingua?»» «In realtà non la conosco. È il mio computatore che fa da interprete.» «Siete stati voi a costruire le scorciatoie?» «A costruire cosa?» «Le scorciatoie. I passaggi interstellari, i portali cosmici o comunque li chiamiate.» «“Scorciatoie”» ripeté l’uomo di vetro, annuendo. «Un buon nome. Sì, le abbiamo create noi.» Il cuore di Keith accelerò. «Che cosa vuoi da me?» Un’altra scampanellata. «Sembri sulle difensive, Keith. Non c’è qualche formula standard che dovresti usare in una situazione di primo contatto? Oppure è troppo presto?» Troppo presto? «Be’, sì.» Keith deglutì. «Io, G. K. Lansing, direttore della Starplex, ti porgo l’amichevole saluto del Commonwealth dei Pianeti, un’associazione pacifica fra quattro razze senzienti di tre diversi pianeti.» «Ah, così va meglio. Grazie.» Keith si stava sforzando di accettare la situazione, l’umanoide trasparente, il paesaggio ricostruito, la bellissima astronave, il dirottamento della scialuppa. «Vorrei ancora sapere che cosa ti aspetti da me» disse infine. L’uomo di vetro inclinò in direzione di Keith la testa priva di lineamenti. «Dunque, a rischio di apparire melodrammatico, devo dirti che è in gioco il destino dell’universo.» Keith batté le palpebre. «Inoltre, cosa ancora più importante» continuò l’uomo di vetro «ho bisogno di farti alcune domande. Perché tu, Keith Lansing, hai in mano non soltanto la chiave del futuro, ma anche quella del passato.» 2 Un nuovo settore di spazio… e per giunta un settore apertosi inaspettatamente. Keith e Rissa corsero verso il ponte e vi entrarono dal boccaporto laterale, il che significava passare accanto a Lianne Karendaughter. Brillante (dottorato di ricerca in ingegneria elettrica al Mit), bella (delicati lineamenti asiatici, chioma color platino trattenuta da forcine dorate) e giovane, Lianne si era unita alla Starplex appena sei settimane prima, dopo essersi distinta per l’ottimo servizio prestato come ingegnere capo su un grande incrociatore commerciale. Quando Keith le passò davanti gli fece un sorriso… un sorriso radioso, una supernova di sorriso. Keith sentì un senso di vuoto allo stomaco. Apparentemente il ponte della Starplex non aveva né pareti né pavimento né soffitto. Era imbozzolato in un ologramma sferico che rappresentava lo spazio intorno alla nave, cosicché i computer sembravano fluttuare tra le stelle. In realtà era una stanza rettangolare, e in ciascuna parete si apriva una porta resa invisibile dal panorama cosmico. Quando Keith e Rissa aprirono quella di mezzo, facendola scorrere lateralmente, fu come se lo spazio stesso si aprisse, rivelando corridoi che lo perforavano. Apparentemente a mezz’aria, ma in realtà appesi alle pareti appena sopra le porte, c’erano terzetti di orologi luminosi che segnavano il tempo secondo le convenzioni dei tre mondi. Keith e Rissa si affrettarono verso i loro computer, correndo apparentemente nello spazio vuoto. I computer del ponte erano disposti in due file, ciascuna con tre postazioni. Quello del direttore si trovava al centro della seconda fila. La prima fila era costantemente occupata, mentre le postazioni posteriori venivano usate solo in caso di necessità: Jag, Keith e Rissa svolgevano la maggior parte del lavoro nei loro uffici personali. Uno dei monitor di Keith mostrava costantemente lo schema del personale autorizzato a usare le postazioni computerizzate del ponte. Nella prima fila era di turno la squadra alfa: Operazioni interne Lianne Karendaughter Timone Thorald Magnor Operazioni esterne Rombo Scienze fisiche Jag Kandaro em-Pelsh Direttore Keith Lansing Scienze biologiche Clarissa Cervantes Chi dirigeva le operazioni interne aveva la responsabilità di ogni attività di bordo, incluse le operazioni ingegneristiche. Nella parte opposta della stanza c’era il suo naturale complemento, il dirigente delle operazioni esterne, che sovrintendeva alle attività dei moli d’attracco e alle missioni delle 54 astronavi assortite che vi si trovavano. Alla sinistra di Keith c’era la postazione di Jag, capo dei fisici, alla sua destra un altro naturale complemento: Rissa, capo dei biologi. Dal momento che gli esperimenti di fisica erano condotti perlopiù a bordo della nave, era logico che la postazione delle operazioni interne fosse di fronte a quella delle scienze fisiche. In tal modo, a Lianne era sufficiente voltarsi, oppure far ruotare il computer posto su una pedana girevole, per avere uno scambio di opinioni con Jag. Allo stesso modo, la maggior parte del lavoro dei biologi veniva condotto ben lontano dalla nave-madre, e Rombo delle operazioni esterne era nella posizione migliore per consultarsi con Rissa (essendo un ib, Rombo aveva una vista a 360 gradi e non doveva nemmeno girarsi per vederla). Allo scopo di rendere ancor più facile la comunicazione, gli ologrammi in tempo reale alti dieci centimetri delle teste di Lianne e Thor, nonché quello a figura intera di Rombo, fluttuavano costantemente oltre il bordo delle consolle di Jag, Keith e Rissa. Parallelamente, sulle tre postazioni di prima fila erano sospesi gli ologrammi dei tre occupanti della seconda fila. Da una parte e dall’altra della stanza c’erano due grandi vasche, coperte da campi di forza per trattenere l’acqua, e ciascuna postazione computerizzata poteva essere azionata dai delfini che si trovavano nelle vasche. Dietro le postazioni con i computer c’erano nove sedie multiforma destinate agli osservatori. Keith vide Jag entrare dalla porta di tribordo. Il waldahud attraversò il campo stellare muovendosi a passettini sulle tozze gambe arcuate, con le quattro braccia rigide lungo i fianchi. Jag indossava due soli capi d’abbigliamento, scelti per la loro praticità: una cintura cui erano appese varie sacche e una fascia dotata di tasca avvolta intorno al braccio superiore sinistro. A parte la folta pelliccia, quell’impossibile creatura era praticamente nuda, anche se Keith moriva di freddo. Le aree comuni della nave erano mantenute a 15 gradi, il che equivaleva a un torrido pomeriggio estivo su Rehbollo. Quando Keith aveva lasciato l’appartamento si era quasi aspettato di vedere il suo fiato fare le nuvolette. Non appena Jag sedette, i suoi due monitor si configurarono come rettangoli con base uguale a metà dell’altezza. Il waldahud poteva tenerne sotto controllo due contemporaneamente, uno con i due occhi verticali di sinistra e uno con i due occhi verticali di destra. Come gli umani, i waldahudin avevano cervelli a due lobi, ma in loro ciascun emisfero era in grado di elaborare una completa immagine tridimensionale. L’espressione di Jag non tradiva alcuna emozione… anche se Keith non sarebbe stato comunque in grado di decifrarne il significato. A quanto pareva, il loro alterco di un’ora prima era stato del tutto dimenticato. Ovvio, si disse Keith. Non era stato che pura routine, almeno per uno dei due. Scosse la testa e si girò. Thorald Magnor, alla postazione del Timone, era un gigantesco umano di quasi cinquant’anni, con una spavalda barba rossa. Alle operazioni esterne, la multisedia era stata riassorbita nel pavimento, e la consolle aveva accorciato le smilze gambette per adattarsi al nuovo utente. Rombo, come tutti gli ib, sembrava una sedia a rotelle di cemento, con un’anguria sul sedile. Uno dei monitor di Keith mostrava già il rapporto di CITA, il Calcolatore iperspaziale e telescopio astrofisico, sulla scorciatoia appena attivata. L’uscita si trovava nel Braccio di Perseo, a circa 90 mila anni luce dalla loro posizione. Le notizie finivano qui, a parte il fatto che qualcosa doveva averla attraversata di recente per attivarla. Che cosa fosse quel qualcosa e in quale punto della rete fosse finito era un’ipotesi che nessuno osava azzardare. «Tutti in ascolto» disse Keith. «Cominceremo con una sonda standard di classe alfa. Thor, portaci a venti chilometri dalla scorciatoia.» «Dammi un paio di secondi, capo» rispose Thor. Keith vedeva simultaneamente la faccia simulata di Thor nell’ologramma in miniatura e la sua nuca, autentica, nella postazione davanti alla propria. La faccia era larga e squadrata, barba e capelli erano lunghi e scomposti. Una volta, nell’appartamento di Thor, Keith aveva visto un elmo vichingo… l’ideale, per lui. «Abbiamo una nave sonda sul punto di attraccare.» Un istante più tardi, la rete di sensori di Rombo lampeggiò. «È mio piacere annunciare che la Marc Garneau è ora ormeggiata al molo 8» disse con voce dall’accento britannico all’orecchio di Keith. Per convenzione, le voci waldahud erano tradotte con accento vecchia New York, mentre agli ib erano assegnate inflessioni britanniche. Serviva a facilitare l’immediata identificazione di chi aveva parlato, perché le voci tradotte arrivavano tutte dalla stessa fonte, l’impianto cocleare dell’ascoltatore. «Okay, capo» disse Thor. «Si parte.» Poco più avanti, Keith vedeva le grandi mani di Thor danzare sui comandi. Il panorama cosmico che circondava il ponte cominciò a muoversi. Le stelle tornarono immobili dopo circa cinque minuti. «Come richiesto, capo» disse la voce di Thor. «Ventimila metri dalla scorciatoia: non uno di più, non uno di meno.» «Grazie» disse Keith. «Rombo, puoi lanciare la sonda.» I tentacoli di Rombo, simili a corde, schioccarono sulla consolle come frustate sulla schiena di un servo recalcitrante. La sua rete di sensori lampeggiò. «Sarà un piacere.» Un diagramma della sonda apparve su uno dei monitor di Keith: un cilindro argenteo largo un metro e lungo quattro, con la superficie ingombra di sensori, scanner, telecamere e CCD. La sonda era dotata di un semplice propulsore, con quattro gruppi di razzi per le correzioni di rotta: un iperpropulsore costava troppo per rischiarlo su una sonda che poteva anche non ritornare. La sonda accelerò in un tubo guidamassa, che attraversava uno dei moduli abitativi superiori della Starplex e non appena fu nello spazio tutti i membri dell’equipaggio che si trovavano sul ponte videro il luccichio dei suoi propulsori sulla sfera olografica che li circondava. La sonda ruotava sul suo asse per esporre l’intero panorama celeste a ciascuno dei suoi strumenti. La sonda non aveva alcun obiettivo evidente… non ancora, per lo meno, ma la sua rotta era stata calcolata in modo tale da farle imboccare la scorciatoia con l’esatta angolazione specificata da CITA. Quando vi entrò, la sonda sembrò svanire, inghiottita da un sottile anello di fuoco violetto. «Mi si permetta di osservare che il passaggio nella scorciatoia è avvenuto come di norma» fece rapporto Rombo con il suo rotondo accento oxfordiano. Cominciò l’attesa. Ciascuno esprimeva a suo modo la tensione: Lianne, alle operazioni interne, tamburellava con le unghie smaltate sul bordo della consolle; le luci della rete di Rombo lampeggiavano senza formare pittogrammi coerenti, segno di semplice agitazione mentale; Jag si tormentava la pelliccia e sfregava luna sull’altra le traslucide placche dentali, producendo un appena avvertibile effetto gesso-sulla-lavagna; Keith si alzò e cominciò a passeggiare; Rissa si teneva occupata riordinando i file sul computer. Soltanto l’imperturbabile Thorald Magnor sembrava tranquillo, stravaccato com’era sulla sedia, con i piedi appoggiati alla consolle e le mani intrecciate sulla criniera arancione all’altezza della nuca. Malgrado l’atteggiamento di Thor, tuttavia, c’era davvero motivo di preoccupazione. Dieci anni prima, un “boomerang” lanciato da Tau Ceti aveva raggiunto il bersaglio: una scorciatoia dormiente, nei pressi di Tejat Posterior, una stella di classe M3 nella costellazione dei Gemelli. Quel “boomerang” non era mai tornato a Tau Ceti. Al suo posto, proprio nel momento in cui sarebbe dovuto rientrare, dalla scorciatoia di Rehbollo era stata sparata una levigata sfera di metallo. Le successive analisi stabilirono che quella sfera era tutto ciò che rimaneva della sonda, dopo che qualche fenomeno sconosciuto aveva sommariamente smantellato tutti i suoi legami molecolari interni. La parola “fenomeno” era stata scelta deliberatamente per i rapporti ufficiali, quelli che erano stati resi pubblici, ma erano in pochi a credere che un simile risultato potesse derivare da un processo naturale… anche considerando l’eventualità che la scorciatoia di Tejat Posterior portasse diritto nel nucleo di una stella. Gli ipotetici responsabili vennero soprannominati Sbattiporta, perché avevano metaforicamente sbattuto la porta delle stelle sulla faccia collettiva del Commonwealth. Ulteriori sonde iperspaziali, fornite di pesanti armature, erano state subito inviate verso Tejat Posterior (da porte d’entrata ben lontane dai mondi originari del Commonwealth), ma al loro arrivo mancavano ancora due anni. Fino a quel momento, il mistero degli Sbattiporta non aveva avuto soluzione… ma c’era sempre il timore che un loro rappresentante potesse sbucare da qualche scorciatoia. «Registro con sollievo un impulso tachionico» annunciò Rombo. Keith tirò un sospiro di sollievo. Non si era reso conto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo. L’impulso significava che qualcosa stava per arrivare dalla scorciatoia: la sonda era di ritorno. Tutti fissarono la scorciatoia crescere da un punto infinitesimo a un cerchio di un metro con un contorno violetto. L’oggetto cilindrico ne venne espulso come un tappo di bottiglia. Keith fece un lieve cenno di assenso: la sonda sembrava indenne. Fece manovra per dirigersi verso la Starplex, il che significava che i suoi sistemi elettronici erano in funzione, e s’infilò nel tubo di lancio raggiungendo il suo ormeggio. Le venne attaccato il cordone ombelicale e i dati in essa immagazzinati furono scaricati a Phantom, il computer centrale della Starplex. «Diamo un’occhiata» disse Keith, e Rombo subito lo accontentò, sostituendo l’ologramma sferico dello spazio esterno alla Starplex con ciò che la sonda aveva visto all’altra estremità della scorciatoia. Sulle prime sembrò semplice spazio con diverse costellazioni. Ci furono alcuni brontolii di disappunto. C’era sempre la speranza di vedere un’astronave, un vascello della razza che aveva portato in vita la scorciatoia. Jag scese dalla sedia e fece il giro della sala fino a trovarsi di fronte alle due file di computer. Ruotò sugli zoccoli, scrutando in tutte le direzioni l’ologramma, poi cominciò a esporre ciò che era evidente a tutti. «Ebbene» disse la voce tradotta, con l’accento di Brooklyn che sovrastava i latrati «sembra un normale spazio interstellare. Proprio ciò che ci si può aspettare dal Braccio di Perseo: un gran numero di stelle azzurre, non troppo ammassate.» Si interruppe e indicò un punto del cielo. «La vedete questa banda luminosa? Siamo sul bordo interno del Braccio di Perseo e dietro c’è il Braccio di Orione. Da qui non sono visibili né Galath né Hotspot, ma con un telescopio potremmo vedere il Sole.» Si sentirono gli zoccoli neri ticchettare sul pavimento invisibile mentre Jag cominciava la circumnavigazione del ponte. «L’unica stella abbastanza brillante da appartenere alla sequenza principale è probabilmente quella.» Indicò un puntino biancazzurro, che era effettivamente più luminoso della media. «Tuttavia non c’è segno di un disco visibile, quindi ci troviamo almeno a miliardi di chilometri di distanza. Potremmo ovviamente inviare un paio di sonde a fare un test di parallasse per misurare la distanza, quando saremo al di là della scorciatoia, anche se non considero una stella di classe A come un candidato probabile per avere pianeti abitabili. Tuttavia, mi sembra un posto buono come un altro per dare avvio alla ricerca degli esseri che hanno attivato l’uscita.» «Dunque ritieni che potremmo andare dall’altra parte in tutta sicurezza?» domandò Keith. Il waldahud si girò e lo fissò. I due occhi di sinistra ammiccarono. «Non c’è segno di pericolo immediato» rispose. «In seguito controllerò gli altri dati della sonda, ma quest’area sembra… be’, semplice spazio.» «D’accordo, allora proviamo a…» «Un attimo» lo interruppe Jag, con lo sguardo fisso su una porzione dell’ologramma che si trovava alle spalle di Keith. Il waldahud andò verso il direttore e lo oltrepassò, arrivando alle sedie oltre la sua postazione. «Un attimo» ripeté. «Rombo, quanto tempo di registrazione dell’ologramma è rimasto?» «Devo ammettere con desolazione che abbiamo esaurito già da due minuti la registrazione in tempo reale» rispose l’ib dalla consolle delle operazioni esterne. «Dopodiché ho fatto ripartire la registrazione.» Jag si avvicinò alla parete… era un po’ come fare due o tre passi verso una montagna lontana, sperando di riuscire a vederla meglio. Scrutò nel buio. «Quel punto laggiù» disse, facendo un movimento circolare col braccio superiore sinistro per indicare un’ampia sezione del campo stellare. «C’è qualcosa di strano… Rombo, accelera la registrazione. Mandala di seguito, senza interruzioni, a dieci volte la velocità normale.» «Ti assecondo senza esitazione» disse Rombo, con uno schiocco di frusta. «È impossibile» esclamò Thor, che si era girato per guardare a sua volta. Fece per alzarsi dalla postazione del Timone. «Invece è proprio così» disse Jag. «Che c’è?» domandò Keith. «Guarda tu stesso» ribatté Jag. «Vedo solo un ammasso di stelle che tremolano.» Jag alzò le spalle superiori, nel gesto waldahud che significava conferma. «Appunto. Proprio come in una limpida notte invernale sulla tua mirabile Terra, senza dubbio. A parte il fatto che le stelle non tremolano, quando sono viste dallo spazio» disse. Gamma Draconis “Tu hai in mano” aveva detto l’uomo di vetro “non soltanto la chiave del futuro, ma anche quella del passato.” Le sue parole riecheggiavano nella mente di Keith. Osservò gli alberi, il lago, il cielo azzurro. Okay, okay… Vetro aveva detto che quella non era una gabbia né uno zoo, e che lui poteva andarsene in qualunque momento. Però gli girava la testa. Forse era un boccone troppo grosso da inghiottire tutto in una volta, benché avessero tentato di fornirgli un ambiente familiare. O forse quella sensazione era un effetto collaterale del sondaggio mentale di Vetro… Keith sospettava ancora che la situazione potesse essere quella. Qualunque fosse la verità, si sentiva la testa leggera e decise che era meglio non restare in piedi. Prima si inginocchiò, poi scelse una posizione più comoda: accovacciato, con le gambe che sporgevano di lato. Si accorse con stupore di essersi macchiato d’erba le ginocchia dei pantaloni. L’uomo di vetro fluttuava nella posizione del loto, a circa due metri da Keith. «Ti sei presentato come G. K. Lansing.» Keith annuì. «Per che cosa sta la G?» «Gilbert.» «Gilbert» ripeté Vetro e annuì ripetutamente, come se la risposta fosse stata densa di significato. Keith era perplesso. «In realtà preferisco il secondo nome, Keith.» Fece una risatina imbarazzata. «Lo preferiresti anche tu, se il tuo primo nome fosse Gilbert.» «Quanti anni hai?» «Ho 46 anni.» «Ho capito bene? Solo 46?» La creatura aveva un tono strano, a metà tra l’incredulo e l’incuriosito. «Be’, sì. Anni della Terra, è chiaro.» «Sei molto giovane» disse Vetro. Keith inarcò le sopracciglia, pensando alla sua avanzata calvizie. «Parlami della tua compagna» lo sollecitò Vetro. Gli occhi di Keith si strinsero. «Perché dovrebbe interessarti?» Lo scampanellio di una risata. «A me interessa tutto.» «Chiedermi della mia compagna, però, è… di sicuro ci sono argomenti più importanti da discutere, prima.» «Per te ci sono argomenti più importanti?» Keith rifletté per qualche istante, prima di rispondere. «Be’… no, in realtà non ce ne sono.» «Allora parlami di lei… è di sesso femminile, giusto?» «Sì.» «Parlami di lei.» Keith scrollò le spalle. «Si chiama Rissa, che sta per Clarissa. Clarissa Maria Cervantes.» Sorrise. «Il suo cognome mi fa sempre pensare a Don Chisciotte.» «A chi?» «Don Chisciotte della Mancia. È l’eroe di un romanzo di uno scrittore che si chiama Cervantes.» Si interruppe. «Ti piacerebbe, Cervantes… una volta ha scritto un libro a proposito di un uomo di vetro. Comunque Don Chisciotte era un cavaliere errante, intrappolato in una vicenda fatta di nobili gesta e di obiettivi irraggiungibili. Anche se…» «Anche se, cosa?» «Be’, la cosa buffa è che Rissa diceva che ero io a essere donchisciottesco.» Vetro inclinò la testa, perplesso, e Keith capì che non era riuscito a intuire la relazione tra le parole “Don Chisciotte” e “donchisciottesco”. «Essere donchisciottesco significa avere un comportamento simile a quello di Don Chisciotte» spiegò. «Cioè visionario, romantico, poco realistico… essere un idealista votato a raddrizzare i torti.» Scoppiò a ridere. «Sia chiaro, non mi sono accontentato di amare da lontano una Rissa pura e casta, ma credo di avere effettivamente la tendenza a impegnarmi in battaglie che altre persone evitano, o di cui non sono nemmeno consapevoli. E in fondo…» La trasparente testa ovoidale s’inclinò leggermente. «Sì?» «In fondo» proseguì Keith allargando le braccia, come a indicare non soltanto la foresta simulata ma qualunque cosa esistesse al di là «le irraggiungibili stelle le abbiamo raggiunte, giusto?» A quel punto si azzittì, un po’ imbarazzato. «Comunque tu volevi sapere di Rissa. Ormai siamo sposati, con legame permanente, da quasi vent’anni. Lei è una biologa, anzi un’esobiologa, per essere precisi: è specializzata nello studio della vita non originaria della Terra.» «E tu la ami?» «Moltissimo.» «Avete bambini.» Keith la interpretò come una domanda, anche se la voce di Vetro non aveva avuto un’intonazione interrogativa. «Uno. Si chiama Saul.» «Sole? Come la vostra stella?» «No, Saul. S-A-U-L. In ricordo dell’uomo che prima di morire è stato il mio migliore amico, Saul Ben-Abraham.» «Allora il nome completo di tuo figlio è Saul Lansing-Cervantes, giusto?» Keith era sorpreso che Vetro conoscesse le convenzioni umane sui nomi. «Sì, è giusto.» «Saul Lansing-Cervantes» ripeté Vetro, con lo sguardo perso nel vuoto come se fosse assorto in chissà quali riflessioni. Tornò a guardare Keith. «Scusami. Direi che è un nome… molto musicale.» «Questo sì che è buffo. Se conoscessi il ragazzo lo capiresti anche tu» disse Keith. «Voglio bene a mio figlio, ma non ho mai conosciuto nessuno che abbia meno talento musicale di lui. Adesso ha 19 anni e va all’università. Studia fisica, una materia per la quale è invece molto portato, e ritengo che un giorno si farà un nome per conto suo in questo campo.» «Saul Lansing-Cervantes… tuo figlio» disse Vetro. «Affascinante. Però continuiamo ad allontanarci dall’argomento Rissa.» Keith lo fissò per un attimo, perplesso. Poi scrollò le spalle. «È una donna meravigliosa. Intelligente. Calda, divertente. Bella.» «Hai detto che avete un legame permanente.» «Esatto.» «Il che significa… monogamia, giusto? Tu non vai con nessun’altra donna.» «Già.» «Senza eccezioni?» «Senza eccezioni, sì.» Fece una pausa. «Finora.» «Finora? Stai forse contemplando la possibilità di modificare questa relazione?» Keith distolse lo sguardo. Era pazzesco. Cosa poteva saperne quell’alieno del matrimonio umano? «Passiamo oltre» disse. «Come?» domandò Vetro. «Oltre, passiamo oltre. A un altro argomento.» «Ti senti in colpa, Keith?» «Chi ti credi di essere, la mia coscienza?» «Sono semplicemente interessato a te, nient’altro.» «Interessati a qualcos’altro.» «Spiacente» ribatté Vetro. «Dove hai conosciuto Rissa?» «Alla Belle Aurore. I tedeschi erano in grigio, lei in azzurro.» «Come?» «Scusa. Era una frase di un altro dei miei eroi cavalieri erranti. L’ho conosciuta a una festa a Nuova Pechino, la colonia terrestre su Tau Ceti IV. Lei lavorava nello stesso laboratorio di un mio ex compagno di studi.» «È stato… com’è quella frase? Ah sì, è stato amore a prima vista?» «No. Sì. Non so.» «E siete sposati da vent’anni?» domandò Vetro. «Ci manca poco. Il nostro anniversario cade la settimana prossima.» «Vent’anni» ripeté Vetro. «Un battito di ciglia.» Keith aggrottò le sopracciglia. «In realtà una simile durata è considerata un risultato notevole.» «Scusami per il commento» disse Vetro. «E accetta le mie congratulazioni.» Una pausa. «Che cosa ti piace di più di Rissa?» Keith si strinse nelle spalle. «Non lo so. Diverse cose. Mi piace che si accontenti di essere ciò che è. Io invece tendo a mettere su arie, fino a fingere, a volte, di avere realizzato più di ciò che ho fatto, o di essere più raffinato di quel che sono. In effetti, tra gli esseri umani è frequente per chi raggiunge una posizione di rilievo soffrire della cosiddetta “sindrome dell’impostore”, cioè il timore che gli altri scoprano che la posizione raggiunta è in realtà immeritata. So di soffrirne un po’ anch’io, Rissa invece ne è immune. Non finge mai di essere ciò che non è.» Vetro annuì. «E poi mi piace il suo equilibrio, la sua fermezza di carattere. Se qualcosa va male, io tendo a sudare e a irritarmi. Lei sorride e fa ciò che deve fare per rimettere le cose a posto. Oppure, se nulla può essere fatto, accetta la situazione.» Keith si interruppe. «Sotto molti aspetti è una persona migliore di me.» Per qualche istante Vetro sembrò riflettere su quell’affermazione. «Mi sembra che dovresti tenertela stretta, Keith.» Keith fissò l’uomo trasparente, perplesso. 3 Mattoncini di un gioco di costruzioni. Ecco la prima immagine che si era presentata alla mente di Keith Lansing due anni prima, quando aveva assistito all’assemblaggio dei componenti della Starplex nei cantieri orbitali di Rehbollo. La gigantesca nave era fatta di soli nove pezzi, otto dei quali sembravano identici. Il pezzo più grande era la combinazione centrale stelo-disco. Il disco aveva un diametro di 90 metri e uno spessore di 30. Lo stelo, una colonna squadrata, si estendeva dal centro del disco per 90 metri in alto e per altrettanti in basso, portando l’altezza complessiva della Starplex a 210 metri. Le antenne paraboliche di due radiotelescopi iperspaziali emergevano dalle calotte alle estremità della colonna centrale. Il disco era composto in realtà da tre grandi aree anulari che circondavano lo stelo. La prima, che si estendeva per i primi 95 metri, era l’ampia sezione che sarebbe diventata il ponte oceano, dopo essere stata riempita con 686 mila metri cubi di acqua salata. La seconda, larga 20 metri e spessa dieci ponti, era il toroide ingegneria. L’ultimo anello era riservato alle otto immense stive e ai 20 moli d’attracco. I portali che davano sullo spazio esterno erano disposti a intervalli regolari sul bordo incurvato del disco. Gli altri blocchi erano gli otto moduli abitativi. Ciascuno di essi era un prisma triangolare retto alto 90 metri, con una base della stessa larghezza e uno spessore di 30 metri. A ciascuna delle quattro facce dello stelo che emergeva dal disco era attaccato un modulo, e la stessa disposizione era riprodotta specularmente nella porzione di stelo sottostante al disco. Di profilo, la nave sembrava un diamante nel quale qualcuno avesse piantato una sbarra; dall’alto assomigliava a un cerchio, con i moduli abitativi che formavano una croce al centro. Ciascun modulo, suddiviso in 30 ponti, poteva essere rimpiazzato per dare alloggio a una nuova razza o ad apparecchiature speciali, oppure poteva essere lasciato a se stesso come base autonoma per esplorazioni a lungo termine in un nuovo settore. Nel corso del primo anno dopo il lancio, le missioni della Starplex non avevano portato a scoperte significative. Ma adesso, finalmente, c’era una situazione di primo contatto a portata di mano. Adesso, finalmente, tutto ciò che la grande nave aveva da offrire sarebbe stato messo alla prova. Una seconda sonda, più attrezzata, fu inviata nel settore appena aperto. Anch’essa rilevò le stelle tremolanti, ma i suoi telescopi iperspaziali localizzarono anche una massa che poteva appartenere a un sistema solare; per ottenere informazioni più precise sulla distribuzione della massa servivano però telescopi più grandi, come quelli installati alle estremità dello stelo centrale della Starplex. A quel punto Keith ordinò l’invio nel nuovo settore di una sonda con a bordo un umano e un ib dello staff di Jag, per una ricognizione più accurata. Ma la navetta non si recò nella regione delle stelle tremolanti. Infatti, vista l’impossibilità di effettuare comunicazioni in tempo reale da un lato all’altro della scorciatoia, nel caso di incidente sarebbe stato impossibile per la Starplex intervenire in tempo. La navetta si limitò quindi a scandagliare la regione in tutto lo spettro elettromagnetico, facendo una completa ricerca multidirezionale di segnali radio artificiali. Quando tornò alla Starplex comunicò che dall’altra parte non c’erano segni di pericolo, anche se la causa del tremolio stellare rimaneva più elusiva che mai. Keith attese finché i dati delle due sonde e della ricognizione intelligente non furono valutati da tutti i reparti. Infine, convinto che il rischio fosse limitato, ordinò a Thor di portare la stessa Starplex oltre la scorciatoia, nel settore di spazio appena aperto. Di tanto in tanto qualcuno parlava di wormhole o di cunicoli, riferendosi alle scorciatoie, ma in entrambi i casi si trattava di un errore. Non c’era infatti alcun tratto di spazio fra l’entrata e l’uscita della scorciatoia. Erano piuttosto come porte interne di una casa che avesse le pareti sottili come carta: durante l’attraversamento ci si trovava un po’ in una stanza e un po’ nell’altra. Il concetto era identico, a parte il fatto che le stanze erano separate da molti anni luce. A poco a poco il Commonwealth aveva compreso come navigare nella rete delle scorciatoie. Nello spazio normale, una scorciatoia dormiente è un punto. Nell’iperspazio, invece, quel punto è circondato da una sfera rotante di tachioni, che si spostano lungo milioni di linee orbitali polari, tutte alla stessa distanza come i meridiani del mappamondo. Con un’eccezione: un’orbita è dimezzata, e il suo tachione va avanti e indietro lungo una semicirconferenza. Questa fettina libera da tachioni è nota come “meridiano zero”, e consente di trattare la sfera di tachioni proprio come un globo planetario, dotato di un sistema di coordinate di longitudine e latitudine. Per viaggiare attraverso una scorciatoia, si imposta una rotta in linea retta che attraversi il centro della sfera. Nell’avvicinarsi a quel punto, si buca la sfera in un punto di longitudine e latitudine date, e sono questi due numeri a stabilire da quale altra scorciatoia si uscirà: dove si sbuca nella galassia dipende cioè dalla direzione con la quale ci si avvicina alla scorciatoia locale. Ovviamente doveva esserci stata almeno una scorciatoia attiva fin dall’inizio, pur senza essere associata ad alcuna razza… altrimenti non ci sarebbe stato nessun posto dove emergere per la prima civiltà che avesse attraversato la propria scorciatoia. Quella iniziale, la Prima, era evidentemente un bonus concesso dai fabbricanti di scorciatoie. Si trovava nel cuore della Via Lattea, in vista del buco nero centrale. Le prime esplorazioni terrestri in quel settore non avevano portato alla scoperta di nessuna forma di vita locale, proprio come ci si aspettava, perché il nucleo galattico era di gran lunga troppo radioattivo. Nel momento della fondazione del Commonwealth esistevano solo quattro scorciatoie attive: Tau Ceti, Rehbollo, Flatlandia e la Prima. A mano a mano che altre uscite venivano attivate, si riducevano le angolazioni d’approccio accettabili per ogni potenziale uscita. Quando si arrivò a una dozzina di scorciatoie, fu chiaro che per ritornare a quella di Tau Ceti si doveva infilzare la sfera tachionica a circa 115 gradi di longitudine est e a 40 gradi di latitudine nord, più o meno le coordinate della città di Pechino sulla Terra. Fu da questo che nacque il soprannome di Nuova Pechino per la colonia terrestre su Silvanus, quarto pianeta di Tau Ceti. Quando una nave tocca la scorciatoia, il punto che la costituisce si espande… ma soltanto in due dimensioni. Esso forma un buco nello spazio, perpendicolare alla direzione di movimento della nave. E la forma del buco è identica alla sezione della nave che in quel momento lo sta attraversando. L’apertura è contornata da un anello violetto di radiazione Soderstrom, causato dai tachioni che sprizzano dai suoi bordi e si tramutano in particelle più lente della luce. Un osservatore che guardasse la scorciatoia di fronte vedrebbe la nave scomparire in un’entrata dai bordi violetti. Da dietro, invece, vedrebbe soltanto una nera assenza sullo sfondo stellato, e la sagoma dell’assenza sarebbe quello dell’oggetto in via di sparizione. Una volta che la nave ha completato il transito, la scorciatoia si chiude in altezza e in larghezza, collassando nuovamente nel nulla… in attesa del successivo viaggiatore galattico. Thor attivò l’allarme di pretrasferimento: cinque rulli di tamburo elettronici di intensità crescente. Keith sfiorò alcuni tasti e il suo monitor numero due si divise a metà. Una parte mostrava lo spazio normale, nel quale la scorciatoia era invisibile; l’altra era una simulazione computerizzata basata su scansioni dell’iperspazio e mostrava la scorciatoia come un luminoso punto bianco su uno sfondo verde, circondato da una luccicante sfera arancione di linee di campo. «Va bene» disse Keith. «Passiamo.» Thor azionò i comandi. «Come vuoi, capo.» La Starplex percorse i 20 chilometri che la separavano dalla scorciatoia e toccò il punto bianco, che si allargò adattandosi alla sagoma a diamante della nave: ardenti labbra color porpora che mimavano la forma della gigantesca astronave. Mentre la Starplex passava, la bolla olografica intorno al ponte mostrò i due discontinui panorami stellari, e il movimento da prua a poppa della tempestosa linea di confine che li separava. Non appena la nave fu dall’altra parte, la scorciatoia si ridusse a nulla. E furono là, nel Braccio di Perseo, dopo un balzo pari ai due terzi della lunghezza della galassia, che li aveva portati a decine di migliaia di anni luce dai loro mondi d’origine. «Il passaggio è stato normale» comunicò Thor. Il piccolo ologramma del suo viso fluttuava sopra il computer di Keith, proprio in linea con l’autentica nuca di Thor, e la mescolanza tra la massa olografica di capelli rossi e la criniera autentica dava l’impressione di un gran mare arancione dove galleggiavano lineamenti sbozzati con l’ascia. «Ottimo lavoro» disse Keith. «Sgancia una boa di segnalazione.» Thor annuì e premette alcuni tasti. La scorciatoia sarebbe rimasta immobile nell’iperspazio, ma se i sensori iperspaziali della Starplex si fossero guastati sarebbe stato molto complicato ritrovarla. La boa, che emetteva normali segnali elettromagnetici e conteneva un iperscopio autonomo, era il faro che segnalava la strada di casa. Jag si alzò e indicò di nuovo le stelle tremolanti, ma adesso era facile vederle. Thor fece ruotare la bolla olografica fino a farle apparire di fronte e al centro, anziché dietro la galleria di osservazione. Lianne Karendaughter si chinò sul monitor del computer e appoggiò il mento su una delle sue delicate manine. «Allora? Cos’è che produce il tremolio?» chiese. Dietro di lei Jag sollevò tutte e quattro le spalle, nel gesto waldahud d’impotenza. «Non possono essere disturbi atmosferici, è chiaro» rispose. «Gli spettrografi confermano che ci troviamo nel normale vuoto spaziale. Ma una cosa è certa: fra la nostra nave e quelle stelle laggiù c’è qualcosa… qualcosa che si muove ed è almeno in parte opaco.» «Forse una nebulosa oscura» suggerì Thor. «O forse, se mi è consentito interloquire, è soltanto polvere» disse Rombo. «Mi piacerebbe sapere quanto lontano si trova, prima di azzardare un’ipotesi» intervenne Jag. Keith annuì. «Thor spara un impulso laser verso… su quella roba.» Le ampie spalle di fronte a Keith si mossero, mentre Thor azionava i comandi su entrambi i lati del computer. «Fuoco.» Tre contatori digitali comparvero a mezz’aria sul display olografico. Ciascuno aumentava con regolarità ma con passo diverso, secondo le unità di tempo caratteristiche delle tre civiltà. Keith osservò il contatore dei secondi crescere sempre più. «Luce riflessa ricevuta dopo 72 secondi» disse Thor. «Qualunque cosa ci sia laggiù, è dannatamente vicina… più o meno 11 milioni di chilometri.» Jag consultò i monitor. «Le letture del telescopio iperspaziale mostrano che il materiale ostruente possiede una massa rilevante… un multiplo in base sedici, come minimo, della massa complessiva dei pianeti di un sistema solare tipico.» «Quindi non si tratta di astronavi» commentò Rissa, con disappunto. Jag alzò le spalle inferiori. «Non è probabile. Esiste una minima possibilità che ciò che vediamo sia un grande numero di vascelli, una flotta immensa, i cui movimenti parziali eclissano le stelle sullo sfondo e i cui generatori di gravità artificiale formino consistenti avvallamenti nello spazio-tempo. Ma ne dubito.» «Riduciamo a metà la distanza, Thor» disse Keith. «Portaci a sei milioni di chilometri dalla periferia del fenomeno, e vediamo di ottenere informazioni più dettagliate.» La piccola faccia e la grossa nuca annuirono all’unisono. «Come vuoi, capo.» Mentre eseguiva la manovra di avvicinamento, Thor fece anche ruotare la Starplex, in modo che il ponte 1 guardasse esattamente nella direzione di movimento. I propulsori potevano dare al vascello qualunque angolazione rispetto alla sua traiettoria, ma uno dei due radiotelescopi gemelli era montato al centro di quel ponte quadrato, e ai quattro angoli c’erano altrettanti telescopi ottici. A mano a mano che si avvicinavano, fu chiaro che era qualcosa di grande e di piuttosto consistente a oscurare le stelle più lontane: adesso infatti si notava solo un breve periodo di penombra prima della sparizione. La luce però non era sufficiente a vedere con chiarezza: anche la stella più vicina, quella di classe A, era troppo lontana. Da quella distanza non si distinguevano altro che ombre vaghe. «Qualche radiosegnale?» domandò Keith. Com’era sua abitudine, aveva spento l’ologramma della testa di Lianne, che altrimenti si sarebbe trovato sospeso a mezz’aria sopra la sua consolle. In passato aveva sorpreso se stesso a contemplarlo con intensità imbarazzante, con Rissa seduta proprio alla sua destra. «Niente di rilevante» rispose lei. «Sussurri a livelli del milliwatt sulla riga dei ventuno centimetri, come sempre. Ma si perdono nel mormorio della radiazione cosmica di fondo.» Keith guardò Jag, seduto alla sua sinistra. «Nessuna idea?» La frustrazione del waldahud era diventata sempre più evidente a mano a mano che si avvicinavano: lo si notava dalla pelliccia che si arricciava in ciuffi. «Be’, una fascia di asteroidi è improbabile, specialmente a una simile distanza dalla stella più vicina. Potrebbe trattarsi della sua nube di Oort, ma è troppo densa.» La Starplex continuò ad approssimarsi. «Spettroscopia?» disse Keith. «A qualunque distanza siano» rispose Jag «quegli oggetti non sono luminosi. Per quanto riguarda l’assorbimento della luce stellare retrostante durante il passaggio nelle parti meno opache, gli spettri rilevabili sono quelli tipici della polvere interstellari. Anche se l’assorbimento è molto meno consistente di quanto mi aspettavo.» Si voltò verso Keith. «Il fatto è che laggiù non c’è abbastanza luce per capire di che si tratta, ecco qual è il problema. Dovremmo mandare una vampa a fusione.» «E se fossero proprio navi?» domandò Keith. «I loro equipaggi potrebbero fraintendere e pensare di essere aggrediti.» «Quasi certamente non si tratta di navi» tagliò corto Jag. «Sono corpi di dimensione planetaria.» Keith guardò Rissa, gli ologrammi di Thor e di Rombo e la nuca di Lianne per vedere se qualcuno di loro aveva obiezioni. «Va bene» disse. «Procediamo.» Jag si alzò e andò ad affiancare Rombo al computer delle operazioni esterne. Vederli discutere era uno spettacolo, con Jag che abbaiava come un cane stizzoso e Rombo che replicava con i suoi lampi di luce. Poiché stavano solo conversando, il computer Phantom non si preoccupò di fornire a Keith una traduzione. Ma il direttore cercò ugualmente di capire il senso delle frasi, giusto per fare esercizio. Il waldahudar era una lingua difficile da seguire per chi era abituato all’inglese, e imponeva significative varianti sintattiche a seconda del sesso dell’oratore e dell’ascoltatore (per esempio, i maschi potevano rivolgersi alle femmine soltanto nel modo condizionale-congiuntivato). Per di più, l’educazione imponeva ai waldahudin di usare i sostantivi con la massima parsimonia, per timore di incappare in disaccordi semantici. Durante tutta la conversazione, Jag rimase appoggiato al computer di Rombo: i suoi arti centrali potevano essere usati tanto per la locomozione quanto per la manipolazione, ma i waldahudin non amavano restare a quattro zampe quando si trovavano in compagnia degli umani. Alla fine, Jag e Rombo si misero d’accordo sulle caratteristiche della vampa. Alle operazioni esterne, Lianne inviò l’ordine che tutti gli oblò sui ponti dall’1 al 30 fossero coperti od oscurati. Provvide anche a stendere coperture di protezione su sensori e videocamere esterne. Quando i preparativi furono completati, Rombo fece espellere la vampa — una palla di due metri di diametro — da un tubo guidamassa orizzontale che sbucava dal bordo esterno del disco centrale. Attese che la vampa si trovasse a ventimila chilometri dalla nave, poi la accese; attivando un sole in miniatura della durata di otto secondi. Alla luce della vampa occorsero quasi venti secondi per raggiungere la regione dove avveniva l’oscuramento delle stelle. Ben presto fu evidente che il fenomeno interessava una zona di spazio più o meno sferica, del diametro di circa sette milioni di chilometri, cosicché ci vollero 24 secondi, tre volte la durata dell’impulso luminoso, perché il lampo l’attraversasse. Alla fine, Rombo riunì le diverse parti dell’immagine per dare una visuale complessiva del fenomeno, come se il flash le avesse illuminate contemporaneamente. Nell’ologramma complessivo, l’equipaggio sul ponte poté infine vedere che cosa c’era là fuori. C’erano decine di sfere grigio-nerastre, così scure che le parti illuminate erano a malapena distinguibili da quelle al buio. «Ogni sfera è approssimativamente delle dimensioni del pianeta Giove» disse Thor a testa bassa, consultando uno stampato. «La più piccola è larga 110 mila chilometri, la più grande 170 mila. Sono ammassate in un volume sferico ampio sette milioni di chilometri, circa cinque volte il diametro del Sole.» I globi assomigliavano moltissimo a fotografie in bianco e nero di Giove, a parte la mancanza di strisce orizzontali di nuvole. I loro banchi di nuvole, o di qualunque cosa costituisse la loro superficie visibile, sembravano invece vagare dall’equatore al polo guidate semplicemente dalla convezione, il tipo di schema che ci si sarebbe aspettati da sfere quasi completamente prive di rotazione. Nello spazio tra le sfere e la nave c’era una diafana nebbia fatta di gas o di particelle, che aveva l’effetto di un velo traslucido: era certamente quella nebbia la maggior responsabile del tremolio. Visti in prospettiva, globi e nebbia davano l’impressione di cuscinetti a sfera che rotolavano in un mucchio di calze nere di seta. «Ma come fanno a…» abbaiò Jag, e Keith capì immediatamente che cosa stava per dire. Come fanno degli oggetti grandi come pianeti a restare ammassati in uno spazio così ristretto? Tra i due più vicini c’era uno spazio di forse dieci diametri, e non più di quindici tra quelli più distanziati. Keith non riusciva a immaginare nessun tipo di orbita che potesse impedire a quei globi di collassare in un’unica massa, sotto l’effetto della loro stessa attrazione gravitazionale. Se quel raggruppamento era naturale, probabilmente era anche molto recente. Fare luce sull’argomento era servito soltanto a rendere più intricato il mistero. 4 Sulla Terra le cellule sono dotate di mitocondri per trasformare il cibo in energia, di flagelli (cioè code sferzanti, come quelle che fanno muovere gli spermatozoi) e, nei vegetali, di plastidi per immagazzinare la clorofilla. Gli antenati di questi organelli, in origine, erano creature indipendenti, che nuotavano libere. Si misero insieme accettando la simbiosi con una creatura ospite, il cui DNA è ora incastonato saldamente nel loro nucleo; alcuni di essi, tuttavia, contengono ancora tracce del proprio DNA originario. Anche su Flatlandia antenati diversi impararono a lavorare insieme, ma su scala enormemente più grande. Ogni ib è infatti la combinazione di sette forme di vita evolute, tanto che perfino il loro nome — ib — deriva dalle parole “integrazione di bioentità”. Le sette parti sono: il baccello,la creatura a forma di anguria che contiene la soluzione soprassatura dove vivono i cristalli del cervello principale; la pompa,ovvero la struttura digestivo-respiratoria che circonda il baccello e che assomiglia a una felpa azzurra legata intorno a una pancia verde, con le pendule braccia utilizzate sia per alimentarsi sia per liberarsi dei rifiuti; le due ruote,che sembrano cerchioni carnosi rivestiti di quarzo; il telaio,una specie di sella grigia che funge da asse per le ruote e da struttura portante per gli altri elementi; il fascio,composto da sedici spaghi color rame che di solito sono ammonticchiati davanti alla pompa, ma che possono serpeggiare all’esterno a coniando; e infine la rete,una serie di sensori simile appunto a una rete, che copre la pompa, il baccello e la parte superiore del telaio. Laddove due o più fili della rete si incrociano, c’è un occhio o un punto bioluminescente. Benché non abbiano organi specifici per il linguaggio, gli ib possiedono un udito paragonabile a quello dei cani terrestri, e accettano con spirito i nomignoli scelti per loro dai membri delle altre due razze. Il responsabile delle operazioni esterne della Starplex era Rombo, poi c’erano Fiocco di Neve, geologo anziano, Diven (abbreviazione di Diagramma di Venn), ingegnere specializzato in iperpropulsione, e infine Carro Merci… Carro Merci era il biochimico che collaborava con Rissa sul più importante progetto del mondo. Nel 1972 un’organizzazione terrestre, il Club di Roma, aveva proclamato che esistevano ben precisi limiti allo sviluppo. Adesso, però, con tutto lo spazio a disposizione dell’umanità, non esistevano più vincoli. All’inferno il limite teorico di 2,3 figli per coppia: anche ad averne 2 x 10 a testa ci sarebbe stato spazio per tutti… genitori compresi. L’idea che i singoli individui avessero il “dovere” di morire per consentire l’avanzamento della razza, infatti, non si applicava più. Così, Carro Merci e Rissa stavano cercando il sistema di allungare l’attesa di vita delle razze del Commonwealth. Si trattava di un problema da far tremare i polsi, perché il funzionamento stesso della vita rimaneva in gran parte un mistero. Rissa dubitava che l’enigma dell’invecchiamento sarebbe stato risolto nel corso della sua esistenza, anche se era certa che nel giro di un secolo qualcuno avrebbe trovato il bandolo della matassa. Si rendeva conto dell’ironia implicita: Clarissa Cervantes, specializzata in senescenza, apparteneva probabilmente all’ultima generazione umana che avrebbe sperimentato la morte. La durata media della vita umana era di cento anni terrestri; i waldahudin arrivavano all’incirca a 45 anni (il fatto che fossero autosufficienti già al sesto anno di età non compensava la brevità della loro vita, tanto che alcuni umani ritenevano che fosse proprio la consapevolezza di appartenere alla razza intelligente meno longeva del Commonwealth a rendere i waldahudin così sgradevoli); i delfini arrivavano anche a ottant’anni, con cure mediche adeguate; mentre gli ib, a meno di incidenti, vivevano esattamente per 641 anni terrestri. Rissa e Carro Merci ritenevano di avere capito perché gli ib vivessero tanto di più delle altre razze. Le cellule di umani, delfini e waldahudin avevano il limite di Hayflick: si duplicavano in modo corretto solo per un numero limitato di volte. Per ironia della sorte, erano i waldahudin ad avere il limite più elevato, circa 93 volte, ma le loro cellule (così come le creature da esse composte) avevano anche il ciclo vitale più breve. Le cellule umane e delfinesche potevano duplicarsi una cinquantina di volte. Invece, gli agglomerati di piccoli organi che costituivano i corpi degli ib (non c’era nessuna membrana protettiva che permettesse di identificarli come singole cellule) potevano rigenerarsi all’infinito. Ciò che alla fine uccideva la maggior parte degli ib era un corto circuito mentale: quando i cristalli del cervello centrale, che formavano matrici di memoria a ritmo costante, raggiungevano la massima capacità di contenere dati, l’eccesso di informazioni in arrivo faceva ingarbugliare le istruzioni inconsce che governavano respirazione e digestione. Poiché la sua presenza sul ponte non sembrava necessaria, Rissa aveva raggiunto Carro Merci giù al laboratorio. In quel momento era seduta su una sedia e Carro Merci si trovava accanto a lei. Entrambi osservavano i dati che scorrevano sul monitor piatto poggiato in verticale sulla scrivania di fronte a loro. Il limite di Hayflick doveva per forza essere governato da qualche tipo di timer cellulare. E dal momento che era stato osservato tanto nelle cellule terrestri quanto in quelle rehbolliane, c’era la speranza di trovare una risposta confrontando le rispettive mappe genetiche. I precedenti tentativi di trovare correlazioni incrociate tra i meccanismi che stabilivano i tempi della crescita fisica, della pubertà e delle funzioni sessuali avevano tutti avuto successo. Ciò che invece causava il limite di Hayflick continuava a eluderli in modo frustrante. Forse quell’ultimo test… forse quelle analisi statistiche sui codoni dell’RNA della telomerasi inversa… forse… Le luci della rete di sensori di Carro Merci ammiccarono. «Mi rattrista notare che la risposta non è qui» disse la voce tradotta, che aveva la consueta intonazione britannica ed era femminile, come la metà delle voci arbitrariamente assegnate. Rissa si lasciò sfuggire un sospiro. Carro Merci aveva ragione, era un altro vicolo cieco. «Non intendo essere offensivo con questo commento» aggiunse Carro Merci «ma tu sai certamente che la mia razza non ha mai creduto negli dèi. Eppure, quando incontro un problema simile… un problema che sembra, be’, studiato apposta per allontanarci dalla soluzione… viene da pensare che l’informazione sia tenuta deliberatamente lontano dalla nostra portata, che il nostro creatore non desideri che noi viviamo per sempre.» Rissa ridacchiò. «Potresti avere ragione. Un elemento ricorrente nelle religioni umane è la credenza che gli dèi custodiscano gelosamente i propri poteri. Ma allora perché hanno fabbricato un universo infinito, mettendo la vita soltanto in un pugno di mondi?» «Mi scuso in anticipo se mi permetto di far notare ciò che è ovvio» disse Carro Merci «ma l’universo è infinito soltanto nel senso che non ha confini, pur contenendo una quantità finita di materia. Purtuttavia, che cosa si dice abbia comandato il tuo Dio? Crescete e moltiplicatevi?» Rissa rise. «Riempire l’universo richiederebbe un notevole numero di moltiplicazioni.» «Ritenevo che fosse un’attività gradita agli umani.» Lei sbuffò, pensando a suo marito. «Ad alcuni più che ad altri.» «Perdona la sfacciataggine» disse Carro Merci «ma Phantom ha premesso alla traduzione dell’ultima frase un glifo per indicare che era pronunciata con ironia. Senza dubbio è colpa mia, ma temo che una parte del significato mi sia sfuggita.» Rissa guardò l’ib, seicento chili di sedia a rotelle senza nessuna faccia. Inutile addentrarsi in argomenti simili con lei o, meglio, con esso… una gestalt asessuata che non sapeva nulla dell’amore o del matrimonio, una creatura per la quale la durata di una vita umana non era che un breve interludio. Come poteva capire gli stadi che un matrimonio attraversava, che un “essere umano” attraversava? Ciò nonostante… Non poteva parlarne con le sue amiche a bordo della nave. Dopotutto suo marito era il direttore della Starplex, il capitano, come l’avrebbero chiamato ai vecchi tempi. Non si azzardava a spargere pettegolezzi su di lui, non poteva rischiare di renderlo ridicolo agli occhi dell’equipaggio. Sabrina, un’amica di Rissa, era sposata con un uomo di nome Gary, che stava attraversando una fase simile. Lui, però, era solo un meteorologo, non l’uomo al quale tutti guardavano e che doveva sostenere lo sguardo di mille persone senza abbassare gli occhi. “Io sono una biologa” pensò Rissa “e Keith è un sociologo. Come ho fatto a diventare la moglie di un politico e a ritrovarmi costantemente sotto un microscopio, esattamente come lui e come il nostro matrimonio?” Era sul punto di dire a Carro Merci che non c’era nulla, ma proprio nulla, che Phantom aveva scambiato per ironia la sua stanchezza o forse la sua delusione per i risultati dell’ultimo esperimento. Nello stesso momento però pensò: “Diavolo, perché no? Perché non parlarne con una ib? Il pettegolezzo è un difetto delle forme di vita individuali, non degli esseri multipli. E mi farebbe bene, sì, proprio un gran bene, scaricarmi da questo peso, poterlo condividere con qualcun altro”. «Dunque» disse, interponendo poi una lunga pausa per concedersi l’ultima possibilità di imbrigliare le sue parole. Ma proseguì. «Keith sta diventando vecchio.» Sulla rete di Carro Merci vi fu un qualche vago lampo. «Lo so, lo so» continuò Rissa alzando una mano. «Per gli standard ib è giovanissimo, ma per quelli umani sta entrando nella mezza età. Nella stessa situazione, gli umani di sesso femminile attraversano una fase di cambiamenti chimici legati al termine dei loro anni di fertilità. Questo periodo si chiama menopausa.» Vide un lampeggiamento verso l’alto: l’equivalente di un cenno di assenso per gli ib. «Per i maschi umani, invece, non ci sono tagli netti. Sentono sfuggire la loro gioventù, cominciano a mettere in discussione se stessi, ciò che hanno realizzato, le loro scelte professionali e… be’, si chiedono se sono ancora attraenti per il sesso opposto.» «E Keith è ancora attraente per te?» La domanda colse Rissa di sorpresa. «Be’, non l’ho certo sposato per il suo aspetto.» Ma quelle parole suonavano ben diverse da ciò che voleva dire veramente. «Sì, certo che lo trovo ancora attraente.» «È senza dubbio sbagliato che io rimarchi codesto fatto, e me ne scuso, ma Keith sta perdendo i capelli.» Rissa fece una risata. «Mi sorprende che notiate simili particolari.» «Senza offesa, sappi che per noi è arduo distinguere un umano dall’altro, soprattutto quando si avvicinano e sono quindi visibili solo a una parte della nostra rete. È per questo che siamo così attenti ai dettagli. Sappiamo quanto sia fastidioso per gli umani non essere riconosciuti da qualcuno che, a loro parere, “dovrebbe” riconoscerli. Così ho fatto attenzione sia alla perdita dei capelli sia al cambiamento di colore. Ho appreso che simili cambiamenti possono segnalare una riduzione del fascino individuale.» «Probabilmente per alcune donne è così» ribatté Rissa. Ma subito capì che era una sciocchezza mettersi a discutere con un alieno. «È vero, mi piaceva di più quando aveva tutti i capelli in testa. Ma è comunque una cosa secondaria.» «Allora, se Keith è sempre attraente per te, perdona la mia sconfinata ignoranza, non comprendo quale sia il problema.» «Il problema è che a lui non interessa essere attraente “per me”. Si dà per scontato di piacere alla propria compagna. Credo sia per questo che in passato gli uomini mettevano spesso su pancia dopo il matrimonio. No, la domanda che ronza nella testa di Keith in questi giorni è, ne sono certa, se può ancora attrarre un’altra donna.» «Ed è così?» Rissa stava per rispondere automaticamente “certo!”, ma si trattenne e rifletté sulla domanda, cosa che non aveva fatto prima. «Sì, suppongo di sì. Dicono che il potere sia l’afrodisiaco supremo, e Keith è l’uomo più importante della nostra comunità viaggiante.» «In tal caso, chiedo scusa, qual è la difficoltà? Non dovrebbe avere difficoltà a ricevere risposta positiva alla sua domanda.» «La difficoltà è che potrebbe volerlo dimostrare a se stesso… dimostrare di essere ancora attraente.» «Potrebbe fare un sondaggio. So che voi umani vi affidate molto a questo tipo di informazioni.» Rissa rise. «Keith è un po’ più… più empirico» disse. Poi aggiunse, con voce triste: «Potrebbe voler fare di persona qualche esperimento.» Due luci si accesero e si spensero. «Ah sì?» Rissa fissò un punto sulla parete, in alto. «Ogni volta che ci troviamo con altri esseri umani, in occasioni sociali, lui passa un po’ troppo tempo con le altre donne presenti.» «In che senso, “troppo”?» Rissa inarcò le sopracciglia e rispose: «Più di quello che passa con me. E spesso si ritrova a conversare con donne che hanno metà della sua età… metà della “mia” età.» «E questo ti dà fastidio.» «Già.» Carro Merci rifletté per qualche istante, poi disse: «Ma non si tratta di un fatto naturale? Di una fase che tutti gli uomini attraversano?» «Credo di sì.» «Non si può combattere contro la natura, Rissa.» Lei indicò il monitor, sul quale comparivano ancora i risultati negativi dell’ultimo studio sul limite di Hayflick. «Comincio a rendermene conto.» 5 «Voglio un campione del materiale con cui sono fatte quelle sfere» abbaiò Jag, in piedi davanti alla sua stazione, fissando il direttore. Keith strinse i denti e pensò, come gli accadeva spesso, di chiedere a Phantom una traduzione meno letterale delle frasi di Jag, inserendovi termini di cortesia umani come “per piacere” e “grazie”. «Dobbiamo mandare una sonda?» domandò Keith, guardando la faccia a quattro occhi del waldahud. «O preferisci andare là fuori personalmente?» In tal caso, aggiunse col pensiero, sarò lieto di indicarti il più vicino portello stagno. «Una normale sonda per la raccolta di campioni atmosferici» rispose Jag. «Il gioco gravitazionale tra corpi così grandi e così strettamente raggruppati deve essere molto complesso. Qualunque oggetto inviassimo, potrebbe schiantarsi su una delle sfere.» “Una ragione in più per mandarci Jag” pensò Keith. Ma ciò che disse fu: «Vada per la sonda.» Si voltò e guardò la postazione situata a ore 2 rispetto alla sua. «Pensaci tu, per favore, Rombo.» La rete dell’ib lampeggiò in un assenso. «La scelta migliore sarebbe una sonda di classe delta» suggerì Jag, tornando a sedersi e rivolgendosi al piccolo ologramma di Rombo sopra la sua consolle. Keith premette un tasto e si unì alla discussione; una testa waldahud in miniatura sbocciò di fronte a lui, accanto all’immagine a figura intera dell’ib. «Quante sfere ci sono in totale?» chiese. Le corde di Rombo si mossero sui comandi. «Duecentodiciassette» rispose. «E sembrano tutte identiche, a parte le dimensioni.» «Bene. Allora non fa differenza quale sfera sarà scelta per il primo test» commentò Jag. «Punteremo su quella che presenta minori difficoltà di navigazione. Per prima cosa la sonda dovrà raccogliere un po’ del materiale presente tra le sfere, poi andrà dritto filato su una sfera e preleverà un campione del gas, o qualunque cosa sia, che la compone. Un primo prelievo sulla sommità delle nuvole e un altro duecento metri al loro interno, se la sonda sarà in grado di resistere alla pressione. I compartimenti in cui i campioni saranno riposti dovranno avere temperatura e pressione identici a quelli dei punti di raccolta; desidero ridurre al minimo i cambiamenti chimici nel materiale raccolto.» Le luci della rete di sensori di Rombo si mossero verso l’alto e pochi istanti dopo l’ib lanciò la sonda. Inoltre commutò il display sferico della sala di controllo perché mostrasse le immagini riprese dalla sonda. Le stelle che si trovavano oltre la nebbia tra le sfere sembravano ancora tremolare, e le sfere stesse erano semplici circoli neri stagliati su un nebuloso sfondo blu punteggiato di stelle. «Secondo te cosa sono le sfere?» chiese Rombo, mentre la sonda si avvicinava al bersaglio. Jag mosse tutte e quattro le spalle nel tipico gesto waldahud di perplessità. «Potrebbero essere i resti di una nana bruna frantumatasi di recente. In assenza di gravità qualunque fluido si disporrebbe in un volume sferico, è ovvio. Con il tempo il materiale intermedio verrà probabilmente raccolto dai corpi maggiori.» La sonda stava raggiungendo il materiale tra le sfere. «La nebbia sembra consistere di gas con l’aggiunta di particelle solide, del diametro medio di sette millimetri» annunciò Rombo, la cui rete di sensori si era quasi avviluppata sulla consolle della sua postazione, per leggere più facilmente gli strumenti. «Che tipo di gas?» chiese Keith. «Il peso molecolare suggerirebbe un composto complesso» rispose Jag, che ora fissava uno dei monitor. «Però lo spettro di assorbimento è quello della normale polvere cosmica: granelli di carbonio e così via.» Fece una pausa. «Le sfere non hanno un campo magnetico misurabile. Strano. Pensavo che le particelle di gas potessero essere state scagliate nello spazio proprio da campi magnetici.» «La sonda sarà danneggiata da queste particelle?» domandò Keith. «Mi compiaccio di rispondere in modo negativo» ribatté Rombo. «Ho rallentato proprio per evitare questa possibilità.» Parte dell’ologramma era buio, da quando si era aperto il portello che copriva gli strumenti di prelievo atmosferico… pessima progettazione. «Ora stiamo raccogliendo campioni del materiale tra le sfere» annunciò Rombo. Alcuni istanti più tardi il portello si chiuse e tornò la visuale a 360 gradi. «Stiva 1 piena» fece rapporto l’ib. «Cambiamo direzione per la scrematura atmosferica.» Il campo stellare ruotò mentre la sonda modificava la traiettoria. Uno dei cerchi neri fu ben presto al centro dell’inquadratura. La sfera d’ebano diventò sempre più grande, fino a dominare il cielo. In quel momento Rombo fece accendere i riflettori della sonda. Da essi partirono due flebili raggi che penetrarono per pochi metri in quella sostanza buia e roteante. Si aprì un altro portello, e una differente zona della sala si oscurò. «Prelievo di campioni dell’alta atmosfera in corso» fece rapporto l’ib. Poi, dopo un attimo: «Portacampioni pieno.» «Adeguato» commentò Jag. «Adesso falla abbassare di duecento metri, o il massimo possibile senza compromettere la sicurezza, e prendi dell’altro materiale della sfera.» «Procedo, in pace e armonia» replicò Rombo, mangiandosi le parole. Tutto appariva di un nero profondo, eccetto le due pozze di luce provenienti dai riflettori. Ora non penetravano per più di un metro. Per un attimo sembrò che sul percorso della sonda si parasse qualcosa di solido, una forma ovale delle dimensioni di un dirigibile, che però scomparve immediatamente. «Profondità 91 metri» comunicò Rombo. «Sorprendente. La pressione esterna è bassa, molto inferiore a quanto mi aspettavo.» «Allora continua a scendere» lo esortò Jag. La sonda proseguì verso il basso. La rete di Rombo lampeggiava di costernazione. «I sensori della pressione devono essere danneggiati, forse per l’impatto con un granello di ghiaia: continuo ad avere dati di pressione atmosferica quasi nulla.» Jag sollevò le spalle superiori. «Va bene. Riempi un compartimento lì, poi riporta tutto a casa.» Il terzo portello non oscurò nessuna parte della sala, anche se durante l’apertura i membri dell’equipaggio erano così concentrati che si sarebbero accorti del minimo tremolio nell’immagine. «Il rilevatore di pressione interno misura la stessa pressione quasi nulla osservata all’esterno» informò Rombo. «Ovviamente i due strumenti fanno capo allo stesso microprocessore. In ogni caso, il compartimento dovrebbe essersi riempito quasi istantaneamente, dal momento che prima dell’apertura del portello la sua pressione interna era nulla.» Rombo lasciò il portello spalancato ancora per qualche secondo, giusto per sicurezza, poi lo chiuse e fece ruotare la sonda, dirigendola verso la Starplex. Quando la sonda fu di nuovo nel tubo di lancio, i compartimenti dei campioni furono staccati e collocati da bracci robotici su un nastro trasportatore che li avrebbe portati al laboratorio di Jag. Dove nel frattempo era arrivato lo stesso Jag, in ascensore. I contenitori furono agganciati alle relative prese sulle pareti del laboratorio. In tal modo non era necessario aprirli: attraverso le prese, sensori e telecamere potevano osservare agevolmente l’interno. Jag sedette sulla sedia — un autentico seggio waldahud, non una multisedia — e accese i monitor alti e sottili di fronte a lui. Digitò la sequenza di comandi che selezionava gli esperimenti standard e osservò con crescente stupore i risultati che apparivano sugli schermi. Spettroscopia: nessuna scoperta. Scansione elettromagnetica: nessuna scoperta. Decadimento beta: zero. Emissioni di raggi gamma: zero. Schermo dopo schermo: nessuna scoperta; zero; nessuna scoperta; zero… Premette un tasto, e sotto le letture degli strumenti apparve una banda dove era riportata la massa del contenitore: 12.782 chilogrammi. «Computer centrale» disse ad alta voce Jag. «Controlla i dati di fabbricazione di questo contenitore. Che massa ha quando è vuoto?» “La massa del contenitore è di 12.782 chilogrammi” abbaiò Phantom in waldahudar. Jag imprecò. «Questa fardint scatola è vuota!» “Esatto” disse Phantom. Jag premette un tasto e apparve l’ologramma di Rombo. «Teklarg» lo apostrofò Jag, chiamando l’ib con il suo soprannome waldahud «hai mandato fuori una sonda difettosa. Tutto ciò che c’era nel compartimento numero 2 è stato perduto durante il ritorno.» «Le mie scuse più sentite, buon Jag. Merito una punizione per avere sprecato così il tuo tempo» rispose Rombo. «Invierò un rimpiazzo all’istante.» «Fallo» sbottò Jag colpendo il pulsante che chiudeva la comunicazione. Passò quindi al compartimento numero 1… per scoprire con costernazione che anch’esso aveva perduto il suo contenuto durante il viaggio di ritorno. «Scalcagnata ingegneria umana» brontolò tra sé. E i brontolii salirono di tono quando il secondo portacampioni della sonda giunse al laboratorio. Le letture erano identiche, compreso l’anomalo dato di bassissima pressione atmosferica ottenuto quando la sonda era scesa sulla grande sfera. Ancora una volta Jag evocò l’ologramma di Rombo. «Caro Jag devo dirti, in pace e con ogni buona intenzione, che non ho individuato nulla di evidentemente sbagliato nella sonda. I sigilli del contenitore sono perfetti. Niente sarebbe dovuto sfuggire.» «Tuttavia i campioni raccolti se ne sono andati» ribatté Jag. «Il che significa che i campioni devono essere fatti di una sostanza decisamente insolita.» Sulla rete di Rombo vi fu uno spostamento di luci. «È un’ipotesi sensata.» Jag fece stridere le placche dentali. «Dev’esserci un modo per portare a bordo un po’ di quella sostanza e studiarla.» «Indubbiamente tu ci hai già pensato» intervenne Rombo «e spreco il tempo di entrambi menzionando l’idea, ma potremmo usare una trappola di forza. Come quelle che si usano nei laboratori per maneggiare l’antimateria.» Jag sollevò le spalle superiori. «Accettabile. Ma non un campo di forza elettromagnetica, usa piuttosto campi di gravità artificiale per tenere il contenuto a distanza dalle pareti della trappola, qualunque sia l’accelerazione della nave.» «Eseguirò con obbedienza» fu la risposta di Rombo. La trappola di forza doveva essere manipolata con raggi trattori. Consisteva in otto generatori antigravitazionali collocati ai vertici di un cubo, con grandi maniglie a forma di spatola incollate al centro di ogni faccia per dare ai raggi trattori qualcosa cui agganciarsi. La trappola fu spinta verso una delle grandi sfere grigie e lì fu aperta. Una seconda venne inviata nello sciame di ghiaia tra due sfere, dove fu attivata. Entrambe le trappole furono poi rapidamente ritirate a bordo della Starplex. Infine i contenitori furono trasferiti in due scomparti separati all’interno del laboratorio di Jag. Il trucco dell’antigravità ebbe successo: una trappola conteneva effettivamente campioni del gas che costituiva la sfera, l’altra varie briciole di ghiaia traslucida e un sasso semitrasparente grande quanto un uovo di gallina. Finalmente Jag avrebbe potuto scoprire in che cosa si erano imbattuti. 6 Keith si passò una mano sulla pelata e si appoggiò allo schienale, guardando l’ologramma del panorama stellato che avviluppava il ponte. Fino al rapporto di Jag non c’era granché da fare. Rissa era ancora giù a lavorare con Carro Merci, e il turno alfa stava per smontare. Keith espirò, forse troppo rumorosamente. In quel momento Rombo mosse le ruote verso il computer del direttore, per parlare con lui. Sul mantello dell’ib le luci cominciarono a lampeggiare. «Irritato?» chiese la voce tradotta. Keith annuì. «Jag?» domandò l’ib. Keith annuì di nuovo. «Con la massima cortesia, faccio notare che non è così male» commentò Rombo. «Per essere un waldahud, è notevolmente garbato.» Keith fece un cenno verso la parte del cielo stellato che celava la porta da cui Jag era uscito. «È troppo… competitivo. Combattivo.» «Sono tutti così» osservò Rombo. «Almeno i maschi. Hai passato molto tempo su Rehbollo?» «No. Benché fossi presente durante il primo contatto tra umani e waldahudin, ho sempre pensato che per me fosse preferibile stare lontano da Rehbollo. Ho in me ancora molta rabbia, credo, per la morte di Saul Ben-Abraham.» Rombo rimase in silenzio per alcuni secondi, forse per assimilare l’informazione. Poi la sua rete tornò a incresparsi di luci. «Il nostro turno è terminato, amico Keith. Mi concederesti nove minuti del tuo tempo?» Keith scrollò le spalle e si alzò. Disse, rivolgendosi ai presenti: «Avete fatto tutti un ottimo lavoro, grazie.» Lianne si girò, facendo ondeggiare i capelli color platino, e rivolse a Keith un sorriso. Keith e Rombo imboccarono il corridoio gelido, le ruote dell’ib accanto ai piedi dell’umano. Anche un paio di smilzi robot percorrevano il corridoio. Uno portava un vassoio di vivande, l’altro stava passando l’aspirapolvere sul pavimento. Dentro di sé Keith li aveva battezzati robocop: Robot Camerieri Onnipresenti di Phantom… ma i waldahudin avrebbero dato in escandescenze alla sola idea che la terminologia della Starplex comprendesse acronimi che contenevano altri acronimi. Oltre la vetrata sulla parete del corridoio Keith vide uno dei tubi di accesso verticali per i delfini, formati da cilindri d’acqua alti un metro e intervallati da strati d’aria di dieci centimetri, tenuti fermi da campi di forza. I tratti d’aria impedivano alla pressione dell’acqua di crescere con l’altezza del tubo. Proprio mentre guardava, un delfino risalì il tubo nuotando. Keith guardò Rombo. Le sue luci lampeggiavano tutte all’unisono. «Che c’è da ridere?» domandò Keith. «Niente» rispose l’ib. «Dai, dimmelo.» «Stavo solo pensando a una barzelletta che Thor ha raccontato oggi. Quanti waldahudin ci vogliono per cambiare una lampadina? Riposta: cinque… e ognuno dice che è merito suo.» Keith aggrottò la fronte. «Lianne ti ha raccontato la stessa barzelletta qualche settimana fa.» «Lo so» ribatté Rombo. «E ho riso anche allora.» Keith scosse il capo. «Non capirò mai come facciate voi ib a continuare a ridere per le stesse cose.» «Se potessi mi gratterei la testa» ribatté Rombo. «Lo stesso quadro è bello ogni volta che lo si guarda. Lo stesso piatto è gustoso ogni volta che lo si mangia. Perché la stessa barzelletta non dovrebbe essere divertente ogni volta che la si ascolta?» «Non lo so» rispose Keith. «Ma sono felice che tu abbia smesso di ripetere quella stupida battuta, “questo non è il semiasse, è il mio tubo digerente”, ogni volta che mi vedevi. Era sempre più irritante.» «Mi spiace.» Per un po’ proseguirono lungo il corridoio in silenzio, poi: «Sai, buon Keith, è molto più facile comprendere i waldahudin dopo che si è trascorso un po’ di tempo sul loro mondo.» «Ah sì?» «Tu e Clarissa siete sempre stati felici insieme, se mi è consentito farlo notare. Noi ib non godiamo di tale intimità con altri individui: mescoliamo il materiale genetico tra i nostri stessi componenti anziché legarci a un compagno. Oh, certo, io traggo conforto dagli altri miei componenti… le ruote, per esempio, non sono senzienti ma hanno un’intelligenza pari a quella di un cane terrestre. Il rapporto che ho con loro è per me fonte di grande gioia. Ma mi rendo conto che la relazione esistente tra voi è qualcosa di molto, molto più grande. Io la comprendo solo vagamente, ma sono certo che Jag l’apprezza. Anche i waldahudin, dopo tutto, hanno due sessi come gli umani.» Keith non capiva dove volesse andare a parare, ma, soprattutto, si chiedeva se Rombo non facesse troppo affidamento sulla loro amicizia. «E allora?» «I waldahudin hanno due sessi, ma non un numero equivalente di membri dei due sessi. Ci sono addirittura cinque maschi per ogni femmina» continuò l’ib. «Malgrado questa sproporzione, sono una razza monogama e le coppie durano per tutta la vita.» «L’ho sentito dire.» «Ma hai considerato le conseguenze?» domandò l’ib. «Significa che quattro maschi su cinque finiscono per non avere una compagna… e per essere esclusi dal pool genetico. Forse tu hai dovuto allontanare qualche pretendente quando eri alla conquista di Clarissa, o forse lei ha dovuto allontanare qualche donna che voleva conquistare te; ti prego di perdonarmi, non ho idea di come funzioni questa faccenda. Immagino però che per tutti i contendenti fosse un conforto sapere che per ogni maschio c’è una femmina e viceversa. È vero, gli accoppiamenti non sempre si concludono come si desidererebbe, ma ci sono buone probabilità che ogni uomo trovi una donna e viceversa… oppure un compagno del suo stesso sesso, se così preferisce.» Keith fece spallucce. «Direi di sì.» «Per il popolo di Jag, invece, le cose non stanno così. Le femmine detengono il potere assoluto nella loro società. Ognuna di loro viene “corteggiata”, credo sia la parola giusta, da cinque maschi, ed è la femmina, quando all’età di trent’anni raggiunge l’estro, a scegliere il proprio compagno tra i cinque che hanno passato i venticinque anni precedenti a competere per le sue attenzioni. Lo sai qual è il nome completo di Jag?» Keith si sforzò di ricordare. «Jag Kandaro em-Pelsh, giusto?» «Sì. Sai da dove deriva?» L’uomo scosse la testa. «Kandaro è un luogo» spiegò Rombo. «Per la precisione è la provincia cui fa capo la stirpe di Jag. E Pelsh è il nome della femmina al cui entourage lui appartiene. Ora come ora, lei ha un certo potere a Rehbollo. Non soltanto è una famosa matematica, ma è anche nipote della regina Trath. Ho incontrato personalmente Pelsh nel corso di una conferenza. Ha fascino, intelligenza, ed è circa due volte più grossa di Jag, come tutte le femmine waldahudin.» Keith contemplò un’immagine mentale, ma non disse nulla. «Capisci?» lo esortò Rombo. «Jag deve lasciare il segno. Deve distinguersi dagli altri quattro maschi del suo entourage se vuole essere scelto. Tutto ciò che fa un waldahud maschio prima dell’accoppiamento è diretto a mettere in evidenza se stesso. Jag è venuto sulla Starplex per cercare una gloria sufficiente a conquistare l’affetto di Pelsh… e questa gloria ha intenzione di trovarla a qualunque costo.» Quella notte, a letto, Keith era sdraiato sulla schiena. Da una vita aveva difficoltà a dormire… nonostante seguisse tutti i consigli che la gente gli dava da anni. Non prendeva bevande contenenti caffeina dopo le sei di sera. Aveva chiesto a Phantom di trasmettere rumori di statica dagli altoparlanti del letto, per soffocare l’occasionale russare di Rissa. E benché ci fosse un orologio digitale incastonato nel comodino, provvedeva a coprirne il display con un quadretto di plasticarta che infilava in una scanalatura del legno. Avere sempre sottocchio l’orologio e preoccuparsi perché era tardi, perché rimaneva sempre meno tempo per dormire prima che venisse il mattino, era controproducente. È vero che poteva sempre alzarsi per vedere l’ora, o allungarsi e piegare all’ingiù la plasticarta anche senza uscire dalle coperte, se ne avesse avuto la curiosità, ma quell’accorgimento funzionava quasi sempre. Ma non quella notte. Quella notte continuava a muoversi e rigirarsi. Quella notte rivisse l’incontro in corridoio con Jag. Jag, un nome perfetto per un bastardo. Keith si girò sul fianco sinistro. In quel periodo Jag teneva una serie di seminari di aggiornamento professionale per i membri dell’equipaggio che volevano imparare un po’ di fisica. Rissa teneva seminari simili per chi voleva imparare un po’ di biologia. Keith era sempre stato affascinato dalla fisica. Anzi, quando per il primo anno di università aveva scelto un indirizzo scientifico, aveva seriamente pensato di diventare un fisico lui stesso. Tutti quei fantastici concetti, come il principio antropico, secondo il quale l’universo era “obbligato” a generare vita intelligente. E il gatto di Schroedinger, un esperimento mentale per dimostrare che l’atto di osservare dava forma alla realtà. E tutte quelle splendide contorsioni e giravolte delle teorie di Einstein sulla relatività ristretta e generale. Keith amava Einstein… lo amava per la sua mescolanza di umanità e intelletto, per la sua capigliatura scomposta, per il suo tentativo da cavaliere errante di rimettere in bottiglia il genio nucleare che lui stesso aveva evocato. Anche quando decise di scegliere sociologia come filone principale dei suoi studi, Keith tenne appeso sopra il suo letto un poster del grande vecchio della fisica. Gli sarebbe piaciuto partecipare a qualche seminario di fisica… ma non con Jag. La vita era troppo breve per rovinarsela così. Pensò a quello che aveva detto Rombo sulla vita familiare dei waldahudin e gli vennero in mente Rosalind, sua sorella maggiore, e Brian, suo fratello minore. In un certo senso, Roz e Brian avevano contribuito a plasmarlo non meno del suo corredo genetico. Grazie alla loro esistenza lui era stato un figlio di mezzo. E i figli di mezzo sono costruttori di ponti, tentano sempre di fare collegamenti, di avvicinare i gruppi. Era a Keith che toccava sempre organizzare le feste di famiglia, come quelle per l’anniversario di matrimonio o per i compleanni dei genitori, o il raduno natalizio del clan. Ed era stato lui a organizzare l’incontro del ventennale con i compagni di liceo, era lui che dava ricevimenti a casa per i colleghi di altre città in visita all’università, o che aiutava i gruppi multiculturali ed ecumenici. E, per finire, aveva passato la maggior parte della sua vita professionale a operare perché il Commonwealth diventasse un’entità politicamente solida, in grado di camminare con le sue gambe: quello era stato l’ultimo ponte. Roz e Brian non si preoccupavano se qualcuno li apprezzava o no, se c’era o no la pace tra le varie parti, se c’era comunicazione, se la gente andava d’accordo. Probabilmente Roz e Brian dormivano benissimo. Keith si girò a pancia in su, con un braccio dietro la testa. Forse non era possibile. Forse umani e waldahudin non potevano andare d’accordo. Forse erano troppo diversi. O troppo simili. Oppure… “Cristo” pensò Keith “smettila. Falla finita.” Allungò un braccio, piegò all’ingiù la plasticarta e guardò le lucenti cifre rosse. “Accidenti.” Ora che avevano raccolto i campioni di quello strano materiale toccava a Jag e a Rissa, in qualità di responsabili delle due divisioni scientifiche, stabilire un progetto di ricerca. Il passo successivo sarebbe dipeso ovviamente dalla natura dei campioni. Se non avessero avuto nulla di eccezionale, allora la Starplex avrebbe continuato la ricerca delle creature che avevano attivato la scorciatoia… una missione che dava la priorità alle scienze biologiche. Se invece lo strano materiale si fosse dimostrato straordinario, Jag avrebbe sostenuto che era dovere della Starplex rimanere lì per studiarlo e l’équipe di Rissa avrebbe preso uno dei due vascelli diplomatici della Starplex, il Nelson Mandela o il Kof Dagrelo em-Stalsh, per continuare la ricerca. Il mattino seguente Jag accese l’intercom e contattò Rissa nel suo laboratorio, comunicandole che desiderava vederla. Poteva significare una cosa sola: Jag voleva sferrare un attacco preventivo sulle priorità della missione. Rissa si preparò alla battaglia con un respiro profondo, e si diresse all’ascensore. L’ufficio di Jag aveva la stessa disposizione di quello di Rissa, ma era stato decorato (se si può usare questa parola) secondo i dettami dell’arte-di-fango waldahud. Di fronte alla scrivania c’erano tre diversi modelli di multisedia. I waldahudin, infatti, disprezzavano ciò che era prodotto in serie: avendone di tre tipi, Jag poteva almeno dare l’impressione che ciascuna fosse un pezzo unico. Rissa sedette sulla multisedia di mezzo e fissò il waldahud in attesa oltre l’ampia, dolorosamente vuota, scrivania. «Veniamo al dunque» disse. «Ormai devi avere analizzato i campioni prelevati ieri. Di che cosa sono fatte le sfere?» Il waldahud scrollò tutte e quattro le spalle. «Non lo so. Una piccola percentuale delle sostanze raccolte è banale spazzatura cosmica: granelli di carbonio, atomi di idrogeno e così via. Ma il componente principale sfugge a ogni analisi. Per esempio non brucia nell’ossigeno, né in alcun altro gas e, per quanto posso affermare, è totalmente neutro dal punto di vista elettrico. Ho provato di tutto, ma sembra impossibile strappare elettroni da quegli atomi e ottenere nuclei carichi positivamente. Adesso ci sta dando un’occhiata anche Delacorte, su al laboratorio chimico.» «E la ghiaia tra le sfere?» domandò Rissa. Il latrato di Jag aveva un’intonazione diversa dal solito. «Lo vedrai tu stessa» rispose. Uscirono insieme dall’ufficio e percorsero il corridoio che portava a una delle camere d’isolamento. «Ecco i campioni» disse, indicando con il braccio mediano un cubo di un metro di lato, con la faccia frontale trasparente. Rissa guardò oltre il vetro e aggrottò le sopracciglia. «Quello più grande… ha la base piatta?» Jag scrutò a sua volta con attenzione. «Per gli dèi…» Il grande pezzo ovoidale di materia era sprofondato quasi per metà nel pavimento del cubo, tanto da avere ormai l’aspetto di una cupola. Guardando più da vicino, Jag si accorse che anche alcuni dei ciottoli più piccoli avevano iniziato a sprofondare. Li indicò col primo dito della mano superiore sinistra, mentre contava i frammenti. Sei erano scomparsi, probabilmente già completamente sprofondati nel pavimento del cubo. Ma senza lasciare alcun buco. «Sta cadendo attraverso il pavimento» disse Jag. Guardò in su. «Computer centrale!» “Sì?” rispose Phantom. «Voglio gravità zero nella camera dei campioni. Immediatamente!» “Eseguo.” «Bene. No… aspetta! Ordine modificato: voglio cinque G standard là dentro, ma l’attrazione deve partire dal soffitto, non dal pavimento. Chiaro? La gravità deve far cadere gli oggetti dal basso verso l’alto.» “Eseguo” disse Phantom. Rissa e Jag rimasero a guardare, affascinati, la forma ovoidale risalire dal fondo del cubo. Prima che fosse completamente riemerso, altri ciottoli zampillarono dal pavimento e caddero verso il soffitto. Quando lo colpirono, l’effetto non fu quello prevedibile: anziché rimbalzare, si comportarono come sassi che affondano nel catrame. «Computer, fai oscillare la gravità finché tutti gli oggetti non saranno emersi dal pavimento o dal soffitto, poi passa a zero G e lascia i campioni a fluttuare nella camera.» “Eseguo.” «Accidenti, è incredibile» esclamò Rissa. «Quella roba passa attraverso la materia solida.» Jag sbuffò. «I primi campioni che abbiamo tentato di raccogliere devono essere sfuggiti dalle pareti delle sonde sotto la spinta dell’accelerazione verso la Starplex.» Continuando a invertire dal soffitto al pavimento e viceversa l’apparente sorgente di gravità nella camera, alla fine Phantom riuscì a far fluttuare tutti i ciottoli al centro del cubo. Ma a Jag si rizzò il pelo quando vide che cosa accadeva se due frammenti si avvicinavano: si aspettava di vederli rimbalzare in direzioni opposte dopo l’impatto, invece cambiarono direzione pochi millimetri prima di toccarsi. «Magnetismo» suggerì Rissa. Jag mosse le spalle inferiori. «No, non può esserci azione magnetica… non ci sono cariche elettriche.» Nel cubo c’erano quattro bracci articolati, capaci di emettere raggi trattori e Jag li usò tutti insieme controllandoli ciascuno con una mano. Ne impiegò una coppia per bloccare un pezzo di ghiaia traslucida di un centimetro di diametro, e l’altra per trattenere un altro pezzo di eguale grandezza. Poi manovrò i comandi per farli muovere uno verso l’altro. Tutto andò bene finché i frammenti non furono vicinissimi ma, a quel punto, per quanto aumentasse l’energia dei raggi trattori, non riuscì a farli avvicinare ulteriormente. «Sorprendente» disse. «C’è qualche forza che li respinge… una forza repulsiva non magnetica. Non ho mai visto niente del genere.» «Dev’essere questo a impedire che la nebbia di ghiaia si fonda in una massa unica» suggerì Rissa. Jag scrollò le spalle superiori. «Può essere. L’effetto complessivo è che i granelli di ghiaia tra le sfere sono tenuti insieme dalla gravità, ma non possono ammassarsi più di così.» «Allora che cosa tiene insieme i ciottoli? Perché la forza repulsiva non li fa a pezzi?» «Il legame interno dev’essere chimico. Suppongo che in origine si siano formati in condizione di enorme pressione… dev’essere stata la pressione a sconfiggere la repulsione che abbiamo appena osservato. Una volta legati gli atomi restano vicini, ma ci vorrebbe una forza enorme per raggruppare più ciottoli.» «Ehi» disse Rissa. «Sai che cosa penso?» I quattro occhi di Jag si spalancarono. «Gli Sbattiporta! Abbiamo visto cos’hanno fatto a una sonda… Se rivolgessero le loro armi contro un mondo, forse il risultato sarebbe questo: vere macchine dell’apocalisse, che non soltanto distruggono il pianeta ma attivano una forza che impedisce ai frammenti di rimettersi insieme.» «E adesso c’è una scorciatoia aperta, che porta da qui ai mondi del Commonwealth. Se la imboccassero…» In quel momento sulla parete di Jag risuonò un bip, e vi apparve la faccia rugosa di Cynthia Delacorte. «Jag, devo proprio… oh, ciao, Rissa. Jag, volevo ringraziarti per avermi mandato quei campioni. Lo sai che affondano nella materia normale?» Jag alzò le spalle superiori. «Incredibile, vero?» Cynthia annuì. «Puoi dirlo forte. Quella roba non è normale materia barionica. E non è neppure antimateria, ovviamente, altrimenti avremmo già fatto un bel botto. Ma mentre i normali protoni e neutroni sono composti da quark up e down,questa materia è fatta di quark opachi e lucidi.» Il pelo di Jag fremette per l’eccitazione. «Davvero?» «Non ho mai sentito parlare di questo tipo di quark» intervenne Rissa. Jag sbuffò come se fosse infastidito dalla sua stupidità, ma Cynthia annuì. «Dal Ventesimo secolo l’umanità conosce sei “sapori” di quark: up,down,strange,charm,bottom e top. In effetti, sei era il massimo consentito dal vecchio modello standard della fisica, così smettemmo di cercarne altri. Il che si rivelò un grosso errore.» Indicò Jag con lo sguardo. «Anche i waldahudin avevano scoperto soltanto sei sapori. Ma quando incontrammo gli ib venimmo a sapere che ce n’erano altri due, che ora indichiamo come i due gradi opposti della lucentezza: opaco e lucido. Non si possono ottenere in alcun modo da collisioni tra particelle di materia normale, ma gli ib hanno compiuto un’impresa unica estraendo materia dalle fluttuazioni quantistiche. I loro esperimenti hanno prodotto di tanto in tanto quark con lucentezza, o quark lucenti, ma soltanto a temperature molto, molto elevate. Ciò che abbiamo trovato qui è il primo esempio di materia fatta di quark lucenti.» «Incredibile!» esclamò Jag. «Hai notato che questa fardint roba non ha nessuna carica? Come sì spiega?» Cynthia Delacorte annuì, e guardò Rissa. «Gli elettroni hanno carica negativa pari a uno, i quark up hanno carica positiva pari a due terzi e i quark down hanno carica negativa pari a un terzo. I neutroni sono composti da due quark down e un quark up,che danno in totale una carica zero. I protoni contengono invece un down e due up,per una carica totale di più uno. Poiché gli atomi hanno un numero uguale di protoni e di elettroni, sono complessivamente neutri.» Rissa sapeva che quella spiegazione era a suo esclusivo beneficio. Guardò la faccia di Cynthia sulla parete e fece un cenno di assenso per incoraggiarla a continuare. «Be’, questa materia quark-lucente è composta di quelli che io chiamerei para-neutroni e para-protoni. I para-neutroni sono fatti di due quark lucidi e uno opaco, mentre i para-protoni contengono una coppia di opachi e un lucido. Né i lucidi né gli opachi mostrano però un qualsivoglia tipo di carica… ed è per questo che il nucleo è sempre elettricamente neutro, comunque sia composto. Senza un nucleo positivo non c’è nulla che attragga le cariche negative degli elettroni, quindi un atomo quark-lucente è composto dal solo nucleo: non ha gusci elettronici orbitanti. Ne consegue che la materia lucente non è semplicemente neutra dal punto di vista elettrico, ma è anelettrica: è immune a qualunque interazione elettromagnetica.» «Dèi» esclamò Jag. «Questo spiegherebbe perché affonda negli oggetti solidi. Probabilmente sarebbe passata del tutto inosservata se non fosse stato per i granelli di carbonio e dell’idrogeno che la inquinano, e… ma certo! Questo spiega anche perché la vediamo. Se fosse fatta esclusivamente di atomi quark-lucenti sarebbe invisibile, perché la riflessione e l’assorbimento della luce dipendono entrambi da cariche in vibrazione. Ciò che vediamo è soltanto la polvere interstellare imprigionata dalla gravità dentro la materia lucente, come sabbia in gelatina.» Guardò lo schermo a parete. «D’accordo, non interagisce elettromagneticamente. E le forze nucleari?» «Sente sia la forza nucleare forte sia quella debole» rispose Cynthia. «Ma sono entrambe forze a breve raggio e non credo che potremo usarle per studiare come interagisce con la materia convenzionale, se non a pressioni e temperature incredibilmente alte.» Jag restò un attimo in silenzio, immerso nelle sue riflessioni. Quando tornò a parlare, i suoi latrati furono sommessi. «È incredibile» commentò. «Sapevamo che l’arma degli Sbattiporta può rompere i legami chimici, ma l’idea che possa trasformare la materia convenzionale in materia quark-lucente è…» «L’arma degli Sbattiporta?» lo interruppe Cynthia Delacorte, inarcando le sopracciglia grigie. «Credi che possa avere un effetto simile? No, ne dubito. Ci vorrebbero migliaia di anni per staccare dalle sfere tutta quella polvere. La mia ipotesi è che ci troviamo di fronte a un fenomeno naturale.» «Naturale…» disse Jag, ripetendo il latrato appena uscito dal suo impianto di traduzione. «Affascinante. E cosa puoi dire degli effetti gravitazionali?» «Dunque, la massa dei quark lucenti è circa 716 volte quella dell’elettrone, il che equivale a circa il 18 per cento in più di quella dei quark up e down. Di conseguenza un atomo quark-lucente ha un po’ più massa, e dunque genera un po’ più gravità, rispetto a un atomo normale con lo stesso numero di nucleoni. Ma che sia dannata se so come fanno questi quark-lucenti a interagire chimicamente l’un con l’altro.» Jag stava passeggiando avanti e indietro. «Va bene» disse. «Va bene… riflettiamo su questo. Immaginiamo che ci siano due forze ancor più fondamentali delle quattro tradizionali. Tutto sommato, fin da quando il vecchio modello standard è crollato siamo tutti in cerca di forze aggiuntive. Diciamo che ce n’è una repulsiva e a lungo raggio… Io e Cervantes l’abbiamo già vista al lavoro quando abbiamo cercato di raggruppare i frammenti di ghiaia con i raggi trattori. L’altra forza dovrebbe essere a medio raggio e attrattiva.» «Questo che cosa dovrebbe dirci?» domandò Delacorte. «Be’, la chimica che conosciamo è il risultato della sovrapposizione orbitale di elettroni che circondano nuclei carichi» spiegò Jag. «In questa materia nulla di tutto ciò può valere. Però se la forza attrattiva a medio raggio fosse più intensa della forza nucleare debole, potrebbe funzionare più o meno come una pseudo-carica, rendendo possibile una specie di pseudo-chimica. Potrebbe per esempio legare gli atomi senza ricorrere all’elettromagnetismo. Nello stesso tempo, la forza repulsiva a lungo raggio respingerebbe reciprocamente i quark-lucenti, e verrebbe sopraffatta dalla gravità soltanto al raggiungimento di una densità di massa sufficiente. Proprio come quando la gravità schiaccia insieme elettroni e protoni finendo per creare una stella di neutroni, contro tutti gli sforzi fatti dagli elettroni per rimanere fuori dagli orbitali altrui.» Fissò Rissa. «Questo significa che la pseudo-chimica è in grado di condurre reazioni abbastanza complesse a livello molecolare, ma anche che a livello macroscopico la materia quark-lucente può costituire soltanto strutture grandi come pianeti, le uniche che abbiano abbastanza gravità da contrastare la forza repulsiva.» Cynthia sembrò impressionata. «Se davvero sei riuscito a capire come funziona questa sostanza, vincerai di sicuro il Nobel di Kayf-Dukt. È difficile crederlo… una materia completamente diversa, che interagisce solo debolmente con quella…» «Pastark!» abbaiò Jag. «Per tutti gli dèi, ma lo sapete che cose?» la sua pelliccia sbatacchiava come frumento in un uragano. «Diccelo tu» disse alla fine Rissa, irritata. «Non dovremmo chiamarla “materia quark-lucente”» declamò Jag. «Questa sostanza ha già un nome perfetto, e ben conosciuto.» Guardò l’immagine di Cynthia con i due occhi destri, e Rissa con i due sinistri. «Materia oscura!» «Buon Dio!» esclamò Cynthia. «Credo che tu abbia ragione.» Scosse la testa, stordita dalla meraviglia. «Materia oscura.» «Proprio così» ululò Jag. «Riempie la maggior parte del nostro universo, eppure non abbiamo mai saputo che cosa fosse. Questa è la scoperta del secolo!» Chiuse tutti e quattro gli occhi, contemplando la gloria. Delta Draconis «Com’era Saul Ben-Abraham?» domandò Vetro. Keith osservò la simulazione di foresta che lo circondava, chiedendosi in quanti modi poteva descrivere l’uomo che era stato il suo migliore amico. Alto. Impetuoso. Con una risata che si sentiva a un chilometro di distanza. Capace di indovinare il titolo di una canzone dopo le prime tre note. E di ingurgitare più birra di chiunque Keith avesse conosciuto (doveva avere una vescica grande come l’Islanda). Alla fine Keith tornò in sé. «Peloso.» «Come ha detto?» chiese Vetro. «Saul aveva una gran barba» spiegò Keith. «Gli copriva quasi tutta la faccia. E aveva un unico gigantesco sopracciglio, come un braccio di scimpanzé appoggiato sulla fronte. La prima volta che lo vidi in calzoncini corti rimasi stupefatto: sembrava un sasquatch.» «Sasquatch?» «Un leggendario primate della regione terrestre da cui provengo. Ricordo ancora che quando l’ho visto in pantaloncini per la prima volta ho esclamato: “Ehi, Saul, tu sì che hai le gambe pelose”. Lui fece esplodere la sua fragorosa risata e disse: “Già, da vero maschio!”. Allora io dissi: “Almeno come dieci veri maschi”.» Keith tacque. «Dio, quanto mi manca. Un amico come lui, che per me significava tutto, si incontra una volta nella vita.» Vetro rimase in silenzio per una decina di secondi. «Sì» disse infine. «Credo di sì.» «Naturalmente Saul era qualcosa di più che una massa di peli» disse Keith. «Era brillante: tra le persone che conosco, l’unica che potrebbe essere più intelligente di lui è Rissa. Era un astronomo. Fu lui a scoprire la scorciatoia di Tau Ceti, partendo dalla sua impronta nell’iperspazio. Avrebbe ricevuto il Nobel per questo… se fosse stato possibile assegnarlo postumo.» «Comprendo il tuo senso di perdita» intervenne Vetro. «È come se… Oh, scusami. Il computatore dice che è in arrivo un pacchetto mentale. Puoi aspettare qualche secondo?» Keith annuì e Vetro fece un movimento strano, come di sghembo, e scomparve. Sicuramente era passato da una porta nascosta dalla foresta simulata che riempiva il molo d’attracco… l’unica prova visiva che gli fosse stata concessa per contrastare l’impressione di trovarsi sulla Terra. Be’, se c’era una porta l’avrebbe trovata. Mosse una mano nell’aria nel punto in cui Vetro era scomparso, ma senza trovare nulla. Da qualche parte, comunque, una parete doveva esserci per forza. Il molo non era poi così grande. Keith cominciò a camminare, con la certezza che prima o poi sarebbe andato a sbattere contro una parete. Proseguì per almeno cinquecento metri senza incontrare ostacoli. Era chiaro che se il suo rapitore — appena ebbe formulato mentalmente quella definizione si sforzò di cancellarla e sostituirla con la parola ospite — se il suo ospite avesse voluto batterlo in astuzia avrebbe potuto manipolare le immagini per fargli credere di muoversi in linea retta quando invece camminava in cerchio. Decise di prendersi un po’ di riposo. Per quanto fin dall’inizio avesse tentato di trovare il tempo per esercitarsi nella palestra terrestre della Starplex, dove la gravità era regolata a 1 G, aveva perso comunque un po’ di tono muscolare dopo tutto quel tempo passato nella più leggera gravità waldahud usata negli ambienti comuni della nave. Avrebbe dovuto accettare le sfide a pallamano che gli faceva Thor Magnor. Con Saul aveva praticato quello sport con regolarità, ma aveva smesso dopo la sua morte. Keith sedette nuovamente sul terreno, che in quel punto era tappezzato di trifoglio. Passò le dita nel prato apprezzando la sensazione carezzevole che provava sulla pelle. Era una simulazione davvero egregia. Rilassante, molto bella. Guardò alcuni uccelli veleggiare alti nel cielo, troppo lontani per identificarne la specie. Staccò uno stelo e lo alzò per guardarlo da vicino. Forse era il suo giorno fortunato, sembrava un quadrifoglio… Che fortuna! Lo era davvero! Ne raccolse altri e li contemplò a bocca aperta. Si sdraiò per terra ed esaminò le piantine una per una. Erano tutti quadrifogli. Ne raccolse un altro e se lo portò davanti agli occhi, tenendolo tra pollice e indice. Lo scrutò con la massima attenzione, ma sembrava normalissimo trifoglio da ogni punto di vista: aveva perfino una goccia di linfa verde all’estremità dello stelo spezzato. Ciò nonostante tutti quei trifogli avevano “quattro” foglie. Eppure il trifoglio ha tre foglie, lo dice il nome stesso, se non nei rari casi di mutazioni individuali, mentre quelle piante avevano tutte quattro foglie distinte, di forma ovale. Keith lanciò uno sguardo ai fiorellini bianchi e rosa che spuntavano da alcune piantine: anch’essi confermavano che si trattava di trifoglio. Ma con quattro foglie. Scosse la testa. Com’era possibile che, dopo aver realizzato una simulazione corretta in tutti i dettagli, Vetro avesse commesso un errore del genere? Non aveva senso. Si guardò intorno, alla ricerca di altre discrepanze. Gli alberi decidui sembravano quasi tutti aceri… aceri da zucchero, per la precisione. E quelle conifere erano pini del genere banksiana, quel grande albero un po’ più lontano era un abete rosso. Inoltre… E che uccello era quello posato sull’abete rosso? Certamente non un cardinale rosso né una ghiandaia. Aveva sì una specie di pennacchio sulla testa, ma verde smeraldo, e il becco era piatto e a spatola, molto insolito in un uccello canoro. Quella era la Terra, non c’erano dubbi. Bastava guardare la luna, ancora lassù nel cielo diurno. Eppure non era “esattamente” la Terra: alcuni dettagli non coincidevano. Keith si mordicchiò il labbro, pensieroso. 7 Jag e Rissa presero l’ascensore per il ponte e, dopo qualche istante, Jag era davanti alle due file di computer a raccontare ai colleghi della fantastica scoperta. «C’è una metafora che viene ripetuta sempre identica da anni» abbaiò. «Quella che la materia visibile sarebbe come la schiuma su un nero oceano di materia oscura. Sapevamo che la materia oscura esisteva, per i suoi effetti gravitazionali, ma non l’avevamo mai vista… finora. Quelle sfere là fuori e la nebbia di ghiaia tra loro sono fatte di materia oscura.» Lianne emise un flebile fischio. Keith aggrottò la fronte. Sapeva che cosa fosse la materia oscura, ovviamente: un astronomo del CalTech, Fred Zwicky, aveva postulato la sua esistenza già nel 1933, sulla base di osservazioni delle galassie dell’ammasso della Vergine. Quelle galassie ruotavano l’una intorno all’altra così velocemente che, se la loro massa fosse stata composta principalmente dalle stelle visibili, l’intero complesso avrebbe dovuto sbriciolarsi molto tempo prima. Gli studi successivi avevano messo in luce che quasi tutte le grandi strutture dell’universo, Via Lattea compresa, si comportavano come se in esse ci fosse molta più massa di quella calcolabile tenendo conto dei soli e di tutti i loro possibili pianeti. Esisteva dunque una materia mai osservata prima, soprannominata “materia oscura” perché sembrava non emettere luce né essere particolarmente riflettente, che era responsabile del 90 per cento della forza di gravità presente nell’universo. Come al solito, Thorald Magnor aveva i grossi piedi appoggiati alla consolle e le dita tozze intrecciate dietro la nuca, affondate nella chioma rossa. «Pensavo che avessimo già scoperto che cos’è la materia oscura» disse. «Soltanto in parte» replicò Jag, alzando due delle quattro mani. «Sappiamo da parecchio tempo che la materia barionica, cioè quella fatta di protoni e neutroni, giustifica meno del dieci per cento della massa dell’universo. Nel 2037 abbiamo scoperto che l’inafferrabile neutrino tauonico ha una massa, per quanto piccolissima: circa sette elettronvolt. E abbiamo scoperto che anche il neutrino muonico ha una massa, ma quasi evanescente: tre millesimi di elettronvolt. Poiché questi due tipi di neutrini sono estremamente abbondanti, hanno una massa complessiva due o tre volte superiore a quella della materia barionica. Ma questo ci lasciava ancora con i due terzi della massa dell’universo non giustificata… finora.» «Che cosa ti fa pensare che quella roba là fuori sia proprio materia oscura?» domandò Keith. «Intanto non è materia normale» rispose Jag. «Questo è certo.» Benché cercasse di nasconderlo, Jag si teneva appoggiato con una mano al bordo smussato della consolle di Thor, per impedirsi di cadere sulle quattro gambe. La Starplex aveva introdotto un ciclo a quattro turni come concessione ai waldahudin, originari di un pianeta con una durata del giorno molto breve, ma Jag aveva continuato a lavorare anche nel suo periodo di sonno. «Nei primi studi sulla materia oscura c’erano due candidati per gli oggetti che potevano costituirla: erano stati battezzati WIMP e MACHO dagli astronomi umani… o, meglio, da quelli tra loro che meritavano di farsi una nuotata nell’urina. I WIMP erano weakly interacting massive particles,cioè “particelle massive debolmente interagenti”… vi rendete conto di quale gergo incomprensibile ci abbiano scaricato per il gusto di trovare acronimi così stupidi? Sia quel che sia, i neutrini tauonici e muonici si rivelarono essere WIMP.» «E i MACHO?» domandò Keith. «Massive compact halo objects» recitò Jag. «Cioè “oggetti alone massivi e compatti”, dove l’alone sarebbe la sfera di materia oscura al cui centro si trova una galassia. Si credeva che gli oggetti massivi e compatti fossero miliardi di corpi come Giove, non associati a nessuna stella in particolare… in altre parole, una nebbia di mondi gassosi nella quale si muove la galassia.» Lianne era china in avanti, col mento appoggiato a una mano. «Ma se l’universo fosse davvero permeato di MACHO» chiese «non avremmo dovuto trovarli già da un pezzo?» Jag si girò verso di lei. «Su scala cosmica, anche oggetti della grandezza di Giove sono insignificanti. E dal momento che non sono luminosi, potremmo vederli in un solo caso: se nel loro vagabondare passassero davanti a una stella proprio nel momento in cui la stiamo osservando. E anche così l’effetto sarebbe minimo: una lieve focalizzazione della luce stellare, che causerebbe un momentaneo bagliore. Eventi simili sono stati registrati, di tanto in tanto: l’osservazione più antica in questo senso fu fatta da astronomi umani nel 1993. Ma anche se lo spazio traboccasse di MACHO, cioè se ce ne fossero abbastanza da costituire i due terzi della massa dell’universo, soltanto la luce di una stella ogni cinque sarebbe focalizzata gravitazionalmente a causa del loro passaggio.» Indicò con una mano la zona tremolante del campo stellare. «Qui vediamo un effetto intenso perché siamo particolarmente vicini al campo di materia oscura, ma la materia oscura è di per sé trasparente. Ciò che vediamo in realtà è normale polvere cosmica, sparsa in mezzo a oggetti di materia oscura.» Keith guardò Rissa, sempre con la fronte aggrottata. Lei non fece obiezioni. «Va bene» disse il direttore. «Questa sembra senz’altro una scoperta importante, degna di maggiori…» «Perdonami per l’interruzione» interloquì Rombo «ma ho registrato un impulso tachionico.» Rombo fece ruotare l’ologramma del campo stellare che circondava il ponte fino a portare la scorciatoia nella posizione centrale. Quell’operazione fece tornare in mente a Keith la nausea che aveva provato in un planetario, quando l’operatore aveva voluto dimostrare quanto può essere divertente l’astronomia. Jag si portò rapidamente alla sua postazione, alla sinistra di Keith. La scorciatoia era una spruzzata di puntini verdi, il colore di ciò che la stava attraversando, circondata dal solito anello violetto di radiazione Soderstrom. «È una nave del Commonwealth?» domandò Keith. «No» rispose Rombo. «Non capto nessun segnale di radiofaro.» La chiazza verde continuò a crescere. “Incredulo: questa sì è luce” fu la traballante traduzione di Phantom delle parole che lampeggiavano sul mantello di Rombo. Ma l’ib aveva ragione: la scorciatoia era l’oggetto più luminoso del cielo, superava perfino la stella di classe A che Jag aveva scelto per l’analisi. «Qualunque cosa sia, diamole lo spazio che le serve» disse Keith. «Thor, facci arretrare.» «Agli ordini.» Keith guardò alla sua sinistra. «Jag, analisi spettroscopica.» Il waldahud lesse i dati su un monitor. «Analisi completata: idrogeno, elio, carbonio, azoto, ossigeno, neon, magnesio, silicio, ferro…» «Il colore pare verde purissimo» lo interruppe Keith. «Che sia un laser?» Jag rivolse gli occhi di destra al direttore, tenendo gli altri due fissi sugli strumenti. «No, in quella luce non c’è niente di coerente.» L’intenso bagliore verde stava ancora crescendo, era ormai un luminosissimo cerchio del diametro di parecchi metri. «Forse lo scarico di un reattore a fusione?» suggerì Lianne. «Potrebbe essere una nave che emerge dalla scorciatoia con la parte posteriore, come se stesse decelerando.» Jag consultò altri dati. «Di sicuro quella è la firma di una fusione» disse. «Ma se a generarla fosse un motore, dovrebbe essere “molto” potente.» Keith si alzò dalla sua postazione e raggiunse Rombo. «C’è la possibilità di contattare quella nave?» Una delle corde manipolatrici di Rombo sferzò un comando. «Chiedo scusa, ma non con segnali radio convenzionali. Quell’oggetto emette una quantità incredibile di impulsi elettromagnetici. Un collegamento iperspaziale potrebbe funzionare, ma non abbiamo modo di sapere quale livello quantistico usino per le comunicazioni.» «Comincia dal più basso e sali» ordinò Keith. «Segui la normale sequenza dei numeri primi.» Un’altra corda schioccò. «Trasmissione iniziata. Per provare ogni livello possibile, però, ci vorrebbe davvero l’eternità.» Keith si girò verso Rissa. «Sembra che avrai l’opportunità di un primo contatto, dopo tutto.» Tornò a guardare la scorciatoia. «Accidenti quanto brilla.» Ormai ogni cosa sul ponte che non fosse celata dall’ologramma era immersa in quella luce verde. Anche se sull’invisibile pavimento non se ne notavano le ombre, gli altri membri dell’equipaggio erano tutti ammassati nella “galleria” dietro le postazioni computerizzate. «È anche più luminoso di quello che sembra» osservò Jag. «La telecamera filtra la maggior parte della luce.» «Che diavolo può essere?» domandò Keith, guardando Jag. «Qualunque cosa sia» rispose l’altro «emette un fiume di particelle cariche.» Potrebbe essere un’arma a raggio particellare. «Il cerchio verde continuava a espandersi.» Il diametro attuale è di 110 metri «disse Jag.» Adesso 150. «I suoi latrati divennero sempre più sommessi, per l’incredulità.» Siamo a 250, no a 500. Un chilometro tondo tondo. Due chilometri! Keith rivolse lo sguardo all’abbacinante immagine dell’ologramma. «Cristo» esclamò, schermandosi gli occhi con un braccio. Schiocchi di corde dalla parte di Rombo… uno strillo in lingua ibese. «Sono contrito» disse dopo un attimo, mentre il suo display si oscurava leggermente. «La luminosità dell’oggetto ha ecceduto la compensazione automatica. Da adesso in poi controllerò il display direttamente.» Il cerchio verde continuava a espandersi a tutta velocità. I suoi bordi erano corruschi di violette scariche Soderstrom, un alone pirotecnico che contornava il grande centro verde. L’area di mezzo aveva ancora l’apparenza di un cerchio piatto. «La temperatura è di circa duemila gradi Kelvin» annunciò Jag. «Accidenti com’è caldo» commentò Rissa. «Che cos e, in nome di Dio?» Risuonò un allarme, che alternava toni alti e bassi. «Pericolo radiazioni!» gridò Lianne. Ruotò la sedia per guardare Keith negli occhi. «Contromisura raccomandata: spostare la Starplex.» «D’accordo» disse Keith, tornando di corsa alla postazione di comando. «Thor, registra la posizione e allontanaci di altri 50 mila chilometri dalla scorciatoia.» Diede un’occhiata ai dati di navigazione. Rotta 210 gradi per 45 gradi. Usa solo i razzi, non voglio entrare nell’iperspazio finché non so che cos’è uscito dalla scorciatoia. «Agli ordini, capo» disse Thor, con le mani che volavano sugli strumenti. La crescita del cerchio verde rallentò ma non si fermò. Il suo ritmo di espansione superava la velocità di manovra della Starplex. «Non immaginavo che una scorciatoia potesse aprirsi così tanto» disse Rombo. «Jag, hai idea di che cosa stia sbucando da lì?» Le due coppie di spalle di Jag salirono e scesero. «Oggetto sconosciuto. L’analisi spettrale è insolita… troppe righe di assorbimento di Fraunhofer per elementi pesanti. Nessun riscontro nei nostri database.» Fece una pausa. «Se davvero si tratta dello scarico di un motore a fusione, deve essere immenso.» «Sembra sempre perfettamente piatto» intervenne Rissa. «Come fa a continuare a espandersi restando un cerchio?» «L’apparente espansione è causata dalla dilatazione dell’apertura della scorciatoia» rispose Jag. «La velocità di apertura non è istantanea, e quando una scorciatoia viene toccata da una superficie piatta si mantiene circolare fino a quando non raggiunge gli orli dell’oggetto.» Con gli occhi di sinistra diede un’occhiata agli strumenti. «Il ritmo di apertura sta crescendo, anche se non in maniera costante.» L’alone viola che rappresentava i confini del portale era una linea impercettibile intorno al cerchio immenso, simile alla riga opaca che circondava un’astronave di un vecchio film di fantascienza. «Quanto è grande adesso?» domandò Keith. Evidentemente Jag si era stancato di rispondere a questa domanda. Premette alcuni tasti sulla sua consolle e intorno al cerchio verde comparvero tre righelli con differenti unità di misura, che si disposero sui tre lati come una cornice. Adesso il diametro era di 450 chilometri. «Il livello di radiazioni cresce velocemente» disse Lianne. «Thor, raddoppia la velocità di ritirata» ordinò Keith. «Gli schermi di forza sono all’altezza?» Lianne consultò una serie di dati. Scosse la testa. «Se continua ad aumentare così, no.» Intanto sullo sfondo continuava l’altalena sonora. «Spegnete quel maledetto allarme» gridò Keith. Poi, rivolto al waldahud: «Jag?» «È piatto» fu la risposta. «Sembra un muro di fuoco. Adesso ha un diametro di oltre mille chilometri. Milletrecento… Millesettecento…» La luce di smeraldo dominava il cielo. Tutti gli umani si schermavano gli occhi con le mani. All’improvviso un fascio di luce verde scaturì dalla parete, come una frustata di neon su uno sfondo notturno. Continuò a estendersi fino ad arrivare a 50 mila chilometri dalla scorciatoia. «Dio mio» esclamò Rissa. «Ditemi che non è un’arma» sbottò Jag alzandosi in piedi, e restando immobile con entrambe le coppie di braccia allacciate dietro la schiena. «Se non avessimo fatto arretrare la nave saremmo stati inceneriti.» «Potrebbero essere… gli Sbattiporta?» suggerì Lianne. Il fascio verde stava ora ricadendo verso il grande cerchio luminoso della scorciatoia. Mentre veniva riassorbito, si ruppe in infuocati segmenti lunghi migliaia di chilometri ciascuno. «Thor, preparati a entrare in iperpropulsione al mio ordine» disse Keith. «A tutte le stazioni: procedure per l’iperpropulsione» disse la voce di Lianne dagli altoparlanti. «È un campo di forza di qualche tipo?» domandò Rissa. «Improbabile» rispose Jag. «Se quello è davvero lo scarico del motore» disse Keith «quella nave deve avere lo statopropulsore più grosso della storia, attaccato all’altra estremità.» «Il diametro è di ottomila chilometri» intervenne Jag. Aveva già ricalibrato per due volte le unità di misura dei rilevatori. «Diecimila…» «Thor, trenta secondi all’iperdrive!» «Tutte le stazioni in preallarme» disse Lianne. «Iperdrive fra venticinque secondi, da adesso.» Un’altra lingua di fiamme verdi scaturì dal cerchio in espansione. «Iperdrive fra quindici secondi» disse la voce di Lianne. «Dio mio, quanto è grande!» sussurrò Rissa con un soffio di voce. «Iperdrive fra cinque secondi… attivazione dell’iperdrive cancellata! Contrordine automatico!» «Cosa? Perché?» Keith guardò i due occhi del computer centrale montati sulla sua postazione. «Che cosa succede, Phantom?» “Il pozzo gravitazionale è troppo profondo per un sicuro inserimento nell’iperspazio” replicò il computer. «Quale pozzo gravitazionale? Siamo nello spazio aperto!» «Oh, Dio!» esclamò Jag. «È così grande da curvare lo spaziotempo.» Si alzò dalla sua postazione e avanzò trotterellando fino al centro del ponte. «Dimezza la luminosità del display.» Le corde di Rombo schioccarono e la luminosità del gigantesco cerchio verde si attenuò, pur mantenendo l’ardente biancore di un’immagine sovraesposta. «Dimezza ancora» sbottò Jag. Vi fu un’ulteriore attenuazione. Jag tentò di esaminare l’immagine, ma la sua luminosità era ancora di gran lunga troppo elevata per occhi evolutisi sotto un tenue sole rosso. «Di più» ordinò. La scena si oscurò ancora e all’improvviso la superficie verde mostrò qualche dettaglio: una sorta di granulosità fatta di zone più chiare e zone più scure. «Non è una nave» dichiarò Jag, e sotto la voce tradotta da Phantom si udirono i singhiozzanti latrati che in waldahudar indicavano estrema stupefazione. «È una stella.» «Ma è verde!» esclamò Rissa, sconcertata. «Non esistono stelle verdi.» «Thor, propulsori a piena potenza» ordinò Keith. «Rotta di allontanamento perpendicolare alla scorciatoia. Sbrigati!» Tornò a farsi udire l’ululato della sirena di allarme. «Allarme radiazioni livello due» gridò Lianne, sovrastando il suono. «Schermi di forza al massimo» replicò Keith. «O l’una o l’altra, capo» tuonò Thor. «La piena potenza non va d’accordo con gli schermi al massimo.» «Priorità alla propulsione, allora. Portaci via di qua.» «Se è una stella» disse Rissa «siamo decisamente troppo vicini.» Guardò Jag, che non fece commenti. «O mi sbaglio?» insisté. Jag sollevò le spalle superiori. «Di gran lunga» rispose in tono sommesso. «Se non saranno le radiazioni a friggerci, ci penserà il calore» commentò Rissa. «Thor, puoi aumentare la velocità?» chiese Keith. «No, capo. Il pozzo gravitazionale locale cresce troppo rapidamente.» «Non faremmo meglio ad abbandonare la nave madre?» suggerì Lianne. «Navi più piccole forse riuscirebbero a sfuggire.» «Perdonami, ma non è così» disse Rombo. «A parte il fatto che non abbiamo vascelli ausiliari a sufficienza per evacuare tutti, c’è anche da considerare che ben pochi di essi sono attrezzati con schermi adatti alla vicinanza di una stella.» Lianne aveva la testa inclinata, segno che stava ascoltando una comunicazione privata sugli auricolari. «Direttore, arrivano messaggi da ogni parte della nave. Sta scoppiando il panico.» «Contromisure standard per le radiazioni» ribatté secco Keith. «Non basteranno» mormorò Jag tornando alla sua postazione. Keith alzò lo sguardo verso Rissa. Uno dei monitor della donna mostrava lo schema della Starplex: due diamanti che si inserivano perpendicolarmente sul grande disco centrale. «Sarebbe possibile» domandò lei «far ruotare la Starplex fino ad avere il ponte oceano ad angolo retto con la nostra rotta?» «Che differenza farebbe?» domandò Keith. «Ci permetterebbe di usare l’acqua marina come schermo antiradiazioni. C’è uno strato d’acqua alto venticinque metri sul ponte, che garantirebbe un notevole isolamento.» Sulla rete di Rombo le luci ammiccarono. «Sarebbe certamente d’aiuto… almeno per chi non si trova sul ponte oceano, o sotto.» Parlò anche Lianne. «Se non faremo qualcosa saremo fritti tutti, sopra e sotto.» Keith annuì. «Thor, ruota la Starplex come ha detto Rissa.» «Razzi Acs accesi.» «Lianne, prepara un piano di evacuazione per il personale dei ponti dal 31 al 70.» La donna annuì. «Phantom, apri l’intercom.» “Intercom attivato.” «Tutti facciano attenzione. Parla il direttore Lansing. Iniziare l’evacuazione dei ponti dal 31 al 70, seguendo le istruzioni di Karendaughter, responsabile delle operazioni interne. Allontanarsi dal toroide ingegneria, dai moli d’attracco, dalle stive e dai quattro moduli abitativi inferiori. Tutti si sposteranno nei moduli abitativi superiori. I delfini scelgano se allontanarsi dal ponte oceano o se raggiungere la superficie e non allontanarsene più. L’ordine è di muoversi in modo ordinato, ma muoversi! Fine messaggio, Phantom, traduci e trasmettilo a ciclo continuo.» Nel display olografico si vedeva la superficie della stella gonfiarsi come una bolla. «Il ritmo di apertura della scorciatoia sta accelerando» disse Jag. «Probabilmente ha impiegato un po’ di tempo per arrivare a questo livello perché all’inizio la stella era essenzialmente piatta, ma ora che la curvatura è evidente la velocità cresce di conseguenza.» «Il livello di radiazioni sale con lo stesso ritmo della superficie» annunciò Lianne. Adesso un brillamento nella nostra direzione ci incenerirebbe. «Stato dell’evacuazione» disse Keith, secco. Lianne premette alcuni pulsanti, e ventiquattro immagini quadrate presero il posto di altrettante sezioni dell’ologramma stellare. Ciascuna mostrava una diversa scena vista dagli “occhi” di Phantom, e le scene continuavano a variare secondo un ciclo fisso che comprendeva tutte le telecamere del computer. Un corridoio (livello 58, diceva il testo in sovraimpressione): sei ib avanzavano rapidamente sulle loro ruote. Un’intersezione: tre donne umane in tuta correvano verso la telecamera, mentre due waldahudin e un umano maschio se ne allontanavano altrettanto in fretta. La zona a gravità zero dello stelo centrale: varie persone avanzavano verso l’alto aggrappandosi alle maniglie sulle pareti. Un tubo verticale pieno d’acqua, con tre delfini che nuotavano verso l’alto. Un ascensore, con un waldahud che con una mano teneva aperta la porta e con le altre tre esortava altra gente a salire. Un altro ascensore, dove si vedeva un ib circondato da una decina di umani. «Anche quando tutti saranno sopra il ponte oceano» disse Lianne «non credo che saremo schermati a sufficienza dalle radiazioni.» «Un attimo!» esclamò Thor. «E se andassimo dietro la scorciatoia?» «Eh?» disse Rombo. O, almeno, questo fu il suono che Phantom usò per interpretare la vaga luminosità che aveva increspato il suo manto. «La scorciatoia è un buco circolare» disse Thor, girandosi verso Keith. «E la stella emerge da lì. Dietro, però, c’è un cerchio vuoto: un nero nulla che ha la forma di qualunque cosa che lo stia attraversando. Se andremo dietro la scorciatoia saremo protetti… almeno per un po’.» Jag sbatté tutte e quattro le mani sulla consolle. «È vero!» Keith annuì. «Fallo, Thor. Cambia la rotta e portaci nell’ombra della scorciatoia, mantenendo il fondo del ponte oceano dalla parte della stella in emersione.» «Eseguo» disse Thor. «Ma ci vorrà un bel po’ per arrivarci.» Nell’ologramma sferico che avvolgeva il ponte, il lucente profilo circolare della stella divenne a poco a poco una cupola verde, mentre Thor spostava la nave. “Dorsale Alta per Lansing!” L’acuta voce di un delfino uscì dall’intercom, con rumore di tonfi e spruzzi in sottofondo. “Aperto. Qui Lansing.” “Thor la nave in linea retta spostando non sta. Qui sul ponte oceano le maree abbiamo.” «Che ne dici, Lianne?» domandò Keith, e subito tutte le 24 immagini dell’evacuazione diventarono inquadrature dell’oceano da angolazioni diverse. L’acqua marina sciabordava fino al soffitto olografico che celava il boccaporto laterale, vere onde sfioravano le false nuvole, costringendo tutti i delfini a spostarsi a tribordo per poter respirare. «Accidenti» esclamò Thor. «Non ci avevo pensato. Farò ruotare la nave sul suo asse, durante lo spostamento. Con un po’ di fortuna dovrei riuscire a mantenere le varie forze in equilibrio. Chiedo scusa.» A mano a mano che la Starplex si spostava, la cupola rigonfia della stella verde cominciò a essere progressivamente eclissata dall’oscurità circolare che formava il retro della scorciatoia. Alla fine il verde scomparve: la Starplex era nell’ombra della scorciatoia. L’unica prova che vi fosse una stella in emersione era la sfumatura smeraldina sul campo di materia oscura alle loro spalle. In quella posizione, infatti, era invisibile perfino l’anello di radiazione Soderstrom. Il quale, dopo tutto, era causato dai tachioni che scaturivano dalla scorciatoia in direzione opposta alla loro. Il cerchio buio continuò a crescere, cancellando dal cielo un numero sempre maggiore di stelle. Adesso il suo diametro era di 800 mila chilometri. «Riesci a estrapolare quanto sia grande la stella, sulla base della curvatura visibile da questa parte?» domandò Keith a Jag. «Non siamo ancora a metà» replicò Jag «e c’è una forte velocità di rotazione che confonde i dati. La migliore ipotesi è un milione e mezzo di chilometri.» «Ci sono possibilità di entrare in iperpropulsione, Thor?» domandò Keith. Thor si rivolse all’ologramma di Keith che galleggiava sopra la sua consolle. «Per ora no. Dovremo arrivare ad almeno 70 milioni di chilometri dal centro della stella, prima che lo spazio sia abbastanza piatto da permettercelo. Ritengo che raggiungeremo questa distanza in undici ore.» «Ore! Quanto tempo rimane prima che l’equatore della stella oltrepassi la scorciatoia?» «Forse cinque minuti» rispose Jag. «Stato dell’evacuazione?» «Sotto il ponte oceano ci sono ancora 190 persone» disse Lianne. «Ce la faremo?» le domandò Keith. «Io non…» «Propulsore numero 6 nei guai» tuonò Thor. «Surriscaldamento.» «Splendido» commentò Keith. «Devi escluderlo?» «Per il momento no» rispose Thor. «Sto iniettando nanoriparatori nelle serpentine di raffreddamento. Forse riusciranno a ripararle in tempo.» «L’equatore della stella verde sta per passare dalla scorciatoia» annunciò Jag. Una parte del display olografico si trasformò in una schematica rappresentazione dell’evento in corso. A sinistra c’era l’emisfero stellare già emerso dalla scorciatoia, mentre la scorciatoia stessa era vista di profilo come una linea verticale. Dall’altra parte, in allontanamento, si vedeva il profilo a diamante della Starplex. Non appena l’equatore oltrepassò la scorciatoia, il buco nello spazio creato dalla scorciatoia stessa cominciò a contrarsi, e il vento di fotoni e particelle cariche soffiò anche all’indietro. Il profilo dell’ondata di radiazioni iniziava con un’apertura simile a quella delle lancette di un orologio a mezzogiorno e sei, e tendeva ad allargarsi fino all’angolo delle tre in punto. Thor spinse la Starplex ai limiti estremi. Anche Keith vide la costellazione di spie gialle d’allarme che si era accesa sul pannello di comando del pilota. La nave continuava a risalire il pozzo gravitazionale creato dalla stella, ma il suo tunnel di fuga si stringeva sempre più a mano a mano che la scorciatoia si contraeva. «Lansing!» gridò Jag. «Il campo di materia oscura si sta muovendo… si allontana dalla stella.» «Può dipendere da quella forza repulsiva di cui parlavi?» Jag fece sobbalzare entrambe le coppie di spalle. «Non è il tipo di effetto che avrei previsto, però…» «Evacuazione dei ponti inferiori completata» annunciò Lianne, voltandosi verso il direttore. «Anche così» disse Thor «ci prenderemo un bel calcione di radiazioni, quando l’onda di ritorno ci colpirà.» Alla fine la stella emerse del tutto e la scorciatoia scomparve. Nello stesso momento, Thor trasferì tutta l’energia dai motori ai campi di forza schermanti, nel tentativo di deviare quante più radiazioni possibile. La Starplex continuò a viaggiare solo per inerzia. L’allarme radiazioni ricominciò a ululare. «Siamo abbastanza lontani?» domandò Keith. Thor era troppo indaffarato con i comandi per rispondergli. «Siamo abbastanza lontani?» ripeté. Jag fece qualche calcolo. «Credo di sì» rispose. «Ma solo considerando la schermatura del ponte oceano. In caso contrario avremmo assorbito tutti una dose letale di radiazioni.» «Bene» commentò Keith. «Continuiamo in questa direzione finché non saremo a distanza di sicurezza. Lianne, prepara un nuovo ciclo di turni che preveda un uso minimo dei cetacei, e metti in ibernazione sanitaria tutti i delfini non essenziali fino a quando potremo sostituire l’acqua del ponte oceano. Considerato la velocità con cui la stella esce dalla scorciatoia, passeranno giorni prima che ci si possa avvicinare al portale senza rischi.» Dopo una pausa, continuò: «Avete fatto tutti un buon lavoro. Rombo, in che condizioni sono i moli d’attracco?» «Dovrebbero essere ancora utilizzabili: hanno le pareti pesantemente schermate contro le radiazioni che una nave ormeggiata potrebbe emettere in caso di esplosione o di scontro.» «Bene» disse Keith. «Thor, informami quando siamo a una distanza accettabile dalla stella.» Si girò verso il waldahud. «Jag, dovresti darle un’occhiata da vicino. Voglio sapere con certezza da dove sbuca e perché si trova laggiù.» 8 C’era voluto molto tempo agli umani per decifrare il linguaggio dei delfini. Quando infine ci erano riusciti, avevano scoperto che i nomi delfinesi corrispondevano ai sonargrammi dei singoli delfini, ma con le caratteristiche fisiche più insolite esagerate. Fu per questo che nessuno si sorprese quando si scoprì che l’unica forma d’arte umana apprezzata dai delfini erano le vignette di satira politica. Uno dei migliori piloti di nave-sonda della Starplex era un delfino chiamato dagli umani Lunga Bottiglia… un ben misero sostituto per la sinfonia di trilli e schiocchi che i suoi compagni percepivano come una caricatura che enfatizzava il suo poderoso muso allungato. La nave-sonda preferita da Lunga Bottiglia era la Rum Runner, un cuneo bronzeo lungo venti metri e largo dieci. Un serbatoio pieno d’acqua era situato lungo l’asse della nave, mentre a destra e a sinistra c’erano ambienti riempiti d’aria che si congiungevano a U sul retro, separati da un portello stagno. La sezione di babordo era di norma regolata sugli standard umani, quella di tribordo si conformava alle preferenze dei waldahudin. Per pilotare il vascello, Lunga Bottiglia si serviva di sensori fluttuanti agganciati alla coda e alle pinne pettorali. La nave era dotata di centinaia di razzi di controllo-bilanciamento che le consentivano di muoversi mimando i movimenti del delfino nel serbatoio centrale. Una tecnica simile richiedeva un esagerato dispendio di carburante, al punto che i waldahudin avevano rifiutato di partecipare alle gare d’appalto per la costruzione di quei vascelli. Contemporaneamente, però, consentiva una grande manovrabilità e, secondo Lunga Bottiglia, un’assoluta gioia di volare. Benché la Rum Runner potesse restare lontano dalla Starplex fino a quattro settimane consecutive, l’attuale missione non sarebbe durata più di un giorno, e l’equipaggio sarebbe stato composto soltanto da Lunga Bottiglia e da Jag. La Rum Runner era di solito ormeggiata nel molo d’attracco 7, uno dei cinque collegati al ponte oceano attraverso il toroide ingegneria. La nave era agganciata alla parete del ponte, dalla quale tre tubi guidamassa leggermente inclinati si allungavano fino ai boccaporti del soffitto. Non appena Jag e Lunga Bottiglia furono a bordo, il loro segmento del molo d’attracco si mosse verso l’alto. Lunga Bottiglia, famoso per i suoi lanci teatrali, non si smentì: fece sfrecciare la nave sopra il molo, poi si mise a ruotare e inarcarsi nel serbatoio, guidando in un volo mozzafiato la Rum Runner attraversò tutti i boccaporti, lungo un ampio cerchio intorno al disco centrale. Poi ruotò su un fianco nel serbatoio, e la nave si inclinò in modo simile a un’auto che prende una curva sulle due ruote laterali. Jag era sempre più impaziente ma Lunga Bottiglia, come tutti i delfini, non ci badava. Fece una serie di giravolte e di guizzi nel serbatoio, e la nave reagì di conseguenza. Le piastre gravitazionali sotto il compartimento di Jag compensavano tutti quei movimenti, ma nel suo tubo pieno d’acqua Lunga Bottiglia sentiva la nave come un’estensione del suo corpo. Alla fine, quando si fu divertito abbastanza, il delfino impostò una rotta fortemente incurvata: un ennesimo spreco di energia, ma molto più interessante delle linee rette e degli archi ellittici della normale meccanica celeste. La stella verde dominava il cielo, anche se adesso la sua superficie era a trenta milioni di chilometri di distanza. Comunque, la Rum Runner aveva schermi di forza e scudi fisici molto più efficaci che non quelli della stessa Starplex: avrebbe potuto avvicinarsi parecchio. Sotto la gioiosa guida di Lunga Bottiglia, la nave si tuffò, rasentando l’immenso globo a soli centomila chilometri dalla fotosfera, mentre la draga sul bordo anteriore della nave risucchiava campioni di atmosfera stellare. «Di questa stella il colore è per me una vera perplessità» disse Lunga Bottiglia attraverso l’idrofono del serbatoio. Come quasi tutti i delfini, Lunga Bottiglia era in grado di riprodurre in modo approssimativo tanto le parole inglesi quanto quelle waldahudar (benché con una sintassi zoppicante: nella grammatica dei cetacei non esisteva il concetto di un ordine preciso delle parole nelle frasi). Il computer si limitava dunque a elaborare quelle parole per renderle intelligibili, e provvedeva a tradurre soltanto se un delfino cominciava a esprimersi in delfinese. Jag sbuffò. «Anch’io sono stupito. La temperatura della superficie è di 12 mila gradi. Quel fardint oggetto dovrebbe essere azzurro o bianco, non certo verde. E nemmeno l’analisi spettrale ha senso. Non ho mai visto una tale concentrazione di elementi pesanti in una stella.» «Dal passaggio nella scorciatoia danneggiata forse?» domandò Lunga Bottiglia, roteando nel serbatoio in modo che la nave ruotasse lentamente sul proprio asse. Anche con il supplemento di schermatura non era conveniente rivolgere alla stella sempre lo stesso lato. Jag sbuffò ancora. «Penso che sia possibile. Gran parte della cromosfera e della corona le sono state probabilmente strappate durante il passaggio. Gli orli della scorciatoia potrebbero essersi modellati sulla forma della fotosfera, raschiando via i gas rarefatti sovrastanti. Eppure, gli esperimenti condotti finora non hanno mai messo in luce alcun cambiamento strutturale negli oggetti passati attraverso una scorciatoia. Anche se, prima d’ora, non era mai passato niente di così grande.» Gli schermi della Rum Runner erano pieni fino all’orlo di fiammeggiante luce verde. I veri oblò erano stati tutti oscurati. «Fai un altro giro intorno all’equatore» disse Jag «e poi un’orbita polare. C’è la possibilità che la struttura della stella non sia uniforme. Prima di rompermi la testa su queste righe di assorbimento voglio essere sicuro che lo spettro sia uguale dappertutto.» Ci vollero quasi cinque ore a un millesimo della velocità della luce, per completare il tragitto di cinque milioni di chilometri intorno all’equatore, e altri cinque per orbitare da polo a polo. Per tutto il tragitto Lunga Bottiglia mantenne il moto di avvitamento della Rum Runner. Jag aveva gli occhi incollati ai suoi sensori, e fissava le nere linee di assorbimento verticali. Continuava a borbottare tra sé “Limo nell’acqua, limo nell’acqua”, una frase dal significato oscuro. Jag non ebbe difficoltà a misurare la massa della stella sulla base dell’impronta che essa lasciava nell’iperspazio: era molto più grande di quel che si aspettava. Colore a parte, la superficie della stella era perfettamente convenzionale: consisteva di grani più chiari e più scuri, fittamente raggruppati, dovuti alle correnti di convezione nella fotosfera. C’erano perfino le macchie solari ma, diversamente da quelle osservate in altre stelle, erano tutte collegate a coppie e assomigliavano a manubri per il sollevamento pesi. Si trattava senza dubbio di una stella, ma contemporaneamente era dissimile da qualunque stella Jag avesse visto. Alla fine le orbite programmate furono completate. «A casa pronto a tornare?» domandò Lunga Bottiglia. Jag alzò tutte e quattro le braccia in un gesto di resa. «Sì.» «Mistero risolto?» «No. Una stella come questa semplicemente non dovrebbe esistere.» Per tutto il viaggio di ritorno della Rum Runner verso la Starplex, Jag continuò a borbottare dati tra sé. Keith giaceva sul letto accanto a sua moglie e non riusciva a dormire. Osservò la sagoma di Rissa nel buio e notò il sottile lenzuolo che la copriva salire e scendere a tempo con il suo respiro. “Merita di meglio” pensò. Espirò a fondo, cercando di allontanare da sé insieme con il fiato anche le preoccupazioni, e richiamò alla mente immagini di momenti più felici. Rissa aveva occhi neri che diventavano come falci di luna rivolte all’insù quando sorrideva. Aveva una bocca piccola, ma con labbra piene… alte la metà di quanto erano larghe. Sua madre era italiana, suo padre spagnolo. Da lui aveva ereditato i lucenti capelli neri e gli occhi intensi. Nei suoi 46 anni di vita, Keith Lansing non aveva mai incontrato nessuna donna che a lume di candela fosse più bella di Rissa. Quando si erano incontrati, nel 2070, lui aveva 22 anni, lei 20 e un corpo pieno di curve deliziose. Con l’età il suo corpo si era modificato seguendo il corso della natura; era ancora in forma, ma le proporzioni erano cambiate. A quell’epoca Keith non si sarebbe immaginato di poter trovare attraente una donna di 44 anni, ma con sua infinita sorpresa i suoi gusti erano cambiati con il trascorrere degli anni, e benché due decenni di matrimonio avessero indubbiamente attenuato le sue reazioni alla presenza di lei, quando gli capitava di vedere Rissa in una situazione insolita… con un vestito nuovo o mentre si allungava per raggiungere uno scaffale in alto, o con i capelli acconciati in una nuova pettinatura… ancora si sentiva mancare il respiro. Invece… Invece lui aveva dovuto pagare al tempo uno scotto, lo sapeva. I capelli se ne stavano andando. Sì, esistevano delle “cure” (che vergogna suggerire che una cosa naturale come la calvizie maschile dovesse essere curata!), ma ricorrervi gli sembrava inutile e sciocco. E, a parte questo, tutti si aspettavano che uno scienziato di mezza età fosse calvo: era scritto da qualche parte nel manuale della vita. Il padre di Keith aveva mantenuto una folta chioma di capelli neri fino a quando era stato ucciso, all’età di 55 anni. Che avesse portato un parrucchino? Comunque, una scelta simile sarebbe stata impensabile per Keith. Gli venne in mente Mandy Lee, una stellina degli olovideo di cui si era infatuato a dodici anni. Per lui, a quell’epoca, il massimo dell’eccitazione erano due tette formato gigante, probabilmente perché nessuna delle ragazze della sua classe ne era ancora dotata: erano un simbolo del mondo alieno e proibito della sessualità adulta. Ebbene, Mandy (soprannominata “sistema stellare binario” in qualche articolo della Guida Ov) era famosa proprio per il suo fisico. Keith aveva però perduto tutto il suo interesse quando aveva scoperto che le sue mammelle erano finte: non riusciva più a guardarla senza pensare agli impianti che si celavano sotto l’elastica pelle d’alabastro, e anche alle cicatrici (benché sapesse che i bisturi laser anabolizzanti non lasciavano alcuna traccia del loro passaggio). Comunque, lui non si sarebbe mai messo niente di finto sulla testa. Non avrebbe mai permesso che la gente lo guardasse e pensasse, “ehi, in realtà quel tizio è calvo, sapete”… Dunque eccoli lì, Rissa Cervantes e Keith Lansing: ancora innamorati, anche se la passione della gioventù era stata sostituita da un affetto più sereno, più soddisfacente. Eppure… Eppure, maledizione, aveva appena 46 anni! Stava invecchiando, era sempre più calvo e brizzolato e non era mai stato con nessun’altra donna, a parte quei tre goffi incontri (così pochi!) al liceo e all’università. Tre più Rissa: totale, quattro. In media, meno di uno ogni dieci anni. Accidenti, pensò, perfino un waldahud può contare le mie donne sulle dita di una mano. Keith sapeva che non avrebbe dovuto avere quei pensieri, sapeva che lui e Rissa possedevano qualcosa che la maggior parte della gente non raggiunge: una storia d’amore che cresce e si evolve col passare degli anni, una relazione solida, sicura, calda. Eppure… Eppure c’era Lianne Karendaughter. Come Mandy Lee, simbolo di bellezza della sua gioventù, Lianne aveva delicati lineamenti asiatici; c’era qualcosa nelle donne orientali che aveva sempre attratto Keith. E poi, anche se non sapeva quanti anni avesse Lianne esattamente, senza dubbio era più giovane di Rissa. Ovviamente, in qualità di direttore della nave Keith avrebbe potuto accedere con facilità ai dati personali di Lianne, ma non aveva il coraggio di farlo. Per l’amor di Dio… c’era la possibilità che avesse appena trent’anni. Lianne era salita a bordo l’ultima volta che erano passati da Tau Ceti e adesso, come responsabile delle operazioni interne, trascorreva spesso parecchie ore consecutive con Keith, sul ponte. Eppure, Keith si sorprendeva sempre a rimpiangere che quel tempo avesse una durata limitata. Ancora non aveva fatto niente di stupido. Al contrario, riteneva di avere tutto sotto controllo anche se, introspettivo com’era, non era cieco a ciò che gli succedeva. Era la crisi della mezza età, il timore di avere perso la propria virilità. Cosa c’era di meglio, per allontanare quel timore, che portarsi a letto una donna bella e giovane? Fantasie oziose, certo. Certo. Si girò su un fianco dando le spalle a Rissa e si rannicchiò in posizione semifetale. Non desiderava ferire Rissa, ma se lei non ne avesse saputo niente… “Maledizione, non essere stupido!” Lo scoprirebbe di sicuro. E dopo come avrebbe potuto guardarla ancora in faccia? E Saul, il loro ragazzo? Come avrebbe potuto guardare lui? Aveva visto suo figlio irradiare ammirazione per suo padre, lo aveva visto urlargli contro infuriato, ma mai guardarlo con disprezzo. Se soltanto fosse riuscito a dormire un po’. Se soltanto avesse potuto smettere di tormentarsi. Restò immobile con gli occhi spalancati, a fissare il buio. Quando la Rum Runner fu attraccata, Lunga Bottiglia andò a rifocillarsi e Jag tornò sul ponte. Ora il waldahud si teneva eretto con l’aiuto di un bastone da passeggio riccamente intagliato, sempre meglio che procedere a quattro zampe. Keith, Rissa, Thor e Lianne avevano potuto dormire quella notte e Rombo, be’, gli ib non dormono, un fatto che fa sembrare doppiamente ingiusta la durata delle loro vite. In genere Jag faceva rapporto mettendosi di fronte alle sei postazioni, ma questa volta arrancò fino alla galleria é si lasciò cadere sulla sedia centrale costringendo gli altri a ruotare le postazioni per guardarlo. Keith fissò il waldahud, in attesa. «Ebbene?» Jag riordinò i pensieri, poi cominciò ad abbaiare. «Come alcuni di voi sanno, le stelle si suddividono in tre ampie categorie di età. Le stelle di prima generazione sono le più antiche dell’universo, e sono composte quasi completamente di idrogeno ed elio, i due elementi originari. Meno dello 0,02 per cento della loro materia è costituita da atomi più pesanti, prodotti ovviamente all’interno della stella dai suoi stessi processi di fusione nucleare. Quando queste stelle diventano nove o supernove, le nubi di polvere interstellare vengono arricchite da questi elementi più pesanti. Poiché le stelle di seconda generazione si condensano proprio da queste nubi di polvere, circa l’1 per cento o poco più della loro massa è costituita da metalli (“metalli”, in questo contesto, significa tutti gli elementi più pesanti dell’elio). Le stelle di terza generazione sono ancora più recenti: i soli dei tre mondi del Commonwealth sono tutti della terza generazione, così come tutte le stelle che nascono oggi, anche se ovviamente ci sono ancora in giro moltissime stelle di prima e seconda generazione. Le stelle di terza contengono circa il due per cento di metalli.» Jag fece una pausa, e scrutò i presenti uno per uno. «Ebbene, questa stella» indicò con una delle braccia centrali il globo verde sulla sfera olografica «ha circa l’8 per cento di metalli, quattro volte la quantità presente in una normale stella di terza generazione. Quell’oggetto contiene così tanto ferro che varrebbe la pena di andare a estrarlo.» «Qualche ipotesi sul colore verde?» domandò Keith. «Non è proprio verde, ovviamente. Non più di quanto una stella rossa sia davvero rossa. Quasi tutte le stelle sono bianche, con appena una traccia di colore.» Con gli arti mediani fece un gesto come per abbracciare l’intero panorama stellato che li circondava. «D’abitudine Phantom colora le stelle sulla bolla olografica, assegnando loro colori basati sulle rispettive categorie di Hertzsprung-Russell. La stella là fuori ha appena un tocco di verde. La linea di assorbimento dominante, dovuta al suo contenuto di metalli, è più forte del calore di fondo, e questo indebolisce le emissioni nell’azzurro e nell’ultravioletto. Il risultato è che la maggior parte della luce stellare emessa si trova nella zona verde dello spettro.» La sua pelliccia si increspò. «Se non l’avessi vista con i miei quattro occhi, direi che una stella con un simile contenuto di metalli è impossibile nel nostro universo, considerata la sua età. Dev’essersi formata in condizioni locali decisamente improbabili…» «Perdona l’interruzione, buon Jag» intervenne Rombo «ma ho captato un impulso tachionico.» Keith fece ruotare la sedia e osservò la scorciatoia. «Dèi» esclamò Jag, alzandosi in piedi. «La maggior parte delle stelle appartengono a sistemi “multipli”!» «Non possiamo sopportare un altro passaggio ravvicinato» disse Lianne. «Saremo…» Ma la scorciatoia aveva già smesso di espandersi, dopo aver espulso un oggetto di piccole dimensioni. L’apertura si era allargata solo fino al diametro di 70 centimetri prima di collassare in un punto invisibile. «È un watson» annunciò Rombo. Una boa automatica di comunicazione. «Il suo radarfaro dice che viene dalla stazione Grand Central.» «Attiva la ripetizione» ordinò Keith. «È un messaggio in russo» precisò Rombo. «Phantom, traduci.» La voce del computer centrale riempì la stanza. “Valentina Ilianov. Provost. colonia di Nuova Pechino, per Keith Lansing, direttore della Starplex. Una stella nana rossa di classe M è uscita dalla scorciatoia di Tau Ceti. Fortunatamente è emersa in direzione opposta alla colonia. Finora non ha causato seri danni, anche se è stato molto difficile pilotare questo watson oltre la stella e fino al portale. Questo è il nostro terzo tentativo di raggiungervi. Siamo riusciti a prendere contatto con il centro di astrofisica di Rehbollo per chiedere consiglio, e abbiamo avuto l’incredibile notizia che anche dalla scorciatoia vicino a loro è sbucata una stella… una stella azzurra di classe B, per la precisione. Adesso stiamo prendendo contatto con tutte le altre scorciatoie attive per scoprire quanto sia estesa il fenomeno. Fine del messaggio.” Keith contemplò il ponte, immerso nella verde luce stellare. «Santo Dio» mormorò. 9 «Io dico che siamo stati aggrediti» annunciò Thorald Magnor, alzandosi dalla postazione del Timone e andando a sedersi nella galleria, poche sedie più a destra di Jag. «Finora, a quanto pare, siamo stati fortunati, ma inserire una stella in un sistema può distruggere ogni forma di vita che lo abiti.» Con le due braccia inferiori Jag fece il gesto waldahud che significa disaccordo. «La maggior parte delle scorciatoie si trova nello spazio interstellare» osservò. «Anche quella che chiamiamo “la scorciatoia di Tau Ceti” si trova in realtà a 37 miliardi di chilometri da quella stella, più di sei volte la distanza di Plutone dal Sole. Direi che in quindici casi su sedici, l’arrivo di una stella aggiuntiva non avrebbe che effetti minimi sui sistemi vicini e, poiché i mondi abitati sono scarsi e molto distanziati tra loro, le probabilità di provocare danni a breve termine su un pianeta dove esista la vita sono davvero limitate.» «Ma queste stelle non potrebbero essere bombe?» domandò Lianne. «Tu stesso hai detto che la stella verde è molto insolita. Non potrebbe essere sul punto di esplodere?» «Ho appena cominciato a studiarla» disse Jag «ma direi che la nuova arrivata ha davanti a sé almeno due miliardi di anni di vita. E le nane singole di classe M, come quella sbucata vicino a Tau Ceti, non vanno in nova.» «Ma non potrebbero sconvolgere le nubi di Oort dei sistemi più vicini» suggerì Rissa «inviando piogge di comete sui pianeti interni? Ricordo una vecchia teoria secondo la quale una nana bruna battezzata Nemesis, mi sembra, sarebbe passata vicino al Sole scatenando un diluvio di comete alla fine del Cretaceo.» «Alla fine però si scoprì che Nemesis non era mai esistita» disse Jag. «Anche in caso contrario, però, oggi ciascuna razza del Commonwealth possiede una tecnologia sufficiente a fronteggiare un numero ragionevole di corpi cometari… i quali, dopo tutto, impiegherebbero decenni se non secoli per giungere nelle zone interne del sistema. Non si tratta di una preoccupazione immediata.» «Perché, allora?» domandò Thor. «Perché le stelle se ne vanno a spasso? E non dovremmo cercare di fermarle?» «Fermarle?» Keith scoppiò a ridere. «E come?» «Distruggendo le scorciatoie» replicò Thor, con la massima serietà. Keith restò a bocca aperta. «Non sono sicuro che potremmo distruggerle. Jag?» La pelliccia del waldahud ondeggiò pensosamente per qualche secondo. Quando i latrati arrivarono, erano sommessi. «Sì, in teoria un modo c’è.» Alzò la testa, ma evitò lo sguardo di Keith con entrambe le coppie di occhi. «Ai tempi in cui il primo contatto con gli umani non sembrava promettere bene, i nostri astrofisici ebbero l’incarico di scoprire un sistema per chiudere la scorciatoia di Tau Ceti, in caso di necessità.» «Questa è una vergogna!» esclamò Lianne. Jag guardò l’umana. «No, è buona politica di governo. Si deve essere pronti a ogni possibile sviluppo.» «Ma distruggere la nostra scorciatoia!» disse Lianne, con i lineamenti alterati dalla rabbia. «Non l’abbiamo fatto» replicò Jag. «L’avete preso in considerazione, però! Se non volevate che noi avessimo accesso a Rehbollo dovevate distruggere la vostra scorciatoia, non la nostra.» Keith si voltò verso la giovane donna. «Lianne» disse con dolcezza. Quando lei si girò, formò silenziosamente con le labbra la parola “calmati”. Poi si rivolse a Jag. «E avete trovato un modo per farlo? Per distruggere una scorciatoia?» Jag sollevò le spalle superiori in segno di assenso. «Galf Kandaro em-Weel, mio sire, ha guidato il progetto. Le scorciatoie sono costrutti iperspaziali che estroflettono un punto di collegamento con lo spazio normale. Nell’iperspazio esiste un sistema di coordinate assoluto, è per questo che in esso non si applicano le restrizioni einsteiniane alla velocità: non è un mezzo relativistico. Lo spazio normale, invece, è relativistico e l’uscita, ovvero ciò che chiamiamo portale della scorciatoia, dev’essere ancorato “relativamente” a qualcosa che si trova nello spazio normale. Se si riesce a disorientare il punto di ancoraggio, cosicché nulla possa estroflettersi attraverso di esso dall’iperspazio, il punto dovrebbe evaporare in uno sbuffo di radiazione Cerenkov.» «E come si fa a disorientare il punto di ancoraggio?» domandò Keith, in un tono che tradiva scetticismo. «La chiave è il fatto che la scorciatoia è davvero un punto, fino a quando non si allarga per permettere a qualcosa di attraversarlo. Si potrebbe usare una schiera di generatori di gravità artificiale, disposti sfericamente intorno alla scorciatoia dormiente, per compensare la locale curvatura dello spaziotempo. Anche se quasi tutte le scorciatoie si trovano nello spazio interstellare, giacciono pur sempre nell’infossamento generato dalla galassia. Se si rimuove quell’infossamento, l’ancora non ha più niente cui agganciarsi e… puf!… sparisce. Dal momento che la scorciatoia dormiente è piccolissima, basterebbe una sfera di un paio di metri, purché di potenza adeguata.» «La Starplex potrebbe fornire questa potenza?» chiese Rombo. «Sì, senza difficoltà.» «È incredibile» commentò Keith. «In realtà no» disse Jag. «È la gravità la forza che piega lo spaziotempo: la gravità artificiale non fa altro che modificare queste pieghe. Nel mio sistema natale usavamo boe gravitazionali per appiattire localmente lo spaziotempo, in situazioni di emergenza, allo scopo di poter usare l’iperpropulsione anche in vicinanza del sole.» «Come mai niente di tutto ciò è mai comparso sulla rete di astrofisica del Commonwealth?» domandò Lianne con freddezza. «Forse perché nessuno l’ha mai chiesto» suggerì Jag in tono dimesso. «Perché allora non hai suggerito di appiattire lo spaziotempo per usare l’iperpropulsione, quando è apparsa la stella verde?» chiese Keith. «Non lo si può fare da soli: ci deve essere una fonte di energia esterna. Credimi, abbiamo tentato di ideare tecniche che rendessero possibile a un’astronave di liberarsi da sé, ma nessuna ha funzionato. Per usare una metafora umana, sarebbe come cercare di sollevare se stessi tirandosi su per le stringhe delle scarpe: non è possibile.» «Ma se noi lo facessimo qui e adesso, cioè se facessimo evaporare la scorciatoia, non potremmo più tornare a casa» osservò Keith. «È vero» ammise Jag. «Però potremmo programmare un numero sufficiente di boe antigravità perché convergano sulla scorciatoia dopo il nostro passaggio.» «Ma a quanto pare le stelle stanno sbucando da un sacco di scorciatoie» ricordò Rissa. «E se faremo evaporare quelle di Tau Ceti, Rehbollo e Flatlandia distruggeremo il Commonwealth, separando ogni mondo dagli altri.» «Sì, lo faremmo per proteggere i singoli mondi del Commonwealth» disse Thor. «Insomma» intervenne Keith «qui nessuno desidera la fine del Commonwealth.» «C’è un’altra possibilità» disse Thor. «Ah sì?» «Trasferire le razze del Commonwealth in sistemi di stelle adiacenti, lontane da qualunque scorciatoia. Potremmo localizzare tre o quattro sistemi abbastanza vicini, con il giusto tipo di pianeti, terraformarli per renderli abitabili e spostarci tutti lì. Questo ci consentirebbe di avere una comunità interstellare che mantiene i contatti con la normale iperpropulsione.» Keith aveva gli occhi sbarrati. «Ma ti rendi conto? Si parla di spostare trenta “miliardi” di persone!» «Prendere o lasciare» disse Thor. «Gli ib non lasceranno Flatlandia» affermò Rombo, senza i soliti giri di parole. «È una follia» disse Keith. «Non possiamo cancellare le scorciatoie.» «Certo che possiamo, se i nostri mondi sono minacciati» disse Thor. «Anzi, dobbiamo.» «Non ci sono prove che le stelle in arrivo siano una minaccia» disse Keith. «Non riesco a credere che creature tanto progredite da poter spostare le stelle siano aggressive.» «Forse non lo sono» suggerì Thor. «Non più degli operai che distruggono i formicai. Noi siamo probabilmente capitati per sbaglio sulla loro strada.» Finché non avesse avuto altre informazioni, non c’era nulla che Keith potesse fare con le stelle in arrivo. Così, alle dodici in punto, lui e Rissa smontarono dal servizio e andarono in cerca di un posto dove mangiare. C’erano otto ristoranti a bordo della Starplex. La scelta del termine non era casuale. Gli umani, infatti, preferivano riferirsi alle varie strutture della Starplex in termini navali: sale-mensa, infermerie e cabine, al posto di ristoranti, ospedali e appartamenti. Tra le quattro specie del Commonwealth, però, soltanto gli umani e i waldahudin avevano tradizioni militari, mentre le altre due razze trovavano quel fatto già abbastanza inquietante senza bisogno che fosse sottolineato anche dalla terminologia di bordo. Ogni ristorante era unico, sia come ambiente sia come cucina. I progettisti della Starplex si erano dati un gran daffare per far sì che la vita di bordo non fosse monotona. Keith e Rissa decisero di pranzare al Kog Tahn, il ristorante waldahud sul ponte 26. Oltre le false vetrate del locale si vedevano ologrammi della superficie di Rehbollo: immense pianure alluvionali di fango rosso-porpora, segnate da fiumi e ruscelli. Dappertutto rotolavano ciuffi di stargin,l’equivalente rehbolliano degli alberi: sembravano covoni di erba mobile azzurra, alti tre o quattro metri. La superficie fangosa non offriva alcun solido appiglio, ma era ricca di minerali disciolti e di sostanze organiche in decomposizione. Ogni starg aveva migliaia di germogli aggrovigliati che servivano come radici ma anche, quando si districavano, come organi per la fotosintesi, a seconda che finissero a contatto col terreno o con l’aria. Le gigantesche piante vagavano nelle pianure, rotolando senza fine o galleggiando sui fiumi, finché non trovavano limo fertile. A quel punto si ancoravano, sprofondando fino a farsi avvolgere dalla melma per un terzo della loro altezza. Il cielo olografico era di un verde grigiastro, e la stella che lo dominava era grande e rossa. Secondo Keith quel contrappunto di colori dava un senso di desolazione, ma non poteva negare che la cucina fosse eccellente. I waldahudin erano principalmente vegetariani e le loro piante preferite erano succulente e gradevoli al palato. A Keith capitava almeno tre o quattro volte al mese, di avere voglia di germogli di starg. Com’è ovvio, gli otto ristoranti erano aperti a chiunque, il che significava che disponevano di una serie di piatti in grado di soddisfare le richieste metaboliche di ciascuna razza. Keith ordinò un panino al formaggio grigliato e un’insalata di starg accompagnata da un paio di cetriolini sottaceto. I waldahudin, le cui femmine (come i mammiferi terrestri) secernevano un liquido nutritivo per i propri piccoli, trovavano disgustoso che gli umani bevessero il latte di altri animali, ma facevano finta di non sapere da dove veniva il formaggio. Rissa era seduta di fronte a Keith. In realtà il tavolino aveva la consueta forma waldahud, cioè quella di un fagiolo, ed era fatto di un lucido materiale vegetale che non era legno, ma che aveva ugualmente una serie di eleganti venature chiare e scure. Rissa era seduta di fronte alla parte concava del tavolino. Secondo le consuetudini waldahud, quello era il posto d’onore riservato alle femmine: sul loro mondo, la dama sedeva sempre in quel posto, mentre il suo entourage di maschi si schierava sulla parte convessa del fagiolo. Rissa aveva gusti più arditi di Keith. Aveva ordinato dei gaz torad,o mitili sanguigni, molluschi bivalvi che vivevano sul fondo melmoso dei molti laghi di Rehbollo. Secondo Keith, quel loro colore rosso porpora era disgustoso, e anche molti waldahudin erano d’accordo, dal momento che il loro sangue aveva lo stesso punto di rosso. Rissa però era diventata abilissima nel trucco di portare la conchiglia alla bocca, aprirla e risucchiare il mollusco senza permettere che la morbida polpa incontrasse il suo sguardo o quello dei suoi commensali. Keith e Rissa mangiarono in silenzio e lui si chiese se fosse un fatto positivo o negativo. Da decenni avevano superato l’esigenza delle chiacchiere oziose. Certo, se c’era qualcosa che tormentava l’uno o l’altra ne avrebbero parlato a lungo, ma per il resto apprezzavano la reciproca compagnia senza bisogno di parole. Così almeno la pensava Keith, con la speranza che Rissa fosse d’accordo. Keith usò le sue katook (posate waldahud, simili a pinzette dalle punte a becco) per portarsi alla bocca un ciuffo di starg,proprio nel momento in cui un pannello di comunicazione spuntò dal tavolino mostrando la faccia di Hed, lo specialista waldahud in comunicazioni aliene. «Rissa» abbaiò con una voce che, chissà come, aveva un accento di Brooklyn più marcato di quello di Jag (l’angolazione del pannello non gli permetteva di vedere Keith). «Ho analizzato il rumore che abbiamo individuato vicino alla banda radio dei 21 centimetri. Se ti dico a voce quello che ho scoperto non ci crederai. Vieni subito nel mio laboratorio.» Keith appoggiò sul tavolo la posata e guardò sua moglie. «Vengo anch’io» disse, e si alzò. Mentre attraversavano il locale si rese conto che quelle erano le uniche parole che le avesse rivolto durante il pasto. Keith e Rissa salirono sull’ascensore. Come sempre, un monitor sulla parete della cabina mostrava il numero del ponte che stavano attraversando, 26, collocato su una croce dalle lunghe braccia. A mano a mano che loro salivano e il numero del ponte diminuiva, le braccia della croce diventavano sempre più corte. Quando raggiunsero il ponte 1 le braccia si erano quasi completamente ritratte. I due umani scesero ed entrarono nella sala di ascolto radioastronomico. Qui un piccolo waldahud con la pelle molto più rossa di quella di Jag era chino su una scrivania. «Rissa, la tua presenza è benvenuta.» La consueta formula di deferenza per le femmine. Poi con un cenno del capo: «Lansing.» La ruvida indifferenza riservata ai maschi, anche a quelli in posizione dominante. «Hek» replicò Keith, con un cenno di saluto. Il waldahud guardò Rissa. «Sapevi del rumore radio che abbiamo registrato?» I suoi latrati echeggiavano nella piccola stanza. Rissa annuì. «Dunque, la mia analisi iniziale non mostrava alcuna ripetizione.» Una coppia di occhi deviò lo sguardo su Keith. «Quando un segnale è deliberato, di solito mostra uno schema che viene ripetuto dopo un certo tempo, dell’ordine dei minuti o delle ore. Qui non c’è niente del genere. Nessuno schema ripetuto. Ma quando ho iniziato ad analizzare il rumore più da vicino, sono spuntati schemi della durata di un secondo o anche meno. Finora ho catalogato 6.017 sequenze. Alcune sono state ripetute soltanto un paio di volte, altre molto più spesso. Certe fino a diecimila volte.» «Dio mio» esclamò Rissa. «Cosa significa?» chiese Keith. Lei si girò a guardarlo. «Significa che in quel rumore può esserci un messaggio… una comunicazione radio.» Hek sollevò le spalle superiori. «Esatto. Ogni schema potrebbe essere una diversa parola. Quelli che si ripetono più spesso potrebbero corrispondere a parole comuni, forse pronomi o preposizioni.» «E da dove vengono le trasmissioni?» domandò Keith. «Da un punto che potrebbe trovarsi nel campo di materia oscura o appena al di là» rispose Hek. «Sei sicuro che si tratti di segnali intelligenti?» domandò Keith, col cuore che martellava. Questa volta furono le spalle inferiori a muoversi. «No, non ne sono sicuro. Per prima cosa, i segnali sono debolissimi. A grande distanza non sarebbero distinguibili dal rumore di fondo. Ma se ammettiamo che siano parole, come credo, allora si nota una traccia di sintassi: nessuna parola è mai ripetuta due volte di seguito, certune appaiono soltanto all’inizio o alla fine di una trasmissione, altre sono presenti soltanto dopo parole precise. Un’ipotesi è che le prime siano aggettivi o avverbi e le seconde nomi o verbi modificati dalle precedenti, o viceversa.» Hek fece una pausa. «Non ho analizzato tutti i segnali, è ovvio, anche se li conservo per uno studio successivo. C’è un bombardamento costante su oltre duecento frequenze vicinissime tra loro.» Fece una pausa, per lasciare che le informazioni fossero digerite. «Secondo me è molto probabile che ci sia una flotta di astronavi nascosta tra la materia oscura o appena al di là.» Keith stava per parlare quando l’intercom sulla scrivania di Hek emise un bip. “Keith, parla Lianne.” “Aperto. Che c’è?” “Credo che vorrai essere presente. È appena arrivato un watson che porta notizie sul ‘boomerang’ tornato dalla scorciatoia di Rehbollo 376A.” “Arrivo. Avverti anche Jag, per favore. Chiudo.” Guardò Hek. «Ottimo lavoro. Cerca di restringere ulteriormente la fonte dei segnali. Dirò a Thor di condurre la Starplex in una rotta circolare intorno al campo di materia oscura, alla ricerca di emissioni tachioniche, radiazioni, emissioni di propulsori o qualunque altro segno di astronavi aliene.» Keith arrivò sul ponte a grandi passi, seguito da Rissa. Entrambi si recarono alla propria postazione. «Ripetizione del messaggio watson» ordinò Keith. Lianne premette un pulsante, e un video-messaggio apparve in una cornice ritagliata nella bolla olografica. L’immagine era quella di un maschio waldahud con la pelle grigio-argento. Phantom sostituì ai latrati le parole inglesi nell’impianto auricolare di Keith, benché esse non corrispondessero ai movimenti della bocca del waldahud. “Il nostro saluto alla Starplex.” Il testo che compariva nella parte bassa dello schermo identificava il waldahud come Kayd Pelendo em-Hooth, del centro rehbolliano di astrofisica. “Il ‘boomerang’ inviato alla scorciatoia designata come Rehbollo 376A ha fatto ritorno. Ritengo che resterete dove siete, a indagare sulla scorciatoia apparsa nella rete senza spiegazioni, tuttavia è nostra opinione che a Jag e agli altri potrebbero interessare le registrazioni fatte dal ‘boomerang’ prima di rientrare. Le abbiamo collegate a questo messaggio. Ritengo che le troverete… interessanti.” «Okay, Rombo» ordinò Keith. «Usa i dati del “boomerang” per la bolla olografica intorno a noi. Facci vedere che cos’ha visto.» «Sarà un piacere» disse Rombo. «Sto scaricando i dati, ci vorranno due minuti e quaranta secondi per preparare la bolla.» Lianne si sfregò le mani. «Le poche volte che piove è un diluvio» disse, girandosi verso Keith e sogghignando. «Un altro settore di spazio aperto per l’esplorazione!» Keith annuì. «È un fatto che non finisce mai di sorprendermi.» Si alzò e fece qualche passo avanti e indietro, in attesa che l’ologramma fosse pronto. «Sai» disse in tono assente «il mio bis-bisnonno teneva un diario. Appena prima di morire, annotò tutti i grandi progressi cui aveva assistito nella sua vita: la radio, l’automobile, gli aerei a motore, il volo spaziale, i computer, la scoperta del DNA e così via per pagine e pagine.» Lianne sembrava pendere dalle sue labbra, anche se Keith sapeva benissimo che quel discorso sarebbe stato noioso per chiunque. All’inferno: il rango ha i suoi privilegi e il capo ha il diritto di divagare. «Quando lessi quelle pagine da ragazzo, pensai che non avrei avuto nulla di simile da scrivere quando la mia vita fosse giunta al termine. Da allora abbiamo inventato l’iperpropulsione e l’intelligenza artificiale, abbiamo scoperto la rete delle scorciatoie, la vita extraterrestre, abbiamo imparato il linguaggio dei delfini e finalmente ho capito che…» «Scusami» disse Rombo, facendo lampeggiare le luci del suo manto negli schemi stroboscopici che la sua specie usava per segnalare un’interruzione. «L’ologramma è pronto.» «Procedi» disse Keith. Il ponte si oscurò, mentre l’immagine dello spazio che in quel momento circondava la Starplex si spegneva, lasciando il ponte immerso in un buio indefinito. Poi una nuova immagine iniziò a formarsi da sinistra a destra, costruendosi linea dopo linea, spazzando il ponte, finché non tornò l’impressione di trovarsi nello spazio aperto… lo spazio del nuovo settore diventato accessibile alle razze del Commonwealth. Thor si lasciò sfuggire un fischio lungo e modulato. Jag fece ticchettare le placche dentali per l’incredulità. Ciò che dominava la scena, in lento allontanamento, era un’altra lucente stella verde, lontana forse dieci milioni di chilometri dal portale della scorciatoia. «Mi sembrava di averti sentito dire che la nostra stella verde era una rarità» disse Keith a Jag. «Questo è l’ultimo dei problemi» intervenne Thor. Tolse i piedi dalla consolle e si girò verso Keith. Il nostro “boomerang” ha attivato quella scorciatoia soltanto quando l’ha attraversata. Keith lo guardò senza capire. «E queste immagini sono state prese “prima” del passaggio.» Jag scattò in piedi. «Ka-darg! Questo significa che…» «Significa» disse Keith, che finalmente aveva capito «che le stelle possono emergere anche da scorciatoie dormienti. Dio santo, potrebbero sbucare da tutti i quattro miliardi di portali che ci sono nella Via Lattea!» 10 Quella sera Keith cenò da solo. Gli piaceva cucinare, ma preferiva farlo per qualcun altro… e Rissa avrebbe fatto tardi. Lei e Carro Merci avevano finalmente scoperto qualcosa di decisivo nei loro studi sul limite di Hayflick, o almeno così sembrava. Avevano però qualche difficoltà a riprodurre i risultati ottenuti, così lei si era fatta mandare qualche panino al laboratorio. A volte Keith si chiedeva come avesse fatto a ottenere l’incarico di boss dell’intera Starplex. Certo, era una cosa sensata: si riteneva che un sociologo fosse la scelta migliore per trattare sia con la società in miniatura a bordo della nave sia con qualunque nuova civiltà che potessero incontrare. Adesso, però, malgrado tutto ciò che era successo, lui aveva ben poco da fare, a parte le faccende amministrative. Jag continuava a studiare la materia oscura e a tentare di trarre un senso dall’invasione di stelle; Hek tentava di decodificare i potenziali segnali radio alieni; Rissa era al lavoro sul progetto di prolungamento della vita. E lui? Keith continuava a sognare che spuntasse qualche mulino a vento, qualcosa d’importante da fare. Aveva deciso di cenare in un ristorante ib. Non per l’atmosfera, ovviamente. Con la loro superficie liscia quasi quanto una palla da biliardo, i paesaggi di Flatlandia raffigurati nelle vetrate olografiche del ristorante erano quasi meno interessanti di quelli rehbolliani. Dal punto di vista geografico la Terra era senza dubbio il più bello dei tre mondi. Per giunta il cibo ibese era basato su amminoacidi destrorsi, del tutto indigeribili per le altre tre razze. Quel ristorante, però, offriva un’ampia scelta di portate umane, compreso un pollo fritto che coincideva esattamente con i desideri di Keith in quel momento. Il ristorante era affollato in modo imprevisto. I quattro locali situati nei moduli abitativi inferiori erano ancora inabitabili. Ma il rango garantiva un altro privilegio: quello di ottenere sempre un tavolo senza attendere. Un argenteo e flessuoso robot guidò Keith in una saletta sul retro, dominata da una grande pianta gestalt con foglie arancioni ottagonali che si agitavano senza sosta. Keith fece la sua ordinazione al robot, poi si rivolse al visore del tavolino per chiedere l’ultimo numero del “New Yorker”. Il cameriere tornò con un bicchiere di vino bianco, poi si allontanò sulle sue ruote. Keith stava iniziando a leggere il primo racconto della rivista, quando… Bip. “Karendaughter per Lansing.” “Aperto. Sì, Lianne?” “Ho completato gli studi tecnici sui ponti inferiori irradiati. Possiamo incontrarci per il rapporto?” Keith inghiottì la saliva che gli si era formata in bocca. Su quell’argomento c’erano da prendere decisioni urgenti: si doveva risolvere al più presto il problema del sovraffollamento. Ma dove poteva incontrare Lianne? Adesso sul ponte c’era il turno gamma, non era il caso di disturbarli. Il posto più ovvio sarebbe stato l’ufficio di Keith, però… però… poteva fidarsi di se stesso al punto di restare da solo con lei? Che idiozia. “Sono al Drive-Through, sto mangiando. Puoi raggiungermi qui?” “Ma certo, sei di strada. Chiudo.” Keith bevve un sorso di vino. Forse aveva fatto un errore. Forse qualcuno avrebbe frainteso e avrebbe raccontato a Rissa che lui aveva incontrato Lianne in un séparé. Forse… Lianne arrivò in quel momento, scortata da un robot. Si sedette di fronte a lui e gli sorrise. Accidenti se era arrivata in fretta… quasi come se avesse saputo dove si trovava ancor prima di chiamare, quasi come se avesse progettato di incastrarlo da solo a cena. Keith scosse la testa. Niente fantasie. «Ciao, Lianne» disse. «Hai un rapporto per me?» «Esatto.» Aveva addosso una professionale tuta celeste, di tessuto increspato. Sulla testa, però, a coronare i lucenti capelli biondo platino, indossava una copia intelligente di un vecchio cappello da ferroviere. Keith gliel’aveva già visto addosso altre volte e l’aveva giudicato stravagante, alla moda e sexy. «Ci sono diverse tecniche per ripulire un ambiente dalle radiazioni ma tutte richiedono troppo tempo e noi…» Arrivò il cameriere con la cena di Keith. «Pollo fritto» commentò Lianne con un sorriso. «Io lo faccio con una ricetta tutta mia. Potrei preparartelo una volta o l’altra, se ti fa piacere.» Keith allungò una mano verso il vino, pensando che fosse la risposta migliore, poi prese il tovagliolo e fece cadere la forchetta sul pavimento gommato. Si chinò per recuperarla e vide le ben tornite gambe di Lianne sotto il tavolo. «Ehm, ti ringrazio» disse, raddrizzandosi. «Sarà un piacere» aggiunse, indicando il piatto fumante di fronte a lui. «Ne vuoi un po’?» «Oh, no» rispose lei, battendosi una mano sulla pancia piatta e provocando, con lo stesso gesto una tensione della tuta all’altezza del petto. «Più tardi prenderò un’insalata. Devo stare attenta alla linea.» Non ne hai bisogno, si disse Keith. Sarei felice di pensarci io al posto tuo. «Cosa mi dici delle radiazioni?» Lei annuì. «Giusto. Dunque, come ho detto, possiamo eliminarle. Ma non in fretta, e non senza proibire l’accesso ai ponti per parecchie settimane.» «Settimane!» esclamò Keith. «Non possiamo permettercelo.» «Appunto. Il che porta alla soluzione che suggerisco io.» Keith attese che continuasse. «Quale?» «La Starplex 2.» Keith aggrottò le sopracciglia. La Starplex era stata costruita nei cantieri orbitali di Rehbollo e la sua gemella… che attualmente portava lo scontato nome di Starplex 2, anche se il suo nome definitivo sarebbe stato di sicuro ben diverso… era in costruzione da quasi un anno. Il cantiere si trovava a Flatlandia, perché ovviamente i due primi contratti non potevano andare allo stesso pianeta. «Che cosa c’entra?» «Non è ancora pronta per il lancio, altrimenti ne avrei parlato al suo direttore. Però sarà costruita sullo stesso progetto della Starplex 1 e cinque dei suoi otto moduli abitativi sono già pronti, secondo l’ultimo rapporto che ho ricevuto. Potremmo raggiungere i cantieri di Flatlandia attraverso la scorciatoia, lasciare lì i nostri quattro moduli abitativi inferiori e rimpiazzarli con quelli già pronti per la Starplex 2. Lì i nostri moduli potranno essere decontaminati in tutta tranquillità. D’altra parte, il disco centrale della Starplex 2 non sarà pronto prima di cinque mesi, e i quattro generatori di iperpropulsione devono subire test intensivi, prima che il toroide ingegneria possa essere costruito intorno a loro. Questo significa che ci sarebbe un sacco di tempo per la decontaminazione. E al momento giusto i nostri quattro moduli potrebbero essere incorporati nella nuova nave. È chiaro che dovrebbero essere decontaminate anche tutte le attrezzature e l’equipaggiamento individuale che si trovano nei quattro livelli inferiori, ma se non altro avremmo subito abitazioni e laboratori per tutti.» Keith annuì, ammirato. «Ottima idea. Quanto tempo ci vorrebbe?» «Secondo i manuali, per scollegare e ricollegare le griglie di energia dei moduli abitativi ci vogliono tre giorni, ma ho escogitato un metodo alternativo che non obbliga a togliere la corrente ai giunti d’accoppiamento. Potrei farlo in quindici ore, se non avessimo bisogno delle tute antiradiazioni nei moduli inferiori. Anche così, però, dovrebbero bastare diciotto ore.» «Eccellente. E per quanto riguarda la parte inferiore dello stelo e il disco centrale?» «Be’, lo stelo è già a posto per tre quarti. Ripulirlo non è stato facile, ma ho fatto stendere dai nanorobot una nuova schermatura sulla superficie interna. Per quanto riguarda il disco centrale, saremo costretti a sostituire tutta l’acqua del ponte oceano, e non con acqua pura: dovremo procurarci autentica acqua marina, con tanto di sali e minerali vari disciolti, oltre al plancton e a un campionario di pesci. Come misura supplementare di sicurezza mi piacerebbe anche rimpiazzare tutta l’aria di bordo. Quanto ai moli d’attracco, non ci sono problemi: hanno una schermatura efficace. E lo stesso vale per il toroide ingegneria, che grazie alla sua schermatura non ha assorbito troppe radiazioni.» Keith annuì. «Quanto dovremo aspettare prima di poter attraversare la scorciatoia con sicurezza?» «Fino a domani pomeriggio, o anche meno. La distanza tra il portale e la stella verde è in rapido aumento, e se siamo disposti a rischiare una decina di watson nel tentativo dovremmo anche riuscire a far conoscere subito le nostre intenzioni ai cantieri di Flatlandia, in modo che gli ib comincino a prepararsi al nostro arrivo.» «Ottimo lavoro, Lianne.» La fissò, e lei gli rivolse un altro sorriso, caldo, luminoso, “intelligente”. Keith si sentì irritato con se stesso perché a volte dimenticava come mai lei si trovasse a bordo della Starplex. Lianne Karendaughter era il miglior ingegnere astronavale disponibile. Thor pilotò la nave attraverso la scorciatoia e sbucò alla periferia del sistema di Flatlandia. In quella zona le Nubi di Magellano dominavano il cielo. Il sole di Flatlandia, Calor Bianco, era una stella di classe F, e la stessa Flatlandia era una palla priva di imperfezioni, avvolta da nuvole bianche. Gli ib non erano in grado di lavorare in gravità zero. Keith andò a un oblò e li vide sciamare a migliaia intorno alla Starplex nelle loro unità mobili personali, fatte a forma di disco da hockey e del tutto trasparenti, a parte le piastre per la gravità artificiale. Essendoci di mezzo gli ib, il lavoro fu svolto senza perdite di tempo: i nuovi moduli abitativi furono incastrati al loro posto, fornendo alla Starplex ponti nuovi di zecca dal numero 41 al 70. Keith riuscì a malapena a scorgere la scialuppa a forma di bolla dalla quale Lianne orchestrava il lavoro. Durante l’intera operazione si presentò un solo problema: il tubo che stava prosciugando il ponte oceano si ruppe. L’acqua salata si riversò nello spazio congelandosi in minuscole schegge che scintillavano come diamanti nella luce intensa di Calor Bianco. Quando il lavoro fu completato, la Starplex (ormai un incrocio tra la Starplex 1 e la 2) tornò ad attraversare la scorciatoia. Keith era soddisfatto delle riparazioni e ancor più soddisfatto che non ci fosse più affollamento nella parte superiore della nave. Le discussioni tra i membri delle diverse razze cominciavano a diventare un problema: adesso che c’era di nuovo spazio in abbondanza, forse a bordo sarebbe tornata la pace. Nel frattempo, cinque nuovi ricercatori erano saliti a bordo: un ib e due waldahud specializzati in materia oscura, un delfino e un umano esperti in evoluzione stellare. Subito dopo l’arrivo dei rapporti della Starplex, tutti e cinque avevano lasciato immediatamente le loro occupazioni e si erano precipitati alla rete di scorciatoie per essere presenti a Flatlandia all’arrivo della nave. Lianne aveva mantenuto le sue promesse: le riparazioni erano state completate in meno di diciotto ore. Dopodiché la nave, pilotata da Thor, riattraversò la scorciatoia e riemerse nelle vicinanze del campo di materia oscura e dell’enigmatica stella verde. 11 I progettisti della Starplex avevano previsto che l’ufficio del direttore dovesse trovarsi accanto al ponte di comando, ma Keith aveva insistito per spostarlo. Il direttore, secondo lui, doveva essere visto in tutta la nave, non soltanto in un settore isolato. Alla fine aveva scelto una stanza quadrata di circa quattro metri per lato, situata sul ponte 14, a metà di una delle facce triangolari del modulo abitativo 2. Da una parete a vetri si scorgeva il modulo 3, perpendicolare a quello in cui si trovava lui, oltre a una fetta larga 90 gradi del cerchio color rame che costituiva il disco centrale della Starplex, sedici piani più in basso. Su quella parte del soffitto era riportato il nome della Starplex negli squadrati caratteri della lingua waldahudar. Keith sedeva dietro una grande scrivania rettangolare, fatta di autentico mogano. Sopra c’erano i ritratti olografici di sua moglie Rissa, in un esotico abbigliamento da antica danzatrice spagnola, e del figlio Saul che sfoggiava una maglietta di Harvard e quella strana barbetta caprina allora di moda tra i giovani. Accanto agli ologrammi c’era un modello della Starplex in scala 1:600. Dietro alla scrivania, su una cassettiera, trovavano posto i globi della Terra, di Rehbollo e di Flatlandia, accanto a una classica tavola da gioco go, con i pezzi fatti di lucida madreperla bianca e di ardesia. Sopra il comò campeggiava la riproduzione incorniciata di un quadro di Emily Carr, che rappresentava un totem degli indiani Haida nella foresta di una delle Isole della regina Carlotta. Ai lati della cassettiera c’erano due grandi piante in vaso. L’arredamento della stanza era completato da un divano, tre sedie multiforma e un tavolino. Keith si era tolto le scarpe e aveva appoggiato i piedi alla scrivania. Non imitava mai Thor quando era sul ponte, ma quando era solo si metteva spesso in quella posizione. Appoggiato allo schienale della poltroncina nera stava leggendo un rapporto sui segnali individuati da Hek quando un cicalino suonò. “Jag Kandaro em-Pelsh è alla porta” annunciò Phantom. Keith sospirò, tolse i piedi dal tavolo e fece con una mano il gesto “fallo entrare”. La porta rientrò nella parete e Jag si fece avanti. Dopo un attimo le narici del waldahud cominciarono a fremere, e Keith temette che Jag avesse sentito l’odore dei suoi piedi. «Che cosa posso fare per te, Jag?» Il waldahud toccò lo schienale di una multisedia, che subito si configurò secondo la forma di Jag, poi sedette e cominciò ad abbaiare. La voce tradotta disse: «Ben pochi dei vostri personaggi letterari mi piacciono. Uno di questi è Sherlock Holmes.» Keith sollevò un sopracciglio. Sfacciato, arrogante… sì, non aveva difficoltà a credere che piacesse a Jag. «In particolare» continuò Jag «apprezzo la sua abilità nel distillare un processo mentale in una massima. E una delle mie preferite è: “La verità è il residuo, per quanto carente di probabilità, che rimane indietro quando ciò che non può essere è omesso dalla considerazione”.» Se non altro, quella citazione strappò a Keith un sorriso. Ciò che Conan Doyle aveva scritto era: “Eliminate l’impossibile e ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, ma considerando che quelle parole erano state prima tradotte in waldahudar e poi ritradotte in inglese, la versione di Jag non era malvagia. «Sì?» lo incoraggiò Keith. «Ebbene, la mia analisi originale, ovvero che la stella di quarta generazione qui apparsa fosse un’anomalia, deve ora essere corretta, perché è stata individuata una seconda stella dello stesso genere a Rehbollo 376A. Applicando il detto di Holmes, credo adesso di avere compreso da dove vengono queste due stelle verdi e presumibilmente tutte le altre stelle vagabonde.» Jag tacque, in attesa che Keith lo sollecitasse a proseguire. «Allora?» disse Keith, irritato. «Dal futuro.» Keith fece una risata, che però risultò più simile a una serie di colpi di tosse. Probabilmente, agli orecchi waldahud non aveva un suono derisorio. «Dal futuro?» «È la spiegazione migliore. Le stelle verdi non possono essersi evolute in un universo giovane come il nostro. Se ce ne fosse una sola potrebbe trattarsi di un caso straordinario, ma due sono troppo improbabili.» Keith scosse la testa. «Non potrebbero venire da… non so… qualche regione insolita dello spazio? Forse hanno fatto coppia con un buco nero e gli stress gravitazionali hanno reso più veloci le reazioni di fusione.» «Ho pensato anch’io a ipotesi simili» ribatté Jag. «Cioè ho pensato a potenziali scenari alternativi, tra i quali non è certo presente quello da te esposto. Nessuno però si adatta ai fatti. Ho appena eseguito la datazione radiometrica, basata sulle proporzioni degli isotopi, del materiale che io e Lunga Bottiglia abbiamo raccolto dall’atmosfera della nostra stella verde. Gli atomi dei metalli pesanti hanno 22 miliardi di anni. La stella non è così antica, è chiaro, ma lo sono molti degli atomi che la compongono.» «Credevo che tutta la materia avesse la stessa età» obiettò Keith. Jag sollevò le spalle inferiori. «È senz’altro vero che tutte le particelle fondamentali dell’universo sono state create poco dopo il Big Bang, a eccezione delle poche che si formano costantemente per la conversione energia-massa ed escludendo certe particolari reazioni nelle quali i neutroni si trasformano in coppie elettrone-protone e viceversa. D’altra parte, gli atomi costituiti da queste particelle sono formati e distrutti in momenti ben precisi da processi di fusione o fissione.» «Giusto» ammise Keith, imbarazzato. «Chiedo scusa. Quindi tu sostieni che gli atomi di metalli pesanti nella stella si sono formati molto tempo prima dell’universo stesso.» «Corretto. E l’unico modo in cui ciò può essere accaduto è che la stella venga dal futuro.» «Ma… hai detto che queste stelle verdi sarebbero miliardi di anni più vecchie di quanto può esserlo una stella delle nostre. Significa forse che vengono da un futuro lontano “miliardi” di anni? È difficile da credere.» Jag iniziò la sua latrante replica con uno sbuffo di impazienza. «La difficoltà per l’intelletto dovrebbe essere accettare la realtà del viaggio nel tempo, non certo l’estensione temporale del viaggio di un oggetto. Se i viaggi nel tempo sono possibili, allora la loro estensione dipenderà soltanto dalla tecnologia e dall’energia disponibili. E do per scontato che qualunque razza sia capace di mandare a spasso le stelle, non abbia carenza né dell’una né dell’altra.» «Ma credevo che i viaggi nel tempo fossero impossibili.» Jag scosse tutte e quattro le spalle. «Fino alla scoperta delle scorciatoie, il trasporto istantaneo era impossibile. Fino alla scoperta dell’iperpropulsione, superare la velocità della luce era impossibile. Non ho idea di che cosa renderà possibili i viaggi nel tempo ma a quanto pare stiamo per scoprirlo.» «Non c’è nessun’altra spiegazione?» domandò Keith. «Come ho detto, ho considerato altre possibilità… per esempio che le scorciatoie agiscano come passaggi da universi paralleli e che sia quella l’origine delle stelle verdi, anziché il futuro. Però, a parte l’età, la materia che le forma è esattamente quella del nostro universo, identica a quella uscita dal nostro Big Bang e soggetta alle stesse leggi fisiche valide da noi.» «Va bene» disse Keith alzando una mano. «Ma che senso ha inviare stelle dal futuro al passato?» «Questa è la prima domanda sensata che fai» commentò Jag. Keith ribatté a denti stretti: «E qual è la risposta?» Jag sollevò ancora le quattro spalle. «Non ne ho idea.» Mentre percorreva il corridoio freddo e scarsamente illuminato, Keith si rese conto che ciascuna delle razze a bordo della Starplex aveva qualche comportamento che alle altre risultava insopportabile. Uno dei comportamenti umani che più infastidivano gli altri era l’abitudine di sprecare un sacco di tempo per escogitare frasi le cui iniziali componessero parole sensate. Queste parole erano chiamate “acronimi” in tutte le lingue, perché soltanto le lingue terrestri avevano un termine per definirle. Quando ancora la Starplex era in fase di progettazione, alcuni umani suggerirono di chiamare STRESS, cioè Situazioni transitorie di residenza a standard sovrapposti, le condizioni delle aree dell’astronave in cui le quattro razze dovevano convivere. Ed erano davvero uno stress, una scocciatura senza eguali, pensava Keith. Tutte le razze vivevano in un’atmosfera di azoto-ossigeno anche se gli ib, rispetto agli umani, richiedevano una concentrazione molto maggiore di anidride carbonica per far scattare il riflesso della respirazione. La gravità delle aree comuni era in genere l’82 per cento di quella terrestre: normale per i waldahud, leggera per gli umani e i delfini e quasi la metà di quella cui erano abituati gli ib. Anche l’umidità era elevata: i waldahud soffrivano di sinusite se l’aria era troppo secca. La luce era più rossa di quella gradita agli umani… ricordava quella di un limpido tramonto terrestre. Per di più l’illuminazione doveva essere indiretta, perché il mondo natale degli ib aveva una coltre di nubi perenni, e i fotosensori presenti a migliaia sulle loro reti sarebbero stati danneggiati da luci troppo intense. Anche così, però, i problemi non mancavano. Keith si appiattì contro una parete del corridoio per lasciar passare un ib, che proprio in quel momento espulse da uno dei due tubi azzurri che ciondolavano dalla sua pompa una pallottola grigia e compatta. Il cervello contenuto nel baccello non aveva alcun controllo su quella funzione corporale: per gli ib, il superamento del pannolino era un’impossibilità biologica. Su Flatlandia le pallottole erano prelevate da animali-spazzini capaci di sfruttare le sostanze nutrienti che gli ib non digerivano. A bordo della Starplex, c’erano piccoli robocop grandi quanto scarpe umane, che svolgevano la stessa funzione. Uno di essi giunse di corsa lungo il corridoio e, sotto gli occhi di Keith, risucchiò l’escremento e subito si allontanò. Alla fine Keith si era abituato all’idea che gli ib defecassero dappertutto… grazie a Dio le loro feci non avevano nessun odore. Non credeva però che si sarebbe mai adattato al freddo, all’umidità o a tutte le altre sgradevolezze che per colpa dei waldahudin… Keith si fermò di colpo. Era quasi giunto a un’intersezione a T e due voci gli arrivavano con chiarezza da un punto poco più avanti: quella di un maschio umano che strillava in una lingua simile al giapponese, e gli irosi latrati di un waldahud. “Phantom” disse Keith sottovoce “traducimi questa conversazione.” Accento di New York: “Tu sei debole, Teshima, molto debole. Non meriti una compagna. Fai del sesso con te stesso!”. Keith si accigliò. Ebbe il sospetto che la traduzione del computer non rendesse giustizia all’originale giapponese. Ancora l’accento di New York: “Sul mio mondo saresti il membro più insignificante dell’entourage della femmina più brutta e meschina di tutto…”. “Identifica chi sta parlando” sussurrò Keith. “L’umano è Hiroyuki Teshima, un biochimico” rispose Phantom dall’impianto uditivo di Keith. “Il waldahud è Gart Daygaro em-Holf, uno degli ingegneri.” Keith rimase immobile, chiedendosi che cosa fosse meglio fare. Erano entrambi adulti e benché lui fosse il loro diretto superiore non si poteva certo dire che fossero ai suoi ordini. Tuttavia… “Freddezza e tranquillità.” Oltrepassò l’angolo. «Signori» disse in tono neutro «non sarebbe il caso di calmarsi?» Tutte e quattro le mani del waldahud erano strette a pugno e la faccia rotonda di Teshima era rossa di rabbia. «Non intrometterti, Lansing» disse l’umano, in inglese. Keith li guardò. Che cosa poteva fare? Non certo metterli ai ferri: quando si trattava di questioni personali non c’era nessun motivo per cui dovessero ubbidirgli. «Non vuoi permettermi di offrirti un aperitivo, Hiroyuki?» disse. «E a te, Gart, non farebbe piacere un po’ di riposo extra per questo ciclo?» «Mi farebbe piacere» latrò il waldahud «vedere Teshima sparato da un tubo guidamassa dritto in un buco nero.» «Coraggio, ragazzi» li esortò Keith, avvicinandosi di un passo. «Abbiamo tutti accettato di vivere e lavorare insieme.» «Ti ho già detto di non intrometterti, Lansing» sbottò Teshima. «Non sono affari tuoi.» Keith si sentì le guance avvampare. Non poteva ordinare loro di dividersi, ma nemmeno poteva permettersi zuffe nei corridoi tra il personale della nave. Li osservò entrambi: un umano di mezza età e di bassa statura, con i capelli color piombo, e un waldahud grande e grosso con la pelliccia dell’esatta sfumatura del legno di quercia. Non conosceva bene né l’uno né l’altro, non sapeva che cosa avrebbe potuto placarli. Accidenti, non sapeva neppure per che cosa stavano litigando. Aprì la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, quando a pochi metri di distanza si affacciò da una porta una ragazza in pigiama… era Cheryl Rosenberg. «Per San Pietro, proprio qui dovevate fermarvi?» esclamò. «Non lo sapete che per qualcuno è notte?» Teshima guardò la donna e, rivolgendole un impercettibile inchino, cominciò ad allontanarsi. Gart, che per natura era altrettanto deferente nei confronti delle femmine, fece un secco cenno col capo e si incamminò in direzione opposta. Cheryl sbadigliò e tornò dentro, chiudendosi la porta dietro le spalle. Keith rimase lì impalato, a guardare il waldahud che indietreggiava nel corridoio, arrabbiato con se stesso per non essere stato capace di affrontare la situazione. Si massaggiò le tempie. Siamo tutti prigionieri della biologia, pensò. Teshima che non può trascurare le richieste di una donna graziosa e Gart che non è capace di disubbidire agli ordini di una femmina. Quando Gart fu fuori vista, Keith lo seguì lungo il passaggio freddo e umido. A volte, pensò, sarebbe una soddisfazione essere un maschio dominante. Rissa sedeva alla sua scrivania, intenta a svolgere il lavoro che più detestava: le formalità burocratiche. Quello che ancora veniva chiamato “riempire i moduli”, anche se ormai non esisteva più nessun modulo stampato. Suonò il cicalino e Phantom disse: “Carro Merci è alla parta”. Rissa ripose lo stilo-input e si ravviò i capelli. Buffo preoccuparsi di avere i capelli in disordine, si disse, quando l’unico che può vederli non è neppure umano. «Falla entrare.» L’ib avanzò sulle sue rotelle. Phantom fece scivolare la multisedia in un angolo per farle posto. «Ti prego di perdonarmi per il disturbo, cara Rissa» disse con il suo ricco accento britannico. Rissa scoppiò a ridere. «Non mi disturbi affatto, credimi. In questo momento qualunque interruzione è benvenuta.» La rete di sensori di Carro Merci s’inarcò come la vela di una nave, per consentirle di vedere la scrivania di Rissa. «Moduli» commentò. «Un lavoro noioso.» Rissa le sorrise. «L’hai detto. Che cosa posso fare per te?» Vi fu una lunga pausa di silenzio, insolita per un ib. Poi, alla fine: «Sono venuta per la disdetta.» Rissa la guardò, perplessa. «Disdetta?» Sulla rete le luci danzarono. «Le mie scuse più profonde se questa espressione non è corretta. Intendevo dire che, con rimpianto, non potrò più lavorare qui. Con decorrenza a partire dal quinto giorno da adesso.» Rissa sentì la propria fronte sollevarsi. «Te ne vai? Dai le dimissioni?» Altre luci saltellarono sulla rete. «Sì.» «Perché? Credevo che le ricerche sulla senescenza ti interessassero. Se desideri essere assegnata a qualche altro compito…» «Non si tratta di questo, cara Rissa. La ricerca è affascinante e inestimabile, e tu mi hai onorato permettendomi di prendervi parte. Ma fra cinque giorni altre priorità avranno la precedenza.» «Quali priorità?» «Ripagare un debito.» «Nei confronti di chi?» «Di altre bioentità integrate. Entro cinque giorni dovrò andarmene.» «Dove?» «No, non andare via. “Andarmene.”» Rissa fece un sospiro e guardò il soffitto. «Phantom, sei sicuro di aver tradotto correttamente le parole di Carro Merci?» “Credo di sì, signora” replicò Phantom nell’auricolare di lei. «Carro Merci, non comprendo la distinzione che fai tra “andare via” e “andartene”» disse Rissa. «Non andrò in nessun posto, in senso fisico» rispose Carro Merci. «Me ne andrò nel senso di andarmene. Morire.» «Di mio!» esclamò Rissa. «Sei malata?» «No.» «Ma non sei abbastanza vecchia per morire. Mi hai detto più volte che gli ib vivono esattamente 641 anni. E tu hai appena passato i 600.» La rete di sensori di Carro Merci prese un color salmone, ma l’emozione correlata non doveva avere un equivalente terrestre perché Phantom decise di non premettere alla sua replica alcun commento parentetico. «Ho 600 anni, secondo i termini terrestri. Il mio tempo ha raggiunto i suoi quindici sedicesimi.» Rissa la guardò a bocca aperta. «Che cosa significa?» «Per le trasgressioni commesse in gioventù. Mi è stata assegnata una pena pari a un sedicesimo di vita, per cui sarò terminato la settimana prossima.» Rissa non sapeva che cosa dire. Alla fine optò per la semplice ripetizione della parola “terminata”, come se forse almeno quella potesse essere stata fraintesa. «Esatto, cara Rissa.» Vi fu un altro momento di silenzio. «Quali crimini hai commesso?» «Mi imbarazza parlarne» disse Carro Merci. Rissa tacque, in attesa che la ib continuasse comunque. Non lo fece. «Ti ho riferito molte informazioni estremamente private riguardo a me stessa e al mio matrimonio» osservò Rissa con serenità. «Siamo amiche, Carro Merci.» Ancora silenzio. Forse la ib stava lottando con i suoi sentimenti. Alla fine disse: «Quando ero una novizia terziaria, una posizione che da voi corrisponde a quella di una studentessa universitaria, ho riportato in modo non corretto i risultati di un mio esperimento.» Rissa aggrottò la fronte. «Tutti fanno errori, Carro Merci. Non riesco a credere che tu sia stata punita così severamente per una cosa simile.» Le luci di Carro Merci sfavillarono follemente. Sembrava un segno di costernazione, ma ancora una volta Phantom non fornì alcuna versione verbale. Poi: «I risultati non furono riportati erroneamente per cause accidentali.» Il manto della ib rimase buio per parecchi secondi. «Ho falsificato i dati deliberatamente.» Rissa si sforzò di mantenere un’espressione neutra. «Oh.» «Non ritenevo che l’esperimento avesse un gran significato, ma sapevo… o, meglio, immaginavo: non sapevo un bel niente, a quei tempi… quali risultati avrebbe dovuto avere. A posteriori mi rendo conto che sapevo soltanto quali risultati avrei voluto avere.» Buio, pausa. «Comunque sia, altri ricercatori si sono affidati ai miei risultati. Molto tempo è stato sprecato.» «E per questo ti uccideranno?» Tutte le luci della rete di Carro Merci si accesero contemporaneamente: una manifestazione di orrore assoluto. «Non si tratta affatto di un’esecuzione sommaria, Rissa. Su Flatlandia esistono soltanto due crimini capitali: l’uccisione di un baccello e la formazione di una gestalt con più di sette componenti. Quanto a me, si tratta di un semplice accorciamento del mio tempo di vita.» «Ma… ma se adesso hai 600 anni, quanto tempo fa hai commesso il tuo crimine?» «Avevo 24 anni.» «Phantom, che anno era sulla Terra a quel tempo?» “Il 1516, signora.” «Buon Dio!» esclamò Rissa. «Carro Merci, non è possibile che ti puniscano dopo così tanto tempo per una banale infrazione.» «Il trascorrere del tempo non ha mutato l’impatto di ciò che ho commesso.» «Però da quando sei salita a bordo della Starplex sei protetta del Trattato del Commonwealth. Puoi chiedere asilo qui. Possiamo trovarti un avvocato.» «Rissa, le tue preoccupazioni sono commoventi, ma io sono preparata a pagare il mio debito.» «È successo tanto tempo fa. Forse ti hanno perdonata.» «Gli ib non dimenticano, lo sai. Dal momento che le matrici si formano nel cervello dei nostri baccelli a ritmo costante, noi abbiamo una memoria eidetica. Ma anche se i miei compatrioti avessero dimenticato, non farebbe differenza. È una questione di onore.» «Perché non ne hai mai fatto parola?» «La mia punizione non richiedeva la diffusione della verità. Mi è stato consentito di vivere senza questa costante vergogna: qui, però, il contratto che ho sottoscritto richiede che io dia un preavviso di cinque giorni se desidero andarmene. Ed è per questo che adesso, per la prima volta dopo 581 anni, parlo a qualcuno del mio crimine.» La ib tacque. «Se lo ritieni accettabile, passerò i giorni che mi rimangono a riordinare le nostre ricerche, cosicché tu e altri possiate proseguirle senza difficoltà.» Rissa si sentiva girare la testa. «Mmm, sì» disse infine. «Sì, mi sembra una buona idea.» «Grazie» disse Carro Merci. Si girò e si avviò alla porta, poi la rete lampeggiò un’ultima volta. «Sei stata una buona amica, Rissa.» Poi la porta si aprì, Carro Merci rotolò fuori e Rissa si lasciò cadere sulla sua sedia, attonita. 12 Rissa andò sul ponte con l’intenzione di parlare a Keith dell’annuncio di Carro Merci. Ma proprio quando fu accanto alla sua postazione, si fece sentire Rombo: «Keith, Jag, Rissa» disse la voce tradotta, fredda e vivace «innumerevoli scuse per l’interruzione, ma ritengo che dobbiate vedere questo.» «Che cosa?» domandò Keith. Rissa prese una sedia mentre le corde di Rombo ticchettavano sulla consolle, evidenziando con una cornice azzurra una sezione della bolla olografica. «Temo di non avere prestato sufficiente attenzione alle scansioni in tempo reale» disse l’ib. «Tuttavia ho ricontrollato tutti i dati che abbiamo registrato e… guardate qui. Sono immagini accelerate un migliaio di volte: ciò che vedrete nei prossimi sei minuti ha richiesto in realtà quasi tutto il tempo della nostra permanenza qui per svolgersi.» Nell’area incorniciata c’era una sfera di materia oscura, inquadrata quasi esattamente all’altezza dell’equatore. Non era affatto una sfera perfetta. Era schiacciata ai poli, e bande di nubi alternativamente chiare e scure ne segnavano la superficie nel senso della latitudine. Secondo la scala delle unità di misura era una delle sfere più grandi che avessero trovato, 172 mila chilometri di diametro. «Aspetta un momento» disse Keith. «Ci sono formazioni nuvolose a bande, ma non sembra affatto che la sfera ruoti.» La rete di Rombo lampeggiò. «Mi auguro che la verità non ti sia d’imbarazzo, buon Keith, ma in realtà essa ruota più rapidamente di qualunque altra sfera da noi osservata in passato. In questo momento compie una rotazione completa sul suo asse ogni due ore e 16 minuti, un ritmo quasi cinque volte più rapido di quello gioviano. La velocità è così elevata da annullare tutte le consuete turbolenze nelle nubi. E in questa registrazione ad alta velocità l’immagine che vedete ruota addirittura una volta ogni otto secondi.» Rombo fece schioccare una corda e azionò un comando. «Ecco, ho chiesto al computer di mettere un riferimento sull’equatore. Lo vedete quel puntino arancione? È la mia scelta arbitraria di longitudine zero.» Il punto arancione sfrecciò lungo l’equatore, scomparve sul retro, riapparve quattro secondi dopo e riattraversò la faccia visibile. Dopo alcune rivoluzioni, Jag fece sentire i suoi latrati: «Hai accelerato la registrazione?» «No, buon Jag» rispose Rombo. «La velocità è costante.» Jag indicò l’orologio digitale. «Ma per fare l’ultimo giro il tuo punto ci ha messo soltanto sette secondi.» «Già» ammise Rombo. «La velocità di rotazione della sfera è in aumento.» «Com’è possibile?» domandò Keith. «Ci sono altri corpi che interagiscono?» «Be’, sì. Tutte le altre sfere ne influenzano il movimento… ma non sono la causa di quello che stiamo vedendo» affermò Rombo. «L’incremento di rotazione è generato dall’interno.» Jag era chino sulla consolle e provava una simulazione computerizzata dopo l’altra. «Non si può aumentare lo spin se non si fornisce energia al sistema. All’interno della sfera possono anche essere in corso reazioni complesse, che in definitiva devono però essere alimentate da qualche fonte esterna al sistema. Inoltre…» Alzò lo sguardo e si lasciò sfuggire un acuto guaito, che Phantom tradusse come “espressione di stupore”. Nell’area incorniciata di azzurro, l’oggetto di materia oscura aveva iniziato a restringersi all’equatore. La metà settentrionale e quella meridionale non erano più due emisferi perfetti, ma si incurvavano un po’ in dentro prima di toccarsi. E il puntino arancione di riferimento sfrecciava sempre più rapido lungo la cintola sempre più stretta del pianeta. A mano a mano che la velocità di rotazione della sfera aumentava, il restringimento dell’equatore diventava sempre più pronunciato. Ben presto il profilo dell’oggetto assunse una forma a otto. Rissa si alzò e rimase a fissare il fenomeno a bocca aperta. Ormai l’equatore era così stretto che il punto arancione copriva solo un quarto della sua larghezza. Rombo toccò un paio di tasti e il punto scomparve, sostituito da due diversi puntini arancione sulle linee equatoriali delle due sfere congiunte. L’immagine incorniciata si oscurò. «Chiedo scusa per l’inconveniente» disse Rombo. «Un’altra sfera di materia oscura ci è passata davanti, oscurando l’inquadratura. Ci farà perdere 14 secondi di immagini, con questa velocità di scorrimento. Porto subito la registrazione oltre questo episodio.» Le corde toccarono la consolle delle operazioni esterne. Quando l’immagine riapparve, le due sfere erano unite da un ponte largo un decimo dell’originario diametro del globo. Tutti contemplarono la scena rapiti. In un silenzio assoluto, rotto soltanto dal flebile ronzio dell’aria condizionata, osservarono il processo raggiungere l’inevitabile conclusione: le due sfere si staccarono e fluttuarono libere l’una dall’altra. Una cominciò immediatamente a dirigersi verso la parte bassa dell’inquadratura, seguendo una traiettoria curva, l’altra andò verso l’alto. Mentre la distanza tra loro aumentava, i due puntini di riferimento sulle linee equatoriali cominciarono a impiegare sempre più tempo per completare un giro: la rotazione stava rallentando. Rissa si girò a guardare Keith, gli occhi sbarrati. «È come una cellula» esclamò. «Una cellula che attraversa la mitosi.» «Esatto» confermò Rombo. «A parte il fatto che, nel nostro caso, la cellula madre ha un diametro di 170 mila chilometri. O lo aveva prima che l’evento avesse inizio.» Keith si schiarì la voce. «Non ho capito» disse. «Vuoi dire che queste cose sono “vive”? Che sono cellule viventi?» «Alla fine ho visto le registrazioni fatte dalla sonda atmosferica di Jag» disse Rissa. «Ricordate quell’oggetto apparso solo per un istante durante la sua discesa nell’atmosfera? Avevo messo in conto, tra le varie ipotesi, che si trattasse di una forma di vita… una creatura gonfia di gas, fluttuante tra le nuvole. Gli scienziati terrestri degli anni Sessanta avevano immaginato forme di vita di questo tipo per Giove. Ma gli stessi oggetti potrebbero, con la stessa probabilità, essere piccoli organi… componenti di una cellula più grande.» «Esseri viventi» mormorò Keith, incredulo. «Esseri viventi delle dimensioni di quasi 200 mila chilometri?» La voce di Rissa aveva un’intonazione quasi reverente. «Forse. Se è vero, ne abbiamo appena visto uno riprodursi.» «È incredibile» disse Keith scuotendo la testa. «Voglio dire, qui non si tratta semplicemente di creature gigantesche o di forme di vita che prosperano nello spazio aperto. Qui parliamo di esseri viventi fatti di “materia oscura”.» Si voltò alla sua sinistra. «Jag, è mai possibile?» «Possibile che la materia oscura, o parte di essa, si dimostri viva?» Il waldahud scrollò tutte quattro le spalle. «Gran parte della nostra scienza e della nostra filosofia sostengono che l’universo deve brulicare di vita. Finora però abbiamo trovato soltanto tre mondi nei quali è sorta la vita. Forse è perché abbiamo guardato nei posti sbagliati. Né io né la dottoressa Delacorte abbiamo dedicato troppe riflessioni alla potenzialità della pseudo-chimica della materia oscura, ma in queste sfere ci sono effettivamente un sacco di composti complessi.» Keith allargò le braccia in una sorta di richiamo al buon senso, e con lo sguardo cercò qualcun altro sul ponte che fosse perplesso quanto lui dagli sviluppi della faccenda. Fu allora che lo colpì un’idea ancora più grandiosa, che lo fece accasciare per qualche istante sullo schienale della sedia. Subito dopo toccò il pannello delle comunicazioni e selezionò un canale. «Lansing per Hek» disse. Dopo un attimo comparve nel panorama stellare un secondo riquadro contenente l’ologramma della faccia di Hek. «Eccomi.» «Hai avuto fortuna nel rintracciare la fonte delle trasmissioni radio?» Keith ebbe l’impressione di vedere le spalle più basse del waldahud muoversi, anche se erano fuori dall’inquadratura della telecamera. «Non ancora.» «Hai detto di avere rintracciato segnali apparentemente intelligenti su più di duecento diverse frequenze.» «Esatto.» «Quante frequenze, esattamente?» La faccia di Hek mostrò il profilo del muso sporgente, mentre consultava un monitor. «Esattamente 217» rispose. «Alcune però sono molto più attive di altre.» Keith udì Jag, alla sua sinistra, ripetere lo stesso guaito di stupore di poco prima. «Ci sono esattamente 217 oggetti di dimensioni gioviane, là fuori» disse lentamente Keith. Fece una pausa, quasi per cancellare dal suo stesso cervello le conclusioni più ovvie. «Naturalmente sappiamo che giganti gassosi come Giove sono spesso fonte di emissioni radio.» «Queste però sono sfere di materia oscura» obiettò Lianne. «E sono elettricamente neutre.» «Non sono composte esclusivamente di materia oscura» obiettò Jag. «Sono permeate di frammenti di materia normale. La materia oscura può interagire con i protoni della materia normale attraverso la forza nucleare forte, generando di conseguenza segnali elettromagnetici.» Hek sollevò le spalle superiori. «Potrebbe essere una spiegazione» disse. «Però ogni sfera trasmette sulla sua frequenza privata, come se…» La voce dall’accento di Brooklyn si spense. Keith guardò Rissa e capì che anche lei era giunta alle stesse conclusioni. Aggrottò la fronte: «Come se fossero voci separate» disse, completando la frase. «Ma adesso non ci sono più 217 oggetti, là fuori» disse Thor. «Ce ne sono 218.» Keith annuì. «Hek, rifai l’inventario dei segnali. Controlla se ci sono segni di attività a una frequenza appena superiore o appena inferiore ai confini dell’intervallo che hai identificato.» Hek inclinò la testa come per azionare qualche comando proprio lì, sul ponte uno. «Un attimo» disse. «Ci vuole solo un attimo.» Subito dopo esclamò: «Sì, per gli dèi del fango e delle lune! Sì, certo che c’è!» Keith guardò Rissa sogghignando. «Mi chiedo quali siano state le prime parole del neonato.» Epsilon Draconis Keith non aveva notato Vetro rientrare nel molo d’attracco ma quando alzò gli occhi lo vide avvicinarsi, con le gambe trasparenti che avanzavano sul prato d’erba e di quadrifogli. Il suo passo era fluido, bello a vedersi e dava l’impressione di un movimento al rallentatore anche se la velocità della camminata era normale. Quella traccia di acquamarina, l’unica sfumatura di colore nel suo corpo chiaro, aveva un effetto ipnotico. Keith considerò l’idea di alzarsi in piedi, poi si limitò a fissare l’uomo trasparente osservando i bagliori che il sole traeva dal suo corpo e dalla testa a uovo. «Bentornato.» Vetro fece un cenno con il capo. «Lo so, lo so, hai paura. Lo nascondi bene, ma continui a chiederti per quanto tempo ti terrò qui. Non troppo, te lo prometto. Ma c’è qualcos’altro che vorrei esaminare con te prima della tua partenza.» Keith inarcò le sopracciglia e Vetro sedette appoggiando la schiena a un albero vicino. Qualunque fosse la sostanza del suo corpo, non era vetro: nonostante la forma a tubo, infatti, il suo torace trasparente non ingrandiva affatto la corteccia. Si notava appena una lieve distorsione nell’immagine. «Sei arrabbiato» disse Vetro senza giri di parole. Keith scosse la testa. «No. Finora sono stato trattato bene.» Uno scampanellio: la sua risata. «No, no. Non dico che sei arrabbiato con me. Sei arrabbiato punto e basta. C’è qualcosa in te, nel profondo, che ti ha indurito il cuore.» Keith distolse lo sguardo. «Sono nel giusto, vero?» domandò Vetro. «È accaduto qualcosa che ti ha profondamente sconvolto.» Silenzio. «Ti prego» lo esortò Vetro. «Parlamene.» «È successo molto tempo fa» cominciò Keith. «Lo so… dovrei averlo superato, e invece…» «Invece ti tormenta ancora, vero? Di che cosa si tratta? Cos e stato a cambiarti così tanto?» Keith sospirò e si guardò intorno. Tutto, lì, era bellissimo e pacifico. Non ricordava quanto tempo era passato dall’ultima volta che si era seduto sull’erba, tra gli alberi, giusto per godersi il panorama… per rilassarsi. «Ha a che fare con la morte di Saul Ben-Abraham» rispose. «Morte» ripeté Vetro, quasi che Keith avesse usato un’altra parola a lui sconosciuta, come donchisciottesco. Scosse la testa trasparente. «Che età aveva quando è morto?» «È successo diciotto anni fa. Mi sembra che avesse 27 anni.» «Un battito di ciglia» commentò Vetro. Per un attimo tra loro cadde il silenzio. Keith si era molto arrabbiato quando Vetro aveva liquidato con una frase simile i loro vent’anni di matrimonio. Questa volta, però, aveva ragione. «Come è morto?» domandò Vetro. «È stato un incidente. O, almeno, così ha deciso il GovUm. Io però ho sempre pensato che abbiano scopato tutto sotto il tappeto. Hanno insabbiato l’inchiesta. A quel tempo io e Saul vivevamo su Tau Ceti IV. Lui si era laureato in astronomia, io in sociologia, e lo studio della colonia faceva parte della nostra tesi per il dottorato. Eravamo amici fin dai tempi del liceo, e alla UBC eravamo stati compagni di stanza. Avevamo un sacco di cose in comune: a tutti e due piaceva giocare a pallamano e a go, recitavamo entrambi nella compagnia teatrale studentesca, avevamo gli stessi gusti musicali. In ogni caso, Saul scoprì la scorciatoia di Tau Ceti e una piccola sonda fu inviata ad attraversarla. A quei tempi Nuova Pechino era più che altro una colonia agricola, ben lontana dall’animazione di oggi. Non si chiamava nemmeno Nuova Pechino, era semplicemente la colonia Silvanus, dal nome del quarto pianeta del sistema di Tau Ceti. Non avevano molti sociologi da quelle parti, così finirono per incaricare me di valutare quali effetti avrebbe avuto sulla cultura umana la scoperta delle scorciatoie. Fu allora che comparve l’astronave waldahuar. Si doveva mettere insieme in fretta e furia una squadra di primo contatto e anche con l’iperpropulsione ci sarebbero voluti sei mesi per fare arrivare qualcuno dalla Terra. Così io e Saul fummo reclutati per la squadra che avrebbe preso contatto con la nave, dopodiché…» Keith lasciò la frase in sospeso, chiuse gli occhi e scosse impercettibilmente la testa. «Sì?» lo incoraggiò Vetro. «Dissero che era stato un incidente. Dissero che avevano frainteso. Quando incontrammo i waldahudin faccia a faccia per la prima volta, Saul aveva con sé un’unità olografica portatile. Non la puntò contro i maiali, è chiaro. Nessuno sarebbe stato così stupido. L’aveva semplicemente con sé, appesa al fianco, quando con il pollice premette il pulsante di accensione.» Keith fece un sospiro lungo e sonoro. «Dissero che era identica a un’arma waldahuar tradizionale, che aveva la stessa forma. Erano convinti che Saul portasse un’arma e che intendesse usarla contro di loro. Invece erano i maiali a essere armati e uno di loro sparò a Saul. Proprio in faccia. La sua testa esplose vicino a me, e gli spruzzi…» Keith distolse lo sguardo e rimase a lungo in silenzio. «Lo hanno ucciso. Era il mio migliore amico e loro lo hanno ucciso.» Fissò il prato, raccolse alcuni quadrifogli e li fissò a lungo, poi li buttò via. Entrambi rimasero in silenzio, tra i cinguettii degli uccelli e il frinire delle cicale. Alla fine Vetro disse: «Dev’essere un peso difficile da sopportare.» Keith non fece commenti. «Rissa lo sa?» «Sì, eravamo già sposati a quell’epoca. Era venuta su Silvanus per scoprire come mai su quel pianeta non si erano sviluppate forme di vita autoctone benché, secondo i nostri modelli evolutivi, le condizioni sembrassero favorevoli. Ma non ho mai parlato molto di ciò che è accaduto a Saul, né con Rissa né con altri. Non trovo giusto scaricare le mie sofferenze su coloro che mi circondano: ognuno di noi ha la sua parte di problemi.» «Dunque ti sei tenuto tutto dentro.» Keith scrollò le spalle. «Io sono per un certo stoicismo… per un certo riserbo emotivo.» «Lodevole» commentò Vetro. Keith ne fu sorpreso. «Credi?» «È un sentimento che condivido, anche se mi rendo conto che è insolito. La maggior parte della gente vive, perdonami la battuta, in modo trasparente.» Vetro fece un gesto per indicare il suo corpo. «Il loro io privato coincide con il loro io pubblico. Perché tu sei così diverso?» «Non lo so. Sono fatto così.» Tacque a lungo, riflettendo. Poi aggiunse: «Quando avevo nove anni o giù di lì, c’era un ragazzo del vicinato che faceva il bullo. Uno zoticone sui tredici o quattordici anni, che aveva l’abitudine di prelevare i ragazzi più piccoli e scaricarli in un cespuglio spinoso nel parco. Quelli che venivano catturati scalciavano, strillavano e piangevano, e lui sembrava goderne. Un giorno venne da me, mi afferrò mentre correvo, mi portò verso il cespuglio e mi ci buttò dentro. Io non mi dimenai. Non ce n’era motivo: era grosso il doppio di me e non sarei mai riuscito a liberarmi. E nemmeno strillai o piansi. Mi buttò nel cespuglio e io mi limitai a rialzarmi e uscire di lì. Ne ricavai qualche abrasione e un bel po’ di graffi, ma non dissi nulla. Lui restò a fissarmi per una decina di secondi, poi commentò: “Lansing, tu hai le palle” e non mi toccò mai più.» «Allora la tua interiorizzazione è un meccanismo di sopravvivenza?» domandò Vetro. Keith fece spallucce. «Serve a rafforzare ciò che c’è da rafforzare.» «Però non sai da dove provenga.» «No» ammise Keith. Poi aggiunse: «Be’, in realtà sì, credo di saperlo. I miei genitori erano entrambi piuttosto polemici e se la prendevano per nulla. Non si sapeva mai quando uno dei due avrebbe dato in escandescenze. In pubblico, in privato… non faceva differenza. Non si era al sicuro nemmeno durante una conversazione di cortesia. Cenavamo insieme ogni sera e io restavo sempre in silenzio, con la speranza che almeno per una volta la cena si concludesse senza traumi, senza che uno di loro si alzasse da tavola infuriato e se ne andasse, senza scenate o frasi cattive.» Keith fece una pausa. «In verità il legame tra i miei genitori aveva anche altre caratteristiche che da piccolo non comprendevo. All’inizio entrambi avevano una carriera, ma col passare degli anni l’automazione eliminò sempre più lavori… questo avveniva prima che la vera intelligenza artificiale fosse messa fuori legge. Il governo canadese modificò le leggi sulle imposte in modo tale che il secondo stipendio pagasse tasse pari al 110 per cento: era una mossa studiata per distribuire il poco lavoro che c’era alla maggior parte delle famiglie. Papà guadagnava meno della mamma, così fu lui che dovette lasciare il lavoro. Adesso so che la sua irritabilità derivava in gran parte da questo, ma a quel tempo tutto ciò che capivo era che i miei genitori riversavano la loro rabbia e la loro frustrazione su chiunque fosse loro vicino. E benché fossi un bambino, giurai che non mi sarei mai comportato così.» Vetro ascoltava rapito. «Incredibile» commentò. «Tutto quadra.» «Che cosa quadra?» domandò Keith. «Tu.» 13 A Keith girava la testa. Troppe scoperte, troppi avvenimenti inattesi. Tamburellò con le dita sulla sua consolle, pensando. Poi disse: «Okay, gente. Adesso che facciamo?» Le tre postazioni della fila anteriore ruotarono sui piedistalli per fronteggiare la fila posteriore: Lianne guardava Jag, Thor guardava Keith e Rombo guardava Rissa. Keith scrutò uno per uno i membri della squadra di turno sul ponte. «Qui non c’è che l’imbarazzo della scelta» disse. «Primo, c’è il mistero delle stelle che escono dalle scorciatoie… e che secondo Jag provengono dal futuro. Come se questo enigma non fosse sufficiente, ci troviamo pure di fronte a una forma di vita… “vita”!… fatta di materia oscura.» Keith guardò gli altri. «Considerata la complessità dei segnali radio raccolti da Hek, c’è perfino la possibilità… ma piccolissima, ve lo assicuro… che questo sia un primo contatto con una forma di vita intelligente. Solo ieri sarebbe stata una follia, ma le indagini sulla materia oscura saranno affidate alla divisione scienze biologiche, Rissa.» Lei fece un cenno di assenso. Keith si rivolse a Jag. «D’altra parte, le stelle che escono dalle scorciatoie potrebbero rivelarsi una minaccia per il Commonwealth. Se tu hai ragione, Jag, cioè se queste stelle vengono davvero dal futuro, dobbiamo scoprire perché stanno tornando indietro. Forse per un atto deliberato? E, se è così, il fine potrebbe essere ostile? O si tratta soltanto di un incidente? Magari c’è un ammasso globulare che, a miliardi di anni da noi, è entrato in collisione con una scorciatoia e l’ha in qualche modo sovraccaricata facendole trasmettere qui da noi alcune delle stelle che lo compongono.» «Un ammasso globulare non potrebbe attraversare una scorciatoia» abbaiò Jag. «Passerebbe soltanto una delle sue stelle.» «A meno che» intervenne Thor, con un tono un po’ petulante «l’ammasso globulare non fosse racchiuso da una specie di super sfera di Dyson… un guscio che circondi tutto il gruppo di stelle. Immagina che qualcosa del genere tocchi una scorciatoia che si trova miliardi di anni nel futuro: nell’attraversare il portale il guscio potrebbe rompersi, distribuendo le singole stelle in diversi punti di uscita.» «Ridicolo» affermò Jag. «Voi umani vi date sempre manforte, anche per sostenere le più assurde fantasticherie. Prendiamo le vostre religioni, per esempio…» «Basta così!» sbottò Keith, battendo sonoramente la mano aperta sul bordo della sua consolle. «Basta così. Non arriveremo da nessuna parte bisticciando tra noi.» Guardò il waldahud. «Se non condividi l’ipotesi di Thor, proponi la tua. Perché ci arrivano stelle dal futuro?» Jag era di fronte al direttore, ma guardava Keith solo con gli occhi di destra, mentre con la coppia di sinistra controllava il resto dell’ambiente: era una istintiva reazione di preparazione al combattimento. «Non lo so» rispose alla fine. «Abbiamo bisogno di risposte» disse Keith ancora con una punta di durezza nella voce. «Interrompo con la massima cortesia» disse Rombo. «L’offesa non è voluta e sperabilmente non sarà avvertita.» Keith si girò verso l’ib. «Che c’è?» «Forse stai chiedendo alla persona sbagliata, sia detto senza ingiuria per il buon Jag, naturalmente. Ma se vuoi sapere perché le stelle vengono inviate indietro nel tempo, allora bisogna chiedere alla persona che le sta inviando.» «Vuoi dire che dovremmo chiederlo a qualcuno nel futuro?» domandò Keith. «E come potremmo fare?» Il mantello dell’ib lampeggiò. «Questa sì è una domanda da porre al buon Jag» rispose. «Se qualcosa che viene dal futuro può uscire da una scorciatoia nel passato, non potremmo noi inviare qualcosa dal passato al futuro?» Jag restò in silenzio per qualche secondo, riflettendo. Alla fine mosse le spalle inferiori. «Per ciò che posso dire, no. Ogni mia simulazione computerizzata mostra che qualunque oggetto entri in una scorciatoia nel presente viene instradato a un’altra scorciatoia a essa contemporanea. Supponendo che le stelle vagabonde siano state inviate nel passato di proposito, non riesco a immaginare come i controllori delle scorciatoie ci siano riusciti, né ho idea di come si possa inviare qualcosa nel futuro.» «Perdonami, buon Jag» intervenne Rombo. «Ma esiste un modo ovvio per mandare avanti qualcosa.» «E qual è?» domandò Keith. «Una capsula temporale» rispose l’ib. «Lo sanno tutti: basta fabbricare qualcosa che duri abbastanza a lungo. Alla fine, senza fare niente di particolare, arriverà nel futuro grazie al naturale trascorrere del tempo.» Jag e Keith si guardarono l’un l’altro. «Ma… Jag dice che le stelle vengono da “miliardi” di anni nel futuro» obiettò Keith. «Effettivamente» disse il waldahud «se dovessi fare un’ipotesi, direi che arrivano da circa dieci miliardi di anni da noi.» Keith annuì e si rivolse ancora a Rombo. «È il doppio dell’età attuale dei pianeti del Commonwealth.» «Hai ragione» disse l’ib. «Ma, perdonami, malgrado ciò che voi umani pensate, né la Terra né gli altri pianeti sono stati creati per un atto volontario. La nostra capsula temporale invece lo sarebbe.» «Una capsula temporale in grado di durare dieci miliardi di anni…» disse Jag, chiaramente affascinato dall’idea. «Forse sì. Dovrebbe essere fatta con un materiale molto resistente, come… come il diamante, ma senza piani di clivaggio. Però anche se costruissimo una simile capsula, non avremmo nessuna garanzia che sarebbe rinvenuta. E in ogni caso questo settore della galassia ruoterà intorno al centro una quarantina di volte prima di allora. Come faremmo a impedirgli di andare alla deriva, in un tempo così lungo?» Sulla rete di Rombo danzarono alcune luci. «Be’, possiamo ipotizzare che questa particolare scorciatoia continuerà a esistere per i prossimi dieci miliardi di anni: è un’ipotesi ragionevole, perché esiste adesso ed esisterà nel momento futuro in cui una stella sarà spinta al suo interno. Costruiamo allora una capsula temporale autoriparante… il laboratorio nanotecnologico dovrebbe essere all’altezza della richiesta… e facciamola restare in posizione accanto alla scorciatoia.» «E poi ci affidiamo alla speranza che qualcuno la noti, quando arriverà da queste parti per usare la scorciatoia?» domandò Keith. «Potrebbe essere qualcosa di più, buon Keith» disse Rombo. «È possibile che qualcuno arriverà da queste parti per “costruire” la scorciatoia. Le scorciatoie potrebbero essere state costruite nel futuro, con punti di sbocco nel passato. Se il loro vero scopo fosse quello di spedire stelle indietro nel tempo, sarebbe uno scenario molto probabile.» Keith si rivolse a Jag. «Obiezioni?» Il waldahud scrollò le quattro spalle. «Nessuna.» Ancora a Rombo: «Credi che funzionerà?» Un fulmineo lampeggiare di luci sulla rete di sensori dell’ib. «Perché no?» Keith rifletté. «Credo che valga la pena di provare. Dieci miliardi di anni, però… tutte le razze del Commonwealth potrebbero essere estinte per quell’epoca. Anzi, saranno estinte senz’altro.» Sulla rete di Rombo le luci si mossero all’insù: un cenno di assenso. «Di conseguenza dovremo inventare per il messaggio un linguaggio simbolico o matematico. Chiedi al nostro buon amico Hek di escogitare qualcosa. Come radioastronomo coinvolto nella ricerca di intelligenze aliene lui è un esperto di comunicazione simbolica. Per usare un’espressione comune a entrambi i nostri popoli, questo progetto dovrebbe andargli a fagiolo.» Il ponte ribolliva di attività e c’era ancora un sacco di lavoro da fare. Jag e Hek, però, erano visibilmente assonnati. Benché non facessero i teatrali sbadigli per cui erano famosi gli umani, continuavano a dilatare ritmicamente le narici: una reazione fisiologica che aveva le stesse cause degli sbadigli. Per un attimo Keith pensò che lui avrebbe potuto resistere anche per tutta la notte: l’aveva fatto parecchie volte, ai tempi dell’università. Ma l’università risaliva a un quarto di secolo prima, e doveva ammettere di sentirsi esausto anche lui. «Pausa per la notte» disse, alzandosi dalla sedia. Mentre si allontanava dal computer, tutte le spie e gli indicatori si spensero. Rissa annuì e si alzò a sua volta. Insieme a lui si diresse verso una parete del ponte, celata dall’ologramma. Una porta si aprì rivelando il corridoio retrostante e i due la imboccarono andando verso gli ascensori. C’era una cabina che li attendeva: Phantom aveva provveduto a inviarla non appena erano entrati nel corridoio. Keith entrò, seguito da Rissa. «Ponte undici» ordinò, e Phantom emise un cinguettio d’assenso. Si girarono appena in tempo per vedere Lianne Karendaughter che arrivava di corsa dal corridoio. Ovviamente la vide anche Phantom, che tenne aperta la porta dell’ascensore fino al suo arrivo. Mentre entrava, Lianne sorrise a Keith, poi disse ad alta voce il numero del suo piano. Rissa tenne lo sguardo fisso sul monitor che mostrava la pianta del ponte che l’ascensore stava attraversando. Keith era sposato con Rissa da troppo tempo per non essere sensibile ai suoi messaggi inespressi: a Rissa non piaceva Lianne, non le piaceva che stesse così vicino a Keith, non le piaceva trovarsi con lei in uno spazio ristretto. L’ascensore cominciò a muoversi. Sul monitor le “braccia” del piano cominciarono a contrarsi. Keith fece un profondo respiro e capì, forse per la prima volta, che gli mancava il sottile sentore del profumo. Un’altra concessione a quei maledetti maiali e ai loro nasi ipersensibili. Profumo, acqua di colonia, dopobarba… tutto bandito a bordo della Starplex. Keith vide il viso di Rissa riflesso sullo schermo del monitor, notò la piega della sua bocca, vide la tensione, il dolore. Vide anche Lianne. Era più piccola di lui e i lucenti capelli biondi nascondevano parte del suo viso giovane ed esotico. Se fossero stati soli, Keith avrebbe chiacchierato, le avrebbe raccontato una barzelletta, avrebbe sorriso, forse le avrebbe perfino toccato un braccio per sottolineare un concetto. Lei era… viva. Parlare con lei gli dava nuove energie. Invece non disse nulla. L’indicatore del numero del ponte continuò il suo conto alla rovescia finché la cabina non si fermò con un sibilo al piano dell’appartamento di Lianne. «Buona notte, Keith» disse Lianne sorridendogli. «Buona notte, Rissa.» «Buona notte» le rispose Keith. Rissa si limitò a un secco cenno di saluto. Keith riuscì a seguirla con lo sguardo per alcuni secondi, prima che la porta si chiudesse. Non era mai stato nel suo appartamento. Si chiese come l’avesse arredato. L’ascensore salì per un altro po’, prima di fermarsi nuovamente. La porta si aprì e Keith e Rissa coprirono il breve percorso che li separava dal loro appartamento. Una volta dentro, Rissa si sfogò… e Keith avvertì nel suo tono qualcosa che gli fece capire come lei stessa disapprovasse ciò che stava dicendo. «Ti piace, vero?» Keith soppesò le possibili risposte. Aveva troppo rispetto per l’intelligenza di Rissa per tentare di sviare la discussione con un “chi?”. Dopo un attimo di esitazione, decise che la miglior politica era l’onestà. «È brillante, ha fascino, è bella e svolge bene il suo lavoro. A chi non piacerebbe?» «Ha ventisette anni» disse Rissa, come se fosse la più terribile delle offese. “Ventisette!” pensò Keith. “Be’, ecco come stavano le cose. Finalmente un numero concreto. Però… ventisette, accidenti.” Si tolse scarpe e calzini e si sdraiò sul letto lasciando i piedi all’aria. Rissa sedette sulla sponda opposta. Il suo viso era il ritratto di una persona che rifletteva freneticamente, come se stesse decidendo se era il caso di continuare sullo stesso argomento. Evidentemente decise di no, perché cambiò completamente discorso. «Oggi è venuto da me Carro Merci.» Keith piegò avanti e indietro le punte dei piedi. «Ah sì?» «Se ne va.» «Davvero? Ha avuto un’offerta migliore da qualcun altro?» Rissa scosse il capo. «La settimana prossima si scorporerà. Seicento anni fa è stata condannata a una pena pari a un sedicesimo della sua vita, perché ha fatto sprecare del tempo a un po’ di gente.» Keith rimase zitto per parecchi secondi. «Ah.» «Non sembri sorpreso» commentò Rissa. «Conoscevo questa procedura. Anche se l’ossessione degli ib per lo spreco di tempo mi è sempre sembrata pazzesca. Dopo tutto vivono per centinaia di anni.» «Per loro si tratta del normale arco di vita e non lo ritengono affatto eccessivamente lungo.» Una pausa. «Non puoi permettere che se ne vada così.» Keith allargò le braccia. «Non saprei come intervenire.» «Maledizione, Keith. L’esecuzione si svolgerà qui, sulla Starplex. Dovrebbe essere la tua giurisdizione.» «Sì, per ciò che riguarda la nave. Quanto al resto…» Alzò gli occhi al soffitto. «Phantom, quali poteri ho in questa faccenda?» “Secondo la giurisprudenza del Commonwealth, sei obbligato a riconoscere qualunque sentenza emanata dai singoli governi” rispose il computer. “La consuetudine ib di comminare pene pari a una porzione del tempo di vita è esplicitamente esclusa dalla sezione che riguarda punizioni abnormi e crudeli. Di conseguenza non hai il potere di interferire.” Keith allargò le braccia e guardò Rissa. «Mi spiace.» «Ma la sua colpa è piccolissima, insignificante.» «Hai detto che ha contraffatto qualche dato?» «Sì, quando ancora studiava. È stata una stupidaggine, sono d’accordo, però…» «Lo sai come la pensano gli ib a proposito degli sprechi di tempo, Rissa. Immagino che altri si siano fidati dei suoi risultati, giusto?» «Sì, ma…» «Ascolta, gli ib vengono da un pianeta perpetuamente coperto dalle nuvole. Dalla superficie non si possono vedere né stelle né lune, e il loro sole è una chiazza di nubi appena un po’ più brillante del resto. Nonostante questo, studiando le maree di quelle pozzanghere che da loro passano per oceani, sono riusciti a dedurre l’esistenza delle lune. Sono perfino riusciti a intuire l’esistenza degli altri pianeti e delle stelle, e tutto ciò prima di viaggiare oltre l’atmosfera. Sono arrivati con il ragionamento a conclusioni che per noi umani sarebbero state impossibili, accetto scommesse. Ed è soltanto perché vivono così a lungo che sono stati capaci di risolvere quegli enigmi: su un mondo simile, una razza a vita più corta non sarebbe mai arrivata a intuire l’esistenza di un universo esterno. Anche così, tuttavia, per arrivare a simili risultati dovevano essere certi di potersi fidare delle osservazioni fatte e dei risultati ottenuti da altri. Se qualcuno avesse cominciato a contraffare i dati, tutto sarebbe crollato.» «Ma dopo tutto questo tempo è impossibile che ciò che lei ha fatto interessi ancora a qualcuno. E poi… io ho bisogno di lei. Lei è importante per la mia squadra, ed è mia amica.» Keith allargò le braccia. «Cosa vorresti che facessi?» «Parlale. Dille che non è obbligata ad andarsene così.» Keith si grattò l’orecchio sinistro. «Va bene» disse infine. «Lo farò.» Rissa gli sorrise. «Grazie. Sono certa che lei…» L’intercom ronzò. “Colorosso per Lansing” disse una voce femminile. Franca Colorosso era la responsabile delle operazioni interne del turno delta. Keith piegò la testa verso l’alto. “Aperto. Sono Keith. Che c’è, Franca?” “Da Tau Ceti è uscito un watson. Portava notizie che credo dovresti ascoltare. In un certo senso sono notizie vecchie, inviate dal Sole a Tau Ceti via radio iperspaziale sedici giorni fa. Grand Central ce le ha ritrasmesse non appena sono arrivate.” “Grazie. Incanalale sul mio monitor privato.” “D’accordo. Chiudo.” Keith e Rissa si girarono entrambi verso la parete. Si trattava di un servizio del notiziario mondiale della BBC, letto da un indio-orientale che sfoggiava capelli grigio acciaio. “Non si allenta la tensione tra i due governi del Commonwealth” disse. “Da una parte le Nazioni Unite di Sole, Epsilon Indi e Tau Ceti, dall’altra il governo mondiale di Rehbollo. Voci di un ulteriore deterioramento della situazione si sono diffuse oggi in seguito al secco annuncio della chiusura di altre tre ambasciate di Rehbollo, a New York, Parigi e Tokyo. Dopo le quattro chiusure della settimana scorsa, restano ormai aperte nell’intero sistema solare soltanto le ambasciate di Bruxelles e di Ottawa. I membri del corpo diplomatico delle ambasciate chiuse oggi si sono già imbarcati su astronavi waldahud e sono attualmente diretti verso la scorciatoia di Tau Ceti.” Sull’inquadratura comparve il grugno di un waldahud. La scritta alla base dello schermo lo identificava come il plenipotenziario Daht Lasko em-Wooth. Parlava in inglese senza l’ausilio di un traduttore, una prodezza rara per un membro della sua razza. “Devo annunciare con grande dispiacere che necessità economiche ci costringono a partire. Come sapete, i sistemi economici di tutte le razze del Commonwealth sono stati sconvolti dall’inatteso sviluppo del commercio interstellare. La riduzione del numero delle ambasciate sulla Terra rappresenta dunque un semplice adeguamento alle necessità dei tempi.” Sullo schermo comparve una donna africana di mezza età, identificata come Rita Negesh, docente all’università di Leeds e specializzata nei rapporti politici Terra-Rehbollo. “Questa non me la bevo” disse. “Per quanto ne capisco io, Rehbollo sta richiamando i suoi ambasciatori.” “E questo a che cosa prelude?” domandò una voce maschile fuori campo. Negesh allargò le braccia. “Quando l’umanità mosse verso lo spazio, molti sapientoni si affrettarono a dichiarare che l’universo era così ricco e sconfinato che non esisteva possibilità materiale di conflitti interplanetari. La rete delle scorciatoie, però, ha cambiato tutto: ci ha imposto una vicinanza forzata con altre razze, forse prima che fossimo pronti ad accettarla.” “Con quali conseguenze?” domandò l’invisibile intervistatore. “Che se ci trovassimo di fronte a un… incidente, le conseguenze potrebbero non riguardare soltanto l’economia. Potrebbero coinvolgere un fatto molto più elementare: che umani e waldahudin si danno sui nervi a vicenda.” Il monitor a parete tornò a mostrare l’ologramma del lago Louise. Keith guardò Rissa lasciandosi sfuggire un lungo sospiro. «Un “incidente”» ripeté. «Be’, se non altro siamo tutti e due troppo vecchi per essere arruolati.» Rissa lo guardò a lungo senza pronunciare una parola. «Credo che non faccia differenza» disse alla fine. «Siamo già sulla linea del fronte.» 14 Per Keith era sempre un piacere andare in ascensore ai moli d’attracco. La cabina scese fino al ponte 31, quello più elevato dei dieci che costituivano il disco centrale, poi iniziò a muoversi in orizzontale lungo uno dei quattro raggi della ruota verso il bordo esterno del disco. I raggi però erano trasparenti, così come le pareti della cabina dell’ascensore e i pavimenti, in modo che i passeggeri dovessero solo abbassare lo sguardo per vedere il vasto oceano circolare. Keith notò le pinne dorsali di tre delfini che nuotavano appena sotto la superficie. Gli agitatori sulle pareti dell’oceano e lungo lo stelo centrale provocavano rispettabili onde dell’altezza di mezzo metro. I delfini le preferivano al mare calmo. Il ponte oceano aveva un raggio di 95 metri, ma Keith continuava a sorprendersi ogni volta che calcolava quanta acqua contenesse. Il soffitto era un ologramma in tempo reale del cielo della Terra, con candide nubi in movimento contro uno sfondo che aveva quella speciale punta di azzurro che toccava sempre il cuore di Keith. L’ascensore raggiunse infine la superficie dell’oceano e l’attraversò nei prosaici tunnel del toroide ingegneria. Raggiunse il bordo esterno del toroide e scese per nove livelli fino a raggiungere quello dei moli d’attracco. Keith scese e percorse a piedi il breve tratto fino all’entrata del molo 9. Non appena fu dentro vide Hek, lo specialista in comunicazione simbolica, e lo smilzo umano di nome Shahinshah Azmi che dirigeva il dipartimento scienze dei materiali. Tra i due c’era un cubo nero con spigoli lunghi un metro, poggiato su un piedistallo che lo portava all’altezza degli occhi. Keith li raggiunse. «Buona giornata, signore» disse l’educatissimo Azmi con voce incolore. Dai vecchi film Keith aveva scoperto quanto potessero essere musicali gli accenti indiani. Sentiva la mancanza della ricchezza e della varietà che le voci umane avevano avuto prima che le comunicazioni istantanee appiattissero ogni differenza. Azmi indicò il cubo. «Abbiamo costruito la capsula temporale con grafite composita e tracce di elementi radioattivi. È compatta, a eccezione del sensore iperspaziale autoriparante che l’aggancerà alla scorciatoia e del sistema di propulsione alimentato a luce stellare che aiuterà il cubo a mantenersi nelle sue vicinanze.» «E il messaggio per il futuro?» domandò Keith. Hek indicò uno dei lati del cubo. «L’abbiamo inciso sulle facce» disse, e i suoi latrati echeggiarono nel molo. «Come vedi, consiste in una serie di esempi in altrettanti riquadri. Comincia da qui. Due punti più due punti, uguale quattro punti: una domanda con la sua risposta. Il secondo riquadro, qui, ha due punti più due punti e un simbolo. Poiché qualunque simbolo sarebbe adatto allo scopo, abbiamo usato il punto interrogativo terrestre, ma senza il puntino sotto: potrebbe ingenerare confusione inducendo a credere che rappresenti due simboli anziché uno. Comunque, questo fornisce una domanda e una rappresentazione simbolica del fatto che manca la risposta. Il terzo riquadro mostra il simbolo dell’interrogativo, il simbolo che ho scelto per indicare il concetto di “uguale” e quattro punti, la risposta. Dunque il riquadro dice: la risposta alla domanda è quattro. È chiaro?» Keith annuì. «A questo punto abbiamo stabilito un vocabolario per dialogare» disse Hek. «Arriviamo quindi alla vera domanda.» Si spostò sulla faccia opposta del cubo, che portava anch’essa dei segni incisi. «Come vedi, qui ci sono due riquadri simili. Il primo rappresenta graficamente una scorciatoia dalla quale emerge una stella. E vedi questa linea, che rappresenta la scala di misura, e la serie di linee orizzontali e verticali al di sotto? Si tratta di una rappresentazione binaria del diametro della stella in unità pari al lato del riquadro, nel caso ci sia incertezza sul significato dell’immagine. Poi ci sono il simbolo che rappresenta l’uguaglianza e quello che rappresenta l’interrogativo. Ciò che intende dire è: “Scorciatoia con stella emergente uguale a cosa?”. E sotto ci sono il simbolo d’interrogativo, il simbolo di uguale e un ampio spazio vuoto: “La risposta alla domanda qui sopra è…”. Lo spazio significa che desideriamo una replica.» Keith annuì lentamente. «Brillante. Ottimo lavoro, signori.» Azmi indicò un’altra faccia del cubo. «Qui invece abbiamo inciso informazioni sui periodi e le posizioni relative di 14 pulsar. Se i futuri fabbricanti di scorciatoie… o chiunque troverà la capsula… disporranno di registrazioni astronomiche che risalgono indietro nel tempo fino a noi, saranno in grado di identificare l’esatto anno in cui il cubo è stato costruito.» «Inoltre» intervenne Hek «potranno ragionevolmente ritenere che la costruzione del cubo risalga a un periodo immediatamente successivo all’emersione della stella verde dalla scorciatoia… ed è probabile che sappiano a quale data hanno inviato la stella. In altre parole, avranno due modi indipendenti per determinare il periodo al quale inviare una risposta.» «Funzionerà?» domandò Keith. «Probabilmente no» rispose Azmi con un sorriso. «È soltanto una bottiglia lanciata nell’oceano. Non mi attendo nessun risultato, ma credo che valga la pena di fare il tentativo. Tuttavia, a quanto mi ha detto il dottor Magnor, se non otterremo una spiegazione valida e se contemporaneamente decideremo che le stelle sono una minaccia, potremmo usare la tecnica waldahud di appiattimento spaziale per fare evaporare le scorciatoie. C’è ovviamente la possibilità che le stelle comincino a sbucare da migliaia di uscite e in tal caso noi non potremmo fare granché per fermarle. Ma se loro sanno che abbiamo una certa capacità di interferenza, forse preferiranno risponderci piuttosto che vederci entrare in azione.» «Benissimo» disse Keith. «Ma che cosa useremo per rendere appariscente il cubo? Come faremo a essere certi che qualcuno lo troverà?» «Questa è la parte più difficile» abbaiò Hek. «Ci sono pochissimi modi per evidenziare un oggetto. Uno è quello di renderlo riflettente. Ma qualunque materia usassimo per la capsula, subirà dieci miliardi di anni di sfregamento da parte della polvere interstellare. Certo, si tratterebbe solo di qualche microscopico impatto per secolo, ma in un tempo così lungo l’effetto complessivo sarebbe comunque quello di un’abrasione che renderebbe opaca la superficie. «La seconda possibilità che abbiamo considerato è stata quella di fare una capsula temporale enorme, che attirasse l’attenzione; oppure massiccia, tanto da incurvare lo spaziotempo. Ma più grande è la capsula e più è probabile che sia distrutta da una collisione con un meteorite. «L’ultima possibilità era di farla rumorosa… per esempio di farle emettere una gran quantità di segnali radio. Questo però richiede una fonte di energia. Una soluzione ovvia c’è: abbiamo la stella verde qui vicino, e basterebbero dei semplici pannelli solari per ricavare elettricità dalla sua luce. La stella però possiede un considerevole moto proprio, relativamente alla scorciatoia: entro poche migliaia di anni sarà già a un anno luce di distanza, cioè troppo lontana per fornire energia in quantità significativa. Una fonte di energia interna, d’altronde, esaurirebbe il combustibile o vedrebbe decadere in piombo gran parte delle sue sostanze radioattive molto prima della data d’arrivo prevista.» Keith annuì. «Ma non hai detto che avreste sfruttato la luce stellare convertita in elettricità per alimentare il sistema di controllo della posizione?» «Sì, ma non resta energia per emissioni di nessun tipo. Siamo costretti a supporre che i fabbricanti di scorciatoie dispongano di rilevatori in grado di rintracciare comunque il cubo.» «E se non li hanno?» Hek mosse su e giù le due coppie di spalle. «Se non li hanno… il tentativo non ci sarà comunque costato granché.» «D’accordo, va bene così» decise Keith. «Questa è la capsula temporale autentica o è un prototipo?» «Noi la consideriamo un prototipo, ma nel realizzarla è andato tutto alla perfezione» disse Azmi. «Secondo me potremmo benissimo usare questa.» Keith si rivolse a Hek. «Tu che ne pensi?» Il waldahud emise un singolo latrato. «Sono d’accordo.» «Benissimo» disse Keith. «Come suggerite di lanciarla?» «La capsula in sé è equipaggiata soltanto con razzi Acs» rispose Azmi. «Ma non me la sentirei di mandarla là fuori da sola con quelle creature di materia oscura che sciamano nella zona: probabilmente sarebbe risucchiata dalla loro gravità. Abbiamo però notato che le sfere di materia oscura possiedono una certa mobilità, il che mi fa pensare che non rimarranno per sempre da queste parti. Ho programmato un normale rimorchiatore per condurre il cubo a una certa distanza da qui e riportarlo indietro fra un centinaio di anni, lasciandolo a una ventina di chilometri dalla scorciatoia. Da quel momento in poi, i razzi Acs della capsula temporale dovrebbero bastare per mantenerla nella stessa posizione, relativamente al punto d’uscita.» «Eccellente» approvò Keith. «È pronto anche il tubo guidamassa?» Azmi annuì. «E il lancio può essere effettuato da qui?» «Certo.» «Procediamo, allora.» I tre uscirono dal molo e salirono con un montacarichi fino alla sala di controllo, le cui vetrate ad angolo si affacciavano sull’hangar cavernoso. Azmi prese posto di fronte a una consolle e cominciò ad azionare comandi. Obbedendo ai suoi ordini, un piatto carrello che trasportava un rimorchiatore cilindrico si portò al centro dell’hangar. Braccia meccaniche provvidero poi ad agganciare il cubo alle ganasce situate sulla parte frontale del rimorchiatore. «Depressurizzazione del molo» disse Azmi. Tremolanti campi di forza a forma di pannello cominciarono a convergere verso il centro da tre delle quattro pareti, dal pavimento e dal soffitto, spingendo l’aria nel molo verso l’apertura rimasta, quella della quarta parete. Quando tutta l’aria fu raccolta e compressa all’interno di serbatoi, i campi di forza si spensero lasciando dietro di sé il vuoto. «Apertura della porta spaziale» disse Azmi, agendo su un altro comando. La convessa e segmentata parete esterna cominciò a scivolare nel soffitto. Si cominciò a vedere il buio esterno ma non le stelle, che erano cancellate dall’illuminazione interna del molo. Azmi premette altri pulsanti. «Attivazione dell’elettronica della capsula.» Quindi schiacciò il tasto che avviava una sequenza preprogrammata per l’emettitore di raggi trattori montato sulla parete posteriore del molo. Il rimorchiatore fu sollevato dal carrello, volò lungo l’hangar, oltrepassò la forma affusolata di un canotto di riparazione attraccato al molo e uscì nello spazio. «Accensione del rimorchiatore» disse Azmi. La parte posteriore del cilindro si accese del bagliore dei propulsori e in breve fu fuori vista. «Questo è tutto» commentò Azmi. «E adesso?» domandò Keith. Azmi si strinse nelle spalle. «Adesso possiamo dimenticarcene: o funzionerà o non funzionerà… e il secondo caso è il più probabile.» Keith annuì. «Eccellente lavoro, ragazzi. Grazie. È stato…» “Rissa per Lansing” disse una voce dagli altoparlanti. Keith guardò su. “Apro. Ciao, Rissa.” “Ciao, caro. Siamo pronti per il primo tentativo di comunicazione con le creature di materia oscura.” “Arrivo. Chiudo.” Rivolse un sorriso ad Azmi e a Hek. «Sapete una cosa? A volte il mio staff è fin troppo efficiente.» Keith attraversò il ponte di corsa e si mise a sedere al suo posto, al centro della fila posteriore. Ora la bolla olografica non era più riempita dal normale panorama dello spazio circostante, ma da cerchi rossi su uno sfondo biancastro: una mappa delle posizioni delle sfere di materia oscura. «Bene» esordì Rissa. «Ora tenteremo di comunicare con gli esseri di materia oscura usando segnali radio e luminosi. Abbiamo già inviato una speciale sonda che provvederà a trasmetterli. Si trova a circa otto secondi luce a tribordo della nave e la controllerò con segnali laser. È possibile ovviamente che le creature di materia oscura si siano già rese conto della nostra presenza, ma potrebbe anche non essere così. Nel caso dunque che si rivelino essere gli Sbattiporta, o qualcosa di altrettanto malvagio, ci è sembrato prudente concentrare la loro attenzione su una sonda sacrificabile piuttosto che sulla Starplex.» «Creature di materia oscura» ripeté Keith. «Solo a pronunciare questo nome mi si impasta la bocca. Ci sarà pure un modo migliore per definirle.» «Che ne dite di “oscuri”?» propose Rombo, servizievole come sempre. Keith rabbrividì. «Non è una buona idea.» Si concentrò per qualche secondo, poi alzò gli occhi e sogghignò. «Come vi sembra macho men?» Jag roteò tutti e quattro gli occhi ed emise un uggiolato di disgusto. «Come suona “matos”?» suggerì Thor. Rissa fece cenno di sì. «Vada per matos.» Poi continuò, rivolta a tutti i presenti. «Dunque, come già sapete, Hek ha catalogato i vari gruppi di segnali raccolti dai matos. Basandoci sull’ipotesi che ciascun gruppo fosse una parola, abbiamo identificato quello più utilizzato. E lo useremo come primo messaggio, ripetuto all’infinito. Riteniamo che sia una parola innocua, l’equivalente matos di “il” o qualcosa del genere, e la continua ripetizione priverà il messaggio di ogni eventuale contenuto informativo. Con un po’ di fortuna, però, i matos lo riconosceranno come un tentativo di comunicazione.» Si girò verso Keith. «Ho il permesso di procedere, direttore?» Keith sorrise. «Accomodati.» Rissa premette un tasto. «Trasmissione in corso.» La rete di Rombo lampeggiò. «Be’, qualche effetto l’ha avuto di sicuro» disse. «Il livello delle conversazioni è aumentato enormemente, sembra che stiano parlando tutti insieme.» Rissa annuì. «La nostra speranza è che facciano una triangolazione e individuino la sonda come sorgente dei segnali.» «Direi che l’hanno fatto» intervenne Thor un attimo più tardi, indicando lo schermo. «Cinque delle creature planetarie avevano cominciato a muoversi verso la sonda.» «Adesso viene il difficile» affermò Rissa. «Abbiamo ottenuto la loro attenzione, ma riusciremo a comunicare?» Keith sapeva che se qualcuno poteva farcela era proprio sua moglie. Rissa aveva fatto parte della squadra che aveva comunicato per la prima volta con gli ib. Quella volta il loro tentativo era iniziato con un semplice scambio di sostantivi: questo schema di luci significa “tavola”, quest’altro “suolo” e così via. C’erano state comunque diverse difficoltà. Il corpo degli ib era così diverso dalla forma bipede umana che per numerosi concetti non esisteva alcun concetto equivalente: alzarsi, correre, sedersi, sedia, vestiti, maschio, femmina… Inoltre, poiché gli ib erano sempre vissuti sotto una coltre di nubi perenni, c’erano innumerevoli altri termini che non potevano essere resi in lingua ibese: giorno, notte, mese, anno, costellazione… Parallelamente, gli ib avevano tentato di trasmettere concetti che nelle loro vite erano basilari: da gestalt biologica a visione onnicomprensiva, oltre a molti termini che descrivevano in modo particolareggiato il movimento su ruote. Ma quello sforzo era stato una passeggiata in confronto alla comunicazione con esseri di dimensioni planetarie. Gli ib infatti non avevano avuto difficoltà a comprendere certe metafore: era stato facile per loro accoppiare “divertente” con “cibo non nutriente”, per esempio, così come gli umani non avevano faticato a comprendere l’espressione ibese per indicare lo stesso stato d’animo: “pendio in discesa”. Comunicare con alieni grandi quanto Giove, che forse erano intelligenti o forse no, che forse avevano il senso della vista o forse no, che forse capivano i principi della fisica e della matematica o forse no, poteva rivelarsi un’impresa impossibile. «Le chiacchiere su tutte e duecento le frequenze continuano» avvertì Rombo. Rissa annuì. «Ma non c’è modo di sapere se sono conversazioni tra le sfere oppure risposte dirette a noi.» Toccò un altro pulsante. «Tenterò con un’altra parola matos quasi altrettanto frequente, ripetuta come prima.» Questa volta, la cacofonia radiofonica fu bloccata da un matos che, a quanto pareva, aveva zittito gli altri. Poi quello stesso matos ripeté più e più volte una semplice frase di tre parole. «Adesso dobbiamo tirare a indovinare» annunciò Rissa. «In che senso?» domandò Keith. «Be’, la prima domanda che noi faremmo in circostanze simili sarebbe: “chi siete?”. Con l’aiuto di Phantom, io e Hek abbiamo composto un segnale che segue le regole per costruire parole valide, ma che secondo le nostre osservazioni non è mai stato usato dai matos. Ci auguriamo che lo prendano per il nome della Starplex.» Rissa trasmise parecchie volte la parola costruita, ed ecco infine il primo passo avanti: la stessa sfera che aveva zittito le altre ripeté alla sonda la stessa parola. «In Spagna si è bagnata la campagna» borbottò Rissa sogghignando. «Chiedo mille volte scusa» disse Rombo. «Il mio traduttore deve essersi guastato.» Il sorriso di Rissa si allargò. «Non si è guastato. Ma ho idea che abbia capito: credo che abbiamo preso contatto.» Keith indicò il display. «Qual è che ci sta parlando?» Le corde danzarono sulla consolle di Rombo. «Quella» rispose, mentre un alone azzurro appariva intorno a uno dei cerchi rossi. Azionò altri comandi sulla sua consolle. «Ecco, permettimi di darti un’immagine migliore. Adesso che abbiamo la stella verde per l’illuminazione, possiamo ottenere buone inquadrature dei singoli matos.» Il cerchio rosso scomparve, sostituito da una versione in grigio su nero della sfera. «Non puoi aumentare il contrasto?» domandò Keith. «Con piacere.» Le zone della sfera che prima erano apparse grigie o fumose apparivano ora in una vasta varietà di sfumature, che arrivavano al bianco più candido. Keith la osservò con attenzione. Con il contrasto aumentato era comparsa una coppia di bianche linee di convezione verticali che andavano da polo a polo ed erano particolarmente luminose all’equatore. «L’occhio di un gatto» disse. Rissa annuì. «Gli assomiglia proprio, vero?» Toccò alcuni comandi. «D’accordo, Occhio di Gatto, vediamo quanto intelligente sei.» Una barra orizzontale nera apparve sulla bolla olografica: era lunga circa un metro e larga una quindicina di centimetri. «Quella barra rappresenta una serie di lampade a fusione sulla sonda» spiegò Rissa. «Finora le lampade sono rimaste sempre spente. E adesso, state a guardare.» Premette un pulsante sulla consolle. La barra nera diventò rosa shocking per tre secondi, tornò nera per tre secondi, due volte rosa in rapida successione, si oscurò per altri tre secondi, poi lampeggiò ancora tre volte. «Quando la barra è rosa, tutte le lampade a fusione sono accese» disse Rissa. «La sonda trasmette anche rumore radio quando le luci sono accese, mentre tace quando le luci sono spente. Ho sintonizzato gli altoparlanti del ponte sulla frequenza di trasmissione usata da Occhio di Gatto.» Gli altoparlanti erano silenziosi, ma Keith vide gli indicatori ammiccare sul pannello di Rombo: segno che c’erano comunicazioni su altre frequenze. Rissa attese per trenta secondi, poi toccò un tasto. L’intera sequenza si ripeté: un lampo, due lampi, tre lampi. Questa volta la risposta fu immediata: tre parole matos, che Phantom tradusse con tre schemi distinti di biip e tuut. «Bene» disse Lianne «se siamo fortunati questo è il modo matos di dire uno, due e tre.» «A meno che» disse Thor «non sia il modo matos per dire “che diavolo…?”» Rissa sorrise e premette di nuovo lo stesso tasto. La sonda emise ancora il suo “uno, due, tre”, e Occhio di Gatto rispose con le stesse tre parole. «Va bene» disse Rissa. «E adesso il vero test.» Premette un altro tasto e tutti videro la barra nera pulsare nella sequenza opposta: tre, due, uno. Il matos reagì con tre parole. Keith non ne era sicuro, però… «Tombola!» strillò Rissa. «Sono le stesse parole che Occhio di Gatto ha pronunciato prima, ma in ordine inverso. Capisce ciò che gli stiamo dicendo e dunque è intelligente, almeno in modo rudimentale.» Rissa ripeté la sequenza e questa volta Phantom fece sentire in corrispondenza le parole terrestri “tre, due, uno” pronunciate da una voce maschile con accento francese… evidentemente questo sarebbe stato lo standard per i matos. La squadra di turno sul ponte osservò in silenzio Rissa imparare le parole matos che indicavano i numeri dal 4 al 100. Né lei né Phantom individuarono un qualunque schema ripetitivo nella costruzione delle parole che permettesse di dedurre la base numerica usata dai matos: sembrava che ogni numero fosse rappresentato da una parola indipendente dalle altre. A cento si fermò, nel timore che il matos si annoiasse del gioco e smettesse di comunicare con lei. Passò quindi agli esercizi di aritmetica: due lampi, una pausa di sei secondi (il doppio del normale), altri due lampi, un’altra pausa di sei secondi e infine quattro lampi. Occhio di Gatto fornì ubbidiente le parole due, due e quattro, per le prime cinque ripetizioni della sequenza. La sesta volta, però, mostrò di avere capito il significato delle pause prolungate: indicavano la mancanza di una parola. Phantom non attese la conferma di Rissa, e quando Occhio di Gatto tornò a parlare tradusse la frase matos come “due più due uguale quattro”, aggiungendo alla sua banca dati i termini matos per gli operatori “più” e “uguale”. In breve Rissa ottenne le parole matos corrispondenti a “meno”, “per” , “diviso”, “maggiore di” e “minore di”. «Non ci sono dubbi» commentò Rissa con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. «Abbiamo a che fare con creature di grande intelligenza.» Keith scosse la testa, meravigliato, mentre Rissa continuava a usare la matematica per arricchire il suo vocabolario. Ben presto ottenne le parole matos per “esatto” e “scorretto” (o “sì” e “no”), che si augurava corrispondessero anche ai termini di “giusto” e “sbagliato” in altri campi. Chiese poi a Rombo di spostare la sonda in un certo modo (evitando con cura di innaffiare il matos con gli incandescenti gas di scarico dei motori Acs), e questo portò alle parole matos “su”, “giù”, “sinistra”, “destra”, “davanti”, “dietro”, “arretrare”, “avvicinarsi”, “svoltare”, “cadere”, “roteare”, “veloce”, “lento” e altre. Facendo muovere la sonda in una rotta che passava intorno a Occhio di Gatto, Rissa riuscì a ottenere la parola matos per “orbita”, e ben presto recuperò anche le parole “stella”, “pianeta” e “luna”. Usando filtri colorati sulle lampade a fusione della sonda, Rissa dedusse quindi i termini matos per le varie tinte. Passò quindi a trasmettere la sua prima semplice frase originale, cominciando con il nome assegnato arbitrariamente alla sonda portavoce della Starplex: “Starplex si muove verso la stella verde”. Chiese poi a Rombo di fare esattamente quanto annunciato. Occhio di Gatto comprese immediatamente, poiché rispose con la parola che significava “esatto”. Poi inviò una sua frase: “Occhio di Gatto si allontana dalla Starplex” e subito mise in atto l’affermazione. Rissa replicò trasmettendo: “esatto”. Quando il turno alfa giunse al termine, Keith andò nel suo appartamento per fare una doccia e cenare, ma Rissa restò al suo posto per tutta la notte, arricchendo sempre più il vocabolario di nuovi termini. Mai, nemmeno una volta, Occhio di Gatto mostrò il minimo segno di impazienza o di stanchezza. Quando arrivò l’ora di entrare in servizio per il turno gamma, Rissa aveva esaurito le energie e passò le consegne a Hek. I due lavorarono per quattro giorni, sedici turni, costruendo a poco a poco un vocabolario della lingua matos. Occhio di Gatto non manifestò mai alcun calo d’attenzione. Alla fine, a parere di Rissa, arrivarono al punto di poter affrontare una conversazione, sia pure elementare. Keith, in qualità di direttore, avrebbe controllato le domande, ma sarebbe stata Rissa a formularle. «Chiedigli da quanto tempo si trova qui» disse Keith. Rissa abbassò la testa verso lo stelo del microfono che emergeva dalla consolle. «Da quanto tempo sei qui?» La risposta arrivò immediatamente: «Da quando abbiamo iniziato a parlare, per cento per cento per cento per cento per cento per cento.» La voce di Phantom intervenne, con il risultato: “Cioè approssimativamente quattromila miliardi di giorni. Ovvero più o meno dieci miliardi di anni”. «È ovvio che potrebbe esprimersi in senso figurato» commentò Rissa. «Per indicare un tempo lunghissimo.» «Tuttavia» obiettò Jag «dieci miliardi di anni corrisponde in prima approssimazione all’età dell’universo.» «Be’, se ha davvero dieci miliardi di anni immagino che debba essere molto paziente» disse Thor, ridacchiando. «Forse puoi chiederglielo in un modo diverso» suggerì Lianne. «Tutti voi siete qui dallo stesso tempo?» disse Rissa nel microfono. «Questo gruppo, quella durata» disse la voce tradotta. «Questo uno, durata da quando abbiamo iniziato a parlare, per cento per cento per cento per cinquanta.» “Questo corrisponde approssimativamente a 500 mila anni” disse Phantom. «Forse intende dire che i matos in quanto gruppo hanno dieci miliardi di anni» ipotizzò Rissa «mentre lui come individuo ne ha soltanto mezzo milione.» «Soltanto» disse Lianne. «Adesso digli quanto vecchi siamo noi» suggerì Keith. «Intendi l’età della Starplex?» chiese Rissa. «O l’età del Commonwealth, oppure l’età delle nostre specie?» «Stiamo facendo un confronto di civiltà, direi» osservò Keith «quindi il confronto dovrebbe essere fatto con la più antica razza del Commonwealth.» Osservò il piccolo ologramma di Rombo. «Ovvero gli ib, che esistono nella loro forma attuale da circa un milione di anni, giusto?» La ragnatela di Rombo luccicò in segno di assenso. Rissa annuì e avvicinò la bocca al microfono. «Noi durata da quando abbiamo iniziato a parlare, per cento per cento per cento per cento. Questo uno durata da quando abbiamo iniziato a parlare per cento “più” cento.» Toccò l’interruttore. «Gli ho detto che come civiltà abbiamo un milione di anni, ma che la Starplex è nata soltanto due anni fa.» Occhio di Gatto replicò ripetendo il numero relativo alla sua età personale seguito dalla parola “meno”, poi pronunciò la formula della piccola età della Starplex aggiungendo la parola “uguale” e infine ripeté la stessa frase che aveva usato per indicare la sua età. «A grandi linee» disse Rissa «credo intenda dire che la nostra età non è nulla, paragonata alla sua.» «Be’, quanto a questo ha ragione» ammise Keith con una risata. «Mi chiedo come ci si senta a essere tanto vecchi.» 15 Era rarissimo che Keith entrasse in una delle zone ibesi della nave. La gravità veniva mantenuta a un livello pari al 41 per cento in più di quella terrestre (e il 72 per cento in più di quella standard della nave), e lui si sentiva come se pesasse 115 chili al posto dei soliti 82. Per brevi periodi riusciva a sopportarla, ma non era piacevole. In quelle zone i corridoi erano molto più ampi che nel resto della nave e le aree tra un ponte e l’altro erano più spesse, il che significava soffitti più bassi. Non tanto da doversi chinare, ma tendeva a farlo ugualmente. L’aria era calda e secca. Keith arrivò alla stanza che stava cercando, quella con la porta marcata con una matrice di luci gialle che formavano un rettangolo con due cerchietti sotto le estremità della base. Keith non aveva mai visto un treno con le ruote se non in un museo, ma il pittogramma gli ricordava ugualmente un vagone, un carro merci. Keith parlò all’aria: «Per favore, Phantom, falle sapere che sono qui.» Phantom fece un cinguettio, segno che l’aveva riconosciuto. Un attimo più tardi, presumibilmente con il consenso di Carro Merci, la porta rientrò nella parete. Gli appartamenti degli ib erano molto lontani dagli standard umani. Sulle prime apparivano esageratamente grandi, la stanza in cui Keith era entrato misurava otto metri per dieci. Poi però ci si rendeva conto che avevano esattamente le stesse dimensioni di tutti gli altri appartamenti della nave, solo che non erano suddivisi in zone separate per il sonno e per le abluzioni. Non c’erano sedie né letti, ovviamente, né c’erano tappeti: il pavimento era ricoperto di plastica dura. Sul loro mondo d’origine, nei tempi preindustriali, gli ib edificavano montagnole di terra dell’esatta grandezza necessaria per incastrarsi tra le loro ruote, come piedistallo per il telaio e per gli altri componenti quando le ruote si separavano temporaneamente dal corpo. Carro Merci aveva predisposto in un angolo della stanza l’equivalente di una di quelle montagnole, che costituiva l’intero mobilio della stanza. Le decorazioni delle pareti erano secondo Keith strane e sconcertanti: immagini a forma di arachidi che consistevano di varie inquadrature, spesso distorte, dello stesso oggetto da differenti punti di osservazione e sovrapposte luna all’altra. Non riuscì a capire che cosa rappresentassero quelle sulla parete più lontana, ma rimase scioccato quando osservò con attenzione quelle più vicine: erano studi di feti ed embrioni umani e waldahud, con arti appena abbozzati e strane teste traslucide. Carro Merci era una biologa, dopo tutto, e probabilmente la vita aliena la affascinava, ma la scelta di quei soggetti era sconcertante. Carro Merci, che si trovava dalla parte opposta della stanza, rotolò verso Keith. Era un vero stress subire l’avvicinamento di un ib da una certa distanza: avevano tutti l’abitudine di accelerare alla massima velocità per poi inchiodare a un paio di metri. Keith non aveva mai sentito di nessun umano spiaccicato, ma aveva sempre il timore di poter essere il primo. Le luci dell’ib lampeggiarono. «Dottor Lansing» disse. «È un piacere inaspettato. La prego, si accomodi… non ho sedie da offrirle, ma so che la gravità è troppo elevata qui. Si senta libero di appoggiarsi alla mia montagnola da riposo.» Una corda dondolò nella direzione della costruzione a forma di sella su un lato della stanza. Il primo pensiero di Keith fu di declinare l’offerta. Però… accidenti, era scomodissimo stare in piedi in quella gravità. Andò alla montagnola e vi si appoggiò di schiena. «Grazie» disse. Non sapeva da dove cominciare, ma di una cosa era sicuro: avrebbe offeso l’ib se avesse sprecato il suo tempo. «Rissa mi ha chiesto di parlarle. Dice che presto lei si scorporerà.» «Cara, dolce Rissa» commentò Carro Merci. «La sua preoccupazione è toccante.» Keith guardò la stanza, riflettendo. «Voglio che lei sappia» disse infine «che non è obbligata a scorporarsi, almeno fino a quando resterà a bordo della Starplex. L’intero equipaggio della nave è considerato de facto personale diplomatico: posso sistemare le cose in modo da garantirle l’immunità.» Guardò la creatura. Avrebbe voluto che avesse una faccia… o almeno due occhi normali, dei quali poter leggere l’espressione. «Il suo servizio è stato esemplare. Non c’è ragione per cui lei non debba continuare a prestarlo a bordo della Starplex fino al termine naturale della sua esistenza.» «Lei è gentile, dottor Lansing. Molto gentile. Io però devo essere onesta con me stessa. Cerchi di capire che, pur non avendo mai parlato con nessuno della mia futura scorporazione, sono ormai secoli che mi preparo ad affrontarla, sia mentalmente sia fisicamente. Ho programmato tutti gli eventi della mia vita per concludersi adesso: non saprei che farmene di altri quarant’anni.» «Potrebbe continuare le sue ricerche. Chissà, con un altro mezzo secolo di lavoro sul problema della senescenza, forse ce la farebbe. E a quel punto non dovrebbe morire mai più.» «Un’eternità di vergogna, dottor Lansing? Un’eternità di sensi di colpa? No, grazie. Sono inalterabilmente legata al corso d’azione prestabilito.» Keith rifletté per qualche istante sulle sue parole. Considerò rapidamente obiezioni e contro-obiezioni, nuove argomentazioni, nuove proposte, ma le scartò tutte. Non erano affari suoi e si sentiva a disagio. Alla fine annuì. «C’è qualcosa che io possa fare per renderglielo più facile? Ha bisogno di attrezzature speciali?» «Avrà luogo una cerimonia. In genere pochi ib vi partecipano, perché andarvi significa che il colpevole finisce per far sprecare loro altro tempo. Credo che soltanto i miei amici ib più stretti verranno. Di conseguenza non avrei bisogno di una sede molto ampia. Ma, poiché me l’ha chiesto, mi farebbe piacere usare per la cerimonia, se possibile, uno dei moli. E vorrei che, al termine, le mie parti componenti fossero eiettate nello spazio.» «Se è questo che desidera, ha il mio permesso.» «Grazie, dottor Lansing. Le sono davvero molto grata.» Keith fece un cenno di assenso e andò alla porta. Ripercorse il corridoio tiepido e tornò alle condizioni di STRESS dello stelo centrale. Di solito, quando passava da una zona ibese alla bassa gravità del resto della nave gli sembrava di galleggiare, si sentiva leggero come una piuma. Ma non questa volta. «Un impulso tachionico!» annunciò Rombo dalla postazione delle operazioni esterne. «C’è qualcosa in arrivo dalla scorciatoia. Un oggetto piccolo, al massimo di un metro di diametro.» “Con ogni probabilità un watson” pensò Keith. «Diamogli un’occhiata, Rombo.» In una zona dell’ologramma sferico comparve una cornice azzurra, nella quale c’era un ingrandimento telescopico dell’oggetto sbucato dalla scorciatoia. «Bentornato a casa!» esclamò Thor Magnor, con un largo sorriso. «Meglio che qualcuno faccia scendere Hek e Shanu Azmi» disse Keith. «Ci penso io» disse Lianne. Dopo un attimo aggiunse: «Arrivano subito.» Nel panorama stellato si spalancò una porta e lo specialista waldahud in comunicazioni aliene fece il suo ingresso sul ponte. Quasi simultaneamente si aprì dietro le sedie della galleria un’altra porta, dalla quale entrò Shami Azmi. Indossava pantaloni corti e aveva in mano una racchetta da tennis. Keith indicò l’immagine ingrandita: «Guardate che cos’è tornato» disse. Hek sgranò tutti e quattro gli occhi. «Ma questo è meraviglioso!» «Rombo» ordinò Keith «controlla che non ci siano trappole. Se è pulito, portalo con un raggio trattore al molo 6.» «Controllo eseguito… niente di sospetto. Lo aggancio con un raggio trattore.» «Appena sarà a bordo isolalo in un campo di forza.» «Lo farò, con rispetto.» «Vorrei che fosse arrivato la settimana scorsa» disse Azmi. «Perché?» domandò Rissa. «Mi avrebbe risparmiato tutto il lavoro che ho fatto per costruirlo.» Rissa scoppiò a ridere. «Shanu, Hek, vogliamo avviarci al molo 6?» suggerì Keith. «Anche a me piacerebbe dare un’occhiata» si affrettò a dire Rissa. Keith sorrise. «Si accomodi.» I quattro si trasferirono al molo d’attracco. Quando arrivarono osservarono l’oggetto oltre il velo del campo di forza. Hek era due metri a destra di Keith, Azmi subito dietro di lui, e Rissa era così vicina al marito che i loro gomiti si sfioravano. Il cubo venne spostato all’interno del locale da raggi invisibili. Non appena si posò a terra fu circondato da una bolla di forza, mentre un portello uscito dal soffitto chiudeva l’apertura verso lo spazio. I quattro attesero che l’aria nel molo tornasse alla giusta pressione, poi andarono a dare un’occhiata al cubo. Aveva resistito bene agli eoni. Sembrava che qualcuno ne avesse sfregato la superficie con una paglietta d’acciaio, ma tutti i segni incisi che rappresentavano le domande erano rimasti leggibili. Quasi subito si resero conto che Rombo aveva manovrato il cubo in modo tale da farlo appoggiare proprio sulla faccia con la risposta. «Phantom» disse Keith «ruota il cubo di un quarto di giro per farci vedere la faccia di sotto.» Alcuni raggi trattori manipolarono la capsula temporale. Nello spazio lasciato libero per la risposta c’erano simboli neri tracciati su uno sfondo bianco che sembrava in qualche modo incollato alla superficie del cubo. «Dèi» esclamò Hek. Rissa spalancò la bocca. Keith rimase immobile, come pietrificato. Nella parte alta dello spazio per la risposta c’era una serie di numeri arabi: 10-646-397-281 E sotto, in inglese, c’era scritto: MANDARE INDIETRO LE STELLE È UNA NECESSITÀ, NON UN’AZIONE OSTILE. SARÀ UN BENE PER TUTTI. NON DOVETE AVERNE PAURA. Ancora più giù, in caratteri un po’ più piccoli, c’era scritto KEITH LANSING. «Non ci credo» disse Keith. «Ehi, guardate» abbaiò Hek, chinandosi più vicino al cubo. «Non è così che si scrive quel carattere. O sbaglio?» Keith esaminò la scritta. La stanghetta discendente delle “u” minuscole si trovava sulla sinistra della lettera, anziché a destra. «Anche l’apostrofo di “un’azione” è rovesciato» osservò Keith. «E che ne dite della serie iniziale di numeri?» chiese Rissa. «Sembra un numero di identificazione personale» suggerì Keith. «No… un’espressione matematica, piuttosto» disse Hek. «Il risultato è… è… computer centrale?» “Meno 1314” disse la voce di Phantom. «No, dev’essere qualcos’altro» intervenne Rissa, scuotendo lentamente la testa. «Quando gli umani scrivono una lettera, quello è il punto in cui mettono la data.» «In che forma?» domandò Hek. «Prima l’ora, poi il giorno, poi il mese, poi l’anno? No, così non funziona. Potrebbe essere il contrario: il decimo anno e il seicentoquarantaseiesimo giorno, ma neppure questo ha senso, dal momento che nell’anno terrestre ci sono soltanto 400 giorni, o giù di lì.» «No» disse Rissa. «Il giorno non c’entra. Quello è l’anno. L’intero numero rappresenta l’anno: dieci miliardi seicentoquarantasei milioni trecentonovantasettemila duecentoottantuno.» «L’anno?» ripeté Hek. «L’anno» confermò Rissa. «Anno terrestre, dopo Cristo. Cioè cominciando a contare dalla nascita di Cristo, un profeta.» «Ma io ho visto un sacco di numeri scritti da umani» obiettò Hek. «Lo so che quando sono grandi li separate in gruppi, gruppi di tre cifre, mi sembra… il mio popolo preferisce gruppi di quattro cifre… Però credevo che usaste… come si chiama quel segno scritto in basso?» «Punto» rispose Rissa. «Usiamo i punti, o qualche volta le virgole.» La donna sembrava avere difficoltà a mantenere l’equilibrio: si avvicinò alla parete del molo e vi si appoggiò. «Ma… immagina un tempo così lontano nel futuro che l’inglese non sia più usato… un tempo nel quale siano trascorsi milioni o miliardi di anni da quando la nostra lingua è stata usata per l’ultima volta» fece un gesto verso Keith. «È possibile che ricordino male qualche particolare: le convenzioni per scrivere i grandi numeri, per esempio, o la grafia dell’apostrofo o magari da che parte si deve mettere la gambetta sporgente della u.» «Deve essere una contraffazione» disse Keith. «Se lo è, è perfetta» notò Azmi, che aveva in mano uno scanner portatile. «Abbiamo inserito nella struttura del cubo alcune sostanze radioattive a vita lunghissima. Adesso questo cubo ha un’età di dieci miliardi di anni terrestri, più o meno 900 milioni. L’unico modo per ingannare questo sistema di datazione sarebbe quello di fabbricare un finto cubo usando il giusto rapporto di isotopi per simulare l’età. Questo oggetto, però, è identico all’originale in ogni minimo dettaglio, a parte il decadimento radioattivo e l’abrasione superficiale.» «Ma il fatto di aver firmato il messaggio con il mio nome» obiettò Keith «non ti sembra un errore?» «Forse in qualche modo il tuo nome è rimasto associato a quello della Starplex» ipotizzò Hek. «Dopotutto sei il suo primo direttore. E, per essere sincero, noi waldahudin abbiamo sempre pensato che ti siano stati attribuiti meriti in eccesso. Forse quella non è una firma. Forse indica il destinatario, o un saluto, oppure…» «No» disse Rissa, con occhi sempre più sgranati. La voce le tremava per l’emozione. «No… viene da te.» «Ma è una follia» esclamò Keith. «Non è possibile che io sia ancora vivo fra dieci miliardi di anni.» «A meno che non ci sia di mezzo un effetto relativistico» disse Hek. «O l’animazione sospesa.» «Oppure…» disse Rissa, con la voce che ancora tremava. Keith la guardò. «Sì?» Ma Rissa si mise a correre verso l’uscita del molo. «Dove vai?» abbaiò Hek. «Da Carro Merci» gridò lei. «Voglio dirle che i nostri esperimenti sul prolungamento della vita avranno successo, oltre le nostre più ardite previsioni.» Zeta Draconis Vetro si rialzò dal prato di trifoglio. «Forse hai bisogno di un po’ di tempo per riprenderti» disse. «Tornerò tra poco.» «Aspetta» lo fermò Keith. «Voglio sapere chi sei. Chi sei “in realtà”.» Vetro si limitò a guardarlo con la testa inclinata. Keith si alzò in piedi a sua volta. «Ho il diritto di sapere. Ho risposto a tutte le tue domande. Adesso, per favore, rispondi almeno a questa.» «Va bene, Keith.» Vetro allargò le braccia. «Io sono te… Gilbert Keith Lansing… ma sono il te stesso del futuro. Non sai da quanto tempo mi spremevo le meningi per ricordare che cosa diavolo significasse quella G.» Keith lo guardava attonito. «Non può… questo non può essere vero. Non puoi essere me.» «Certo che posso» disse Vetro. «Anche se un po’ invecchiato, naturalmente.» Si toccò un lato della testa liscia e trasparente, poi emise la sua risata che sembrava uno scampanellio. «Hai visto? Ho perso tutti i capelli.» Keith socchiuse gli occhi. «Quanto è lontano il futuro da cui vieni?» «Be’, in realtà hai capito alla rovescia» disse Vetro con voce gentile. «Qui siamo nel “mio” presente. La domanda giusta è: quanto è lontano il passato da cui vieni “tu”?» Keith si sentì mancare la terra sotto i piedi. «Vuoi dire che questo non è il 2094?» «Duemila-novanta-quattro cosa?» «L’anno terrestre 2094… il 2094 dopo Cristo. Duemila e novantaquattro anni dopo la nascita di Cristo.» «Di chi? Aspetta… il computatore me l’ha appena ricordato. Fammi capire: io so qual è l’anno corrente a partire dalla creazione dell’universo, però… ah, ci sono. Nel tuo sistema questo è l’anno dieci miliardi seicentoquarantasei milioni trecentonovantasettemila duecentottantuno.» Keith indietreggiò di un passo. «Sei stato tu a rimandare indietro la capsula temporale.» «Esatto.» «Come ho fatto ad arrivare qui?» «Quando la tua scialuppa ha attraversato la scorciatoia, ti ho chiuso in un campo di stasi. Nell’universo il tempo è passato, ma non per te. Arrivati a quest’anno ho sbloccato la stasi. Non preoccuparti, però. Intendo rimandarti al tempo da cui vieni.» Si interruppe. «Ricordi quella nebulosa rosa che hai visto quando sei uscito dal portale? È ciò che rimane della stella chiamata Sole.» Keith spalancò gli occhi. «Non preoccuparti» lo tranquillizzò Vetro. «Nessuno si è fatto male quando il Sole si è trasformato in nova: era tutto stabilito dagli ingegneri. Vedi, quel tipo di stella non diventa nova in modo naturale: si limita a decadere in una nana bianca. Ma a noi piace riciclare. Così abbiamo soffiato sul fuoco e i suoi metalli sono andati ad arricchire la polvere interstellare.» Keith si sentiva stordito. «Come… come farai a restituirmi al mio tempo?» «Con la scorciatoia, è chiaro. I viaggi nel tempo verso il passato funzionano egregiamente, anche se non riusciamo a viaggiare nel futuro… è per questo che abbiamo dovuto lasciarti in stasi per dieci miliardi di anni. È stato il colmo dell’ironia scoprire che è il viaggio temporale in avanti, non quello all’indietro, a causare gli insolubili paradossi che lo rendono impossibile. Quindi potremo mandarti nell’esatto momento in cui sei partito. Stai tranquillo, per quanto lungo risulti alla fine il tempo che generosamente mi concedi, i tuoi amici non sentiranno la tua mancanza: arriverai a Tau Ceti esattamente all’ora in cui sei atteso.» «È incredibile.» Vetro si strinse nelle spalle. «È scienza.» «Magia» lo corresse Keith. Vetro ripeté il gesto di prima. «Non c’è differenza.» «Ma… ma se io e te siamo la stessa persona, se tu vieni davvero dalla Terra, allora perché hai pasticciato con la simulazione?» «Prego?» «La simulazione della Terra. Ci sono degli errori. Campi pieni di quadrifogli, che sono mutazioni piuttosto rare del trifoglio, e uccelli che non ho mai visto prima.» «Oh.» Uno scampanellio. «Errore mio. Ho ricavato la simulazione da alcune antiche registrazioni che avevo, ma probabilmente sono stato un po’ sciatto. Fammi controllare con il computatore… già, è colpa mia. È sì una simulazione perfetta della Terra, ma della Terra di 1,2 milioni di anni dopo la tua nascita. Se qualcosa ti è sembrato fuori posto, è solo perché nel tuo tempo non si era ancora evoluto. A pensarci bene non avresti nemmeno riconosciuto le costellazioni se io avessi fatto scendere la notte.» «Dio mio» esclamò Keith. «L’idea dell’evoluzione non mi aveva neppure sfiorato il cervello. Se tu sei dieci miliardi di anni più vecchio di me, allora… sei più vecchio di qualunque forma di vita terrestre del mio tempo.» Vetro annuì. «Nel tuo tempo, la vita si era evoluta sulla Terra per quattro miliardi di anni. Ma esistono ancor oggi forme di vita discese da quelle terrestri, e quelle sono il prodotto di “quattordici” miliardi di anni di evoluzione. Non crederai mai in che cosa si sono evolute le margherite… o gli anemoni di mare o i batteri della pertosse. Anzi, qualche giorno fa ho cenato proprio con qualcuno che si è evoluto dai batteri della pertosse.» «Stai scherzando.» «Niente affatto.» «Ma è incredibile…» «No. È solo questione di tempo. Di tanto, tantissimo tempo.» «E gli esseri umani? Continuano a moltiplicarsi, ad avere bambini? Oppure hanno smesso da quando è stato scoperto il sistema per prolungare la vita?» «No, l’umanità continua a evolversi e a mutare. I nuovi esseri umani, quelli che si sono evoluti negli ultimi dieci miliardi di anni, non si mescolano molto ai vecchi umani come me. Loro sono… diversi.» «Ma se tu sei me, come hai fatto a diventare così? Voglio dire, hai un corpo trasparente!» Vetro scrollò le spalle. «Tecnologia. Carne e sangue tendono a disgregarsi, questo è meglio. In effetti potrei riconfigurarmi in qualunque modo mi venga in mente. Adesso va di moda la trasparenza, ma io credo che un tocco di acquamarina dia un tono più classico. Non trovi?» 16 Rissa, Hek e il resto della squadra comunicazioni aliene continuarono a scambiare messaggi con il matos che avevano soprannominato Occhio di Gatto. La conversazione divenne sempre più sciolta a mano a mano che nuove parole si aggiungevano al database di traduzione, e che le vecchie parole venivano comprese più chiaramente. Quando Keith tornò sul ponte, trovò Rissa nel bel mezzo di quella che sembrava una conversazione filosofica con la gigantesca creatura. C’era il turno alfa in servizio, con una postazione vuota, quella delle operazioni esterne: Rombo era in giro a fare qualcos’altro e il suo incarico era stato affidato a un delfino che nuotava nella piscina installata sul lato di tribordo del ponte. «Non eravamo consapevoli della tua esistenza» disse Rissa nel microfono a stelo della consolle. «Sapevamo che doveva esserci una grande quantità di materia invisibile nel cosmo, a causa dei suoi effetti gravitazionali, ma non avevamo idea che fosse viva.» «Due tipi di sostanze» replicò il matos, con l’accento francese che Phantom gli aveva assegnato. «Sì» disse Rissa. Alzò lo sguardo e salutò Keith che stava sedendosi vicino a lei. «Non reagiscono identico» spiegò Occhio di Gatto. «Solo gravità uguale.» «È vero» confermò Rissa. La sfera olografica mostrava una immagine ritoccata di Occhio di Gatto di fronte alle due file di computer. «Tanti come noi» disse il matos. «Sì, la maggior parte della materia è fatta come voi» replicò Rissa. «Ignoro voi.» «Non sapevi della nostra esistenza?» «Insignificanti.» «Sapevi che parte del nostro tipo di sostanza era viva?» «No. Mai successo di cercare la vita “sui” pianeti. Siete così piccoli.» «Vorremmo stabilire una relazione con voi» annunciò Rissa. «Relazione?» «Per reciproco beneficio. Uno più uno uguale due. Voi più noi uguale più di due.» «Capito. Più della somma delle parti.» Rissa sorrise. «Esattamente.» «Relazione saggia.» «Avete una parola per coloro con i quali intrattenete relazioni di reciproco beneficio?» «Amici» rispose il matos, o almeno così Phantom tradusse la parola anche se era la prima volta che la riceveva. «Noi li chiamiamo amici.» «Noi siamo amici» disse Rissa. «Sì.» «Il tipo di sostanza di cui siete fatti… quella che noi chiamiamo materia oscura… è tutta vivente?» «No. Soltanto una piccola frazione.» «Tu però hai detto che la materia oscura vivente esiste da moltissimo tempo.» «Fin dall’inizio.» «Dall’inizio di cosa?» «Di… tutte le stelle insieme.» «Della totalità di tutto? Noi lo chiamiamo universo.» «Fin dall’inizio dell’universo.» «C’è un elemento interessante, qui» disse Jag sedendosi alla sinistra di Keith. «Ovvero l’idea che l’universo abbia avuto un inizio… L’ha avuto, è chiaro, ma come fa lui a saperlo? Chiediglielo.» «Com’era l’universo all’inizio?» domandò Rissa avvicinando la bocca al microfono. «Compresso» disse il matos. «Piccolo oltre il piccolo. Unico luogo, nessun tempo.» «L’atomo primordiale» commentò Jag. «Affascinante. Ed è corretto, ma mi domando come faccia una creatura simile a dedurlo.» «Comunicano per mezzo di onde radio» disse Lianne, girandosi dalla postazione delle operazioni interne per guardare in faccia Jag. «Probabilmente hanno fatto lo stesso ragionamento che abbiamo fatto noi, basandosi sulla radiazione cosmica di fondo e sullo spostamento verso il rosso delle emissioni radio delle galassie più lontane.» Jag sbuffò. Rissa intanto continuava il dialogo. «Ci hai detto che né tu personalmente, Occhio di Gatto, né questo gruppo di matos è neanche lontanamente così vecchio. Come fai a sapere che i matos sono sempre esistiti, fin dall’inizio?» «È necessario» rispose il matos. Jag emise un latrato per liquidare l’argomentazione. «Filosofia, non scienza» disse. «Desiderano crederlo, ecco tutto.» «Noi non esistiamo da un tempo così lungo» comunicò Rissa nel microfono a stelo. «Non abbiamo trovato nessuna prova dell’esistenza di vita, di qualunque tipo di vita purché fatta del nostro tipo di materia, che sia più antica di quattro miliardi di anni.» Phantom tradusse l’espressione temporale in una scala che il matos potesse comprendere. «Come già detto, voi siete insignificanti.» Jag abbaiò a Phantom. «Domanda: da che cosa deriva la traduzione “insignificante”?» «Dalla matematica» rispose il computer, usando la lingua appropriata in ciascun auricolare. «Abbiamo stabilito che la differenza tra 3,7 e 4,0 è “significativa”, mentre che la differenza fra 3,99 e 4,00 è “non significativa” o “insignificante”.» Jag guardò Rissa. «Dunque in questo contesto la parola potrebbe avere un valore differente. Potrebbe essere più metaforica… per esempio “ultimo arrivato” potrebbe essere reso con “non significativo”.» Thor si girò a mezzo e rivolse al waldahud un sogghigno. «Non ti piace l’idea di non essere nemmeno preso in considerazione, eh?» «Non essere rozzo, umano. Il fatto è che si deve essere molto cauti nel generalizzare l’uso di parole aliene. A parte questo, probabilmente lui si riferisce alla sonda che invia i segnali. Un oggetto di lunghezza inferiore a cinque metri può senz’altro essere definito insignificante.» Rissa annuì e parlò nel microfono. «Quando dici che siamo insignificanti, ti riferisci alle nostre dimensioni?» «Non alle dimensioni dell’oggetto parlante. Non alle dimensioni della parte che ha espulso l’oggetto parlante.» «Con buona pace di chi pensava di averlo fatto fesso» disse Thor con un sogghigno. «Sa perfettamente che la sonda viene da questa nave.» Rissa coprì con una mano il microfono, un gesto buono come un altro per indicare a Phantom che la trasmissione era momentaneamente interrotta. «Ritengo che non abbia importanza.» Tolse la mano e parlò di nuovo a Occhio di Gatto. «Siamo insignificanti perché non esistiamo da un tempo abbastanza lungo, in confronto a voi?» «Non questione di lasso di tempo; questione di tempo assoluto. Noi qui dall’inizio, voi no. Per definizione noi siamo significativi, voi no. È ovvio.» «Non sottoscrivo» disse Keith, in tono cordiale. «I bravi ragazzi non sono mai i primi, sono soltanto i migliori.» Rissa coprì il microfono e guardò suo marito. «Malgrado questo, penso che dovremmo tenerci alla larga dalla filosofia finché non saremo più sereni gli uni con gli altri. Non vorrei tappargli la bocca con una frase involontariamente offensiva.» Keith annuì. Rissa tornò a parlare nel microfono. «Immagino che ci siano altre comunità di matos.» «A miliardi.» «Avete contatti con loro?» «Sì.» «I vostri segnali radio non sono potenti e hanno frequenze vicine a quella della radiazione cosmica di fondo: non dovrebbero essere percepibili a grande distanza.» «Vero.» «Allora come fate a mantenere i contatti con le altre comunità matos?» «Radio-uno per le conversazioni locali. Radio-due per le comunicazioni tra comunità.» Lianne si girò verso Rissa. «Ho sentito bene? Sta dicendo che i matos sono trasmettitori naturali di segnali radio iperspaziali?» «Cerchiamo di scoprirlo» disse Rissa. Si chinò sul microfono. «Radio-uno viaggia alla stessa velocità della luce, giusto?» «Sì.» «Radio-due viaggia più veloce della luce, giusto?» «Sì.» «Cristo» esclamò Keith. «Se usano la radio iperspaziale, com’è che non abbiamo mai captato i loro segnali?» «Esiste un numero infinito di livelli iperspaziali quantistici» osservò Lianne. «Nessuna razza del Commonwealth dispone della radio iperspaziale da più di cinquant’anni, e l’intero Commonwealth utilizza soltanto ottomila livelli quantistici. È senz’altro possibile che le nostre scelte non abbiano incrociato quelle dei matos.» Tornò a guardare Rissa. «Le nostre radio iperspaziali hanno bisogno di una quantità enorme di energia. Vale la pena di insistere sull’argomento: magari usano una tecnica meno dispendiosa.» Rissa annuì. «Anche noi abbiamo un tipo di radio-due. Volete parlarci di come funziona la vostra?» «Dire tutto» rispose Occhio di Gatto. «Ma poco da dire. Si pensa in un modo, e il pensiero è privato. Si pensa in un altro modo, e il pensiero è trasmesso come radio-uno. Si pensa in un terzo modo, più faticoso, e il pensiero è trasmesso come radio-due.» Keith fece una risata. «È come chiedere a un essere umano di spiegare come fa a parlare: si parla, punto e basta. Sarebbe…» “Mi scusi se la interrompo, dottor Lansing” disse Phantom “ma mi aveva chiesto di ricordare a lei e alla dottoressa Cervantes l’appuntamento delle 14.00.” Keith impallidì. «Accidenti» disse. Poi si rivolse a Rissa. «È ora.» Lei annuì. «Phantom, riferisci a Hek di scendere qui per continuare la conversazione con Occhio di Gatto.» Non appena Hek arrivò, entrambi si alzarono dalla propria postazione e lasciarono la stanza. Keith e Rissa uscirono dall’ascensore e coprirono a piedi il breve tratto che li separava dalla torreggiante porta nera dove era dipinto in arancione fluorescente un gigantesco numero 20. Rientrando di lato, i chiavistelli fecero un rumore che era sempre sembrato vagamente familiare a Keith. Questa volta riuscì a ricordare perché: era lo stesso suono che facevano i fucili nei vecchi western quando venivano armati. Quasi tutte le porte della nave si aprivano suddividendosi in due pannelli che rientravano nelle pareti a destra e a sinistra. Questa invece, pur pesante com’era, era un pezzo unico e rientrava nella parete di sinistra: la sicurezza richiedeva che non ci fossero fessure o punti deboli nella chiusura. Rissa trattenne il respiro. Keith rimase a bocca aperta. C’erano oltre un centinaio di ib nel molo d’attracco, allineati in file ordinate… sembrava un parcheggio pieno di sedie a rotelle. «Phantom, quanti ce ne sono?» domandò Keith sottovoce. “Duecentonove, signore” rispose il computer. “La totalità delle bioentità integrate presenti sulla nave.” Rissa scosse lentamente la testa. «Mi aveva detto che soltanto gli amici più cari sarebbero intervenuti.» «Be’, quanto al fisico Carro Merci è uno schianto» disse Keith entrando nello stanzone. «Immagino che tutti gli ib qui a bordo la considerino una cara amica.» C’erano altri sei umani presenti, tutti membri dell’équipe scienze biologiche di Rissa. C’era anche un solitario waldahud, del quale Keith non ricordava il ruolo. Controllò l’orologio: le 13:59:47. Qualunque cosa fosse accaduta, non aveva dubbi che sarebbe iniziata in orario. “Grazie per essere venuti” disse la voce di Carro Merci nell’auricolare di Keith. L’uomo non ebbe difficoltà a individuarla: la sua rete era l’unica che lampeggiava. Quella scena aveva in sé qualcosa di lugubre. La traduzione di Phantom giungeva direttamente al nervo acustico sinistro di Keith, ma l’altro orecchio non udiva nulla… tuttavia, anche se la stanza fosse stata piena di ib urlanti il silenzio sarebbe comunque stato assoluto. Carro Merci in persona si trovava a quindici metri da Keith e Rissa. Di fronte alle piastre metalliche del portello esterno, però, Phantom proiettava un suo ologramma gigante in modo che tutti gli ib potessero vedere gli scintillii della sua rete. C’era qualcosa di strano: i fili della rete erano di un verde brillante. Keith non aveva mai visto nessuna rete ib di quel colore. Si girò per dirlo a Rissa, ma lei lo precedette. «Rappresenta una condizione di profonda emozione» disse. «Carro Merci è commossa dalla dimostrazione di solidarietà del suo popolo.» La rete di Carro Merci lampeggiò. La traduzione fu: «L’intero e le parti… uno solo e tutte loro. La gestalt ha risonanze su scala macroscopica e microscopica. Essa lega.» Era chiaro che Carro Merci si rivolgeva ai suoi compagni ib. Keith si disse che poteva al massimo sperare di intuire vagamente ciò che diceva… qualcosa sul fatto che appartenere alla comunità degli ib era stato per lei altrettanto significativo quanto essere lei stessa una comunità di parti. Keith andava fiero della sua disponibilità ad accettare gli alieni, malgrado i suoi litigi con Jag. Quella situazione, però, era un po’ troppo surreale per lui. Sapeva che avrebbe assistito alla morte di qualcuno, ma le emozioni che avrebbe dovuto provare non erano ancora salite in superficie. Rissa, invece, aveva l’aspetto di chi si sforza di trattenere le lacrime. Lei e Carro Merci dovevano essere state molto più vicine di quanto lui immaginasse. «La strada è sgombra» concluse Carro Merci. Rotolò ad alcune decine di metri di distanza dagli altri, portandosi al centro del molo. «Perché lo fa?» sussurrò Keith. Rissa scrollò le spalle, ma Phantom rispose in entrambi gli impianti auricolari: “Nel corso della scorporazione, i componenti… soprattutto le ruote… possono farsi prendere dal panico e cercare di legarsi ad altri ib. È quindi d’uso spostarsi abbastanza lontano per avere il tempo di reagire in modo opportuno, se ciò si verificasse”. Keith fece un lieve cenno di assenso. Fu allora che cominciò. Al centro del molo si trovava una normale montagnola da riposo ib. Carro Merci vi rotolò sopra, in maniera tale da usarla come sostegno per il telaio. La rete, visibile nell’ologramma gigante generato da Phantom, assunse un color porpora elettrico, un’altra sfumatura che Keith non aveva mai visto prima. I puntini di luce sulle innumerevoli intersezioni della rete divennero sempre più luminosi, un’affollata mappa stellare nella quale ogni astro era una nova. Poi, una dopo l’altra, le luci si affievolirono e si spensero. Occorsero un paio di minuti perché tutte si oscurassero. Il telaio di Carro Merci s’inclinò in avanti e la rete scivolò sul pavimento del molo e vi si adagiò scompostamente. Keith aveva pensato che la rete fosse già morta, quando la vide inarcarsi bruscamente come se qualcosa l’avesse colpita da sotto. Ormai i fili avevano perduto tutto il colore, sembravano robusti fili di nylon simili a quelli delle canne da pesca. Dopo un attimo la rete spirò, crollando in un mucchio inerte. Ora Carro Merci era cieca e sorda (un tempo aveva posseduto anche un senso basato sul magnetismo, ma le era stato estirpato con la nanochirurgia quando aveva lasciato il suo mondo natale: provocava gravi disorientamenti a bordo delle navi spaziali). Poi le ruote di Carro Merci si staccarono dagli assi del telaio. Lo sganciamento delle ruote, di per sé, non era insolito. Il sistema che consentiva al nutrimento di passare dall’asse alle ruote, infatti, non forniva loro cibo a sufficienza e le costringeva, nel loro ambiente naturale, a separarsi periodicamente dal resto della gestalt per cercare nutrimento. Grossi tentacoli, simili alle corde di manipolazione del fascio, venivano estroflesse dai lati delle ruote per tenerle in equilibrio (o, se cadevano, per raddrizzarle). Quasi immediatamente dopo la separazione, la ruota sinistra cercò di riagganciarsi al telaio. E quando si accorse che lungo tutta la circonferenza dell’asse erano spuntati bitorzoli che le impedivano di ricongiungersi, proprio come aveva detto Phantom venne presa dal panico. Rotolò avanti e indietro nel molo, mentre i tentacoli estroflessi si estendevano e si ritiravano a ritmo frenetico. La ruota era dotata di sensori visuali propri e non appena ebbe sentore della vasta adunata di ib si diresse in linea retta verso il più vicino. L’ib fece una giravolta, evitando la ruota. Uno degli altri… a Keith sembrò che si trattasse di Farfalla, l’unico medico ib a bordo… le si parò davanti, impugnando con una corda manipolatoria uno storditore medico nero e argento. Lo storditore toccò la ruota ed essa cessò di muoversi. Rimase ritta per alcuni secondi, poi le appendici simili a radici che le spuntavano dai fianchi diventarono molli e la ruota cadde di fianco. Keith riportò lo sguardo verso il centro del molo. Il fascio di Carro Merci era caduto per terra, accanto alla rete di sensori, e le sue corde si stavano allungando verso il telaio per staccare la pompa azzurra dal verde baccello centrale, depositandola quindi con gentilezza sul pavimento. Keith vide l’ampio orifizio respiratorio centrale della pompa ripetere la consueta sequenza in quattro fasi: aperto, allungato, compresso e chiuso. Dopo una quarantina di secondi, però, la sequenza cominciò a incepparsi, mentre la pompa sembrava perdere cognizione di ciò che stava facendo. I movimenti dell’orifizio diventarono confusi: si apriva, poi si comprimeva di colpo, o tentava di allungarsi dopo essersi chiuso. Si udì un sommesso ansito, l’unico suono nell’intera sala, e infine la pompa smise di muoversi. Tutto ciò che rimaneva era il baccello, appoggiato al telaio a forma di sella. Keith mormorò a Rissa: «Quanto può sopravvivere il baccello senza la pompa?» Rissa si girò a guardarlo, con gli occhi umidi. Li chiuse e li riaprì diverse volte per scacciare le lacrime. «Un minuto» disse infine. «Forse due.» Keith le prese una mano fra le sue e la strinse. Per circa tre minuti regnò una calma assoluta. Il baccello spirò con serenità, senza rumori né movimenti… ma in qualche modo gli ib avvertirono il momento esatto della dipartita e, tutti contemporaneamente, cominciarono ad avviarsi verso il retro dell’hangar. Tutte le reti erano buie, non una parola venne scambiata tra loro. Keith e Rissa furono gli ultimi ad andarsene. Entro breve sarebbe tornato Farfalla, Keith ne era al corrente, per provvedere a lanciare nello spazio i resti di Carro Merci. Mentre con Rissa usciva dal molo, Keith pensava al proprio futuro. A quanto pareva sarebbe vissuto a lungo, molto a lungo. Si chiese se con miliardi di anni alle spalle sarebbe riuscito a sfuggire agli errori del proprio passato. Quella notte non riuscirono a dormire, ovviamente. La morte di Carro Merci aveva sconvolto Rissa, e Keith era alle prese con i suoi demoni personali. Giacquero a fianco a fianco nel letto, con gli occhi aperti, Rissa intenta a fissare il soffitto scuro, Keith concentrato sulla tenue macchia rossa creata dalla luce che filtrava intorno alla plasticarta che copriva l’orologio. Rissa parlò, pronunciando un’unica parola. «Se…» Keith si girò a pancia in su. «Scusa?» Lei rimase zitta per un po’. Keith era sul punto di sollecitarla di nuovo a parlare, quando lei disse, a voce bassissima: «Se hai dimenticato come si scrivono la u e l’apostrofo, ti ricorderai di me… ti ricorderai di noi?» Si girò su se stessa e lo guardò. «Tu vivrai per altri dieci miliardi di anni. Non voglio nemmeno provare a comprenderlo.» «È… confonde la mente» ammise Keith, scuotendo la testa appoggiata al cuscino. Anche lui rimase in silenzio per un po’. Poi disse: «La gente ha sempre fantasticato sulla vita eterna. In un certo senso, la parola “eterno” intimidisce meno di una data specifica. L’immortalità la posso capire, ma la precisa informazione che sarò ancora vivo fra dieci miliardi di anni mi sembra del tutto priva di senso.» «Dieci miliardi di anni» ripeté Rissa, scuotendo la testa. «Il sole della Terra sarà morto da tempo, la Terra stessa sarà morta.» Un tonfo. «Io sarò morta.» «Forse. O forse no. Se la spiegazione è il prolungamento della vita, allora certamente all’origine ci sono i tuoi studi qui sulla Starplex. Se così non fosse, perché proprio io dovrei aver beneficiato del processo? Forse saremo vivi entrambi, fra dieci miliardi di anni.» Silenzio. «Insieme?» sbottò Rissa, alla fine. Keith espirò rumorosamente. «Non lo so. Non ho nessuna previsione da fare in questa faccenda.» Capì che le aveva dato la risposta sbagliata. «Però… se dovrò affrontare un futuro così lungo, vorrei che fosse con te.» «Davvero?» disse Rissa d’un fiato. «Che cosa rimarrebbe da esplorare, da imparare l’uno dell’altro dopo tutto quel tempo?» «Forse non si tratta di un’esistenza fisica» suggerì Keith. «Forse la mia coscienza sarà trasferita in una macchina. Non c’era una setta, a New New York, che voleva fare una cosa simile? Copiare i cervelli umani nei computer? Oppure… forse l’intera umanità è diventata un’unica mente gigantesca, nella quale è però ancora possibile rintracciare le personalità originarie. Sarebbe…» «Sarebbe meno spaventoso che non l’idea di essere ancora vivo come individuo fra dieci miliardi di anni. Nel caso che tu non abbia ancora fatto il conto, ti informo che finora hai vissuto appena due centesimi di milionesimo dell’età che raggiungerai.» Fece una pausa e sospirò. «Che c’è?» chiese Keith. «Niente.» «No, c’è qualcosa che ti ha fatto arrabbiare.» Rissa rimase in silenzio per una decina di secondi. «Be’ è solo che non è facile convivere con la tua attuale crisi della mezza età. Non mi auguro certo di assistere alle tue mattane quando passerai i cinque miliardi di anni.» Keith rimase senza parole. Alla fine trovò il fiato almeno per ridere, ma la risata gli sembrò vuota, forzata. Ancora silenzio, durò così tanto da fargli pensare che Rissa si fosse finalmente addormentata. Lui non ci sarebbe riuscito. Non ancora, non con quei pensieri che gli turbinavano nella testa. «Dulcinea?» sussurrò, cercando di tenere la voce abbastanza bassa da non svegliarla, se lei fosse stata già addormentata. «Mmm?» Keith deglutì. Forse avrebbe fatto meglio a non introdurre l’argomento, tuttavia… «Tra poco sarà il nostro anniversario.» «La settimana prossima» disse la voce nel buio. «Sì» confermò Keith. «Arriveremo giusto a vent’anni, e…» «Venti “meravigliosi” anni, amore. Si dà per scontato che tu inserisca sempre l’aggettivo.» Un’altra risata forzata. «Scusa, hai ragione. Venti meravigliosi anni.» Fece una pausa. «E in quel giorno abbiamo deciso di rinnovare i nostri voti nuziali.» Nella voce di Rissa si avvertì una punta di gelo. «Sì?» «Niente, niente. Fai finta che non abbia parlato. Sono stati davvero venti anni meravigliosi.» Nel buio Keith scorgeva a malapena il suo volto. La vide annuire, poi fissarlo, cercare gli occhi di lui e sforzarsi di guardare al di là di essi, di vedere la verità, di cogliere ciò che lo turbava. Poi arrivò la comprensione e lei si girò su un fianco dandogli le spalle. «Non ho obiezioni» disse infine. «Su che cosa?» E lei pronunciò le ultime parole che si scambiarono quella notte. «Non ho obiezioni» disse «se non vuoi dire “finché morte non ci separi”.» Keith era seduto alla sua postazione sul ponte. Oltre il bordo del monitor galleggiavano gli ologrammi di tre umani e di un delfino. Con la coda dell’occhio notò una delle porte del ponte aprirsi per fare entrare Jag, con il suo passo ondeggiante. Il waldahud non andò però alla sua postazione. Si fermò invece davanti a quella di Keith e attese, con un’espressione che denunciava una certa agitazione, che Keith terminasse la conferenza in corso con le teste olografiche. Dopo che li ebbe congedati, il direttore guardò Jag. «Come sai, i matos sono in movimento» disse Jag. «Anzi, per dirla con franchezza, la loro agilità mi appare sorprendente. Sembrano lavorare insieme: ogni sfera indirizza verso le altre le sue forze, gravitazionale e repulsiva, per cooperare nello spostamento dell’intera comunità. Nel farlo, però, si sono completamente riconfigurate, in modo tale che i matos che prima non riuscivamo a vedere con chiarezza sono adesso alla periferia dell’assembramento. Ho fatto qualche previsione su quale sarà il prossimo matos che si riprodurrà, e mi piacerebbe mettere alla prova la mia teoria. Ecco perché ti chiedo di spostare la Starplex dall’altra parte del campo di materia oscura.» «Phantom, dammi uno schema dello spazio locale» disse Keith. A mezz’aria tra Keith e Jag apparve una rappresentazione olografica. I matos si erano spostati dirigendosi verso il lato opposto della stella verde, cosicché la Starplex, la scorciatoia, la stella e la comunità dei matos si trovavano grossomodo lungo una linea retta. «Se ci spostiamo sul lato opposto della comunità dei matos perderemo di vista la scorciatoia» osservò Keith. «Rischieremmo di perdere l’arrivo di un Watson. Non potresti mandare laggiù una sonda?» «La mia previsione si basa su limitatissime concentrazioni di massa. Avrò bisogno degli iperscopi del ponte uno o del ponte settanta per compiere le osservazioni necessarie.» Keith esaminò le alternative. «Va bene.» Premette un tasto sulla consolle e dal nulla sbucarono i soliti ologrammi di Thor e Rombo. «Rombo, per favore controlla i tempi di chi sta facendo osservazioni esterne. Scopri quale sarà il primo momento in cui potremo spostare la nave senza interrompere il loro lavoro. Thor, in quel momento portaci sul lato opposto del campo di materia oscura, nella posizione di cui Jag ti fornirà le coordinate.» «Svolgere il proprio servizio è il piacere più grande» disse Rombo. «Okay, capo» disse Thor. Jag mosse su e giù la testa, imitando il gesto umano. I waldahudin non dicono mai grazie, ma a Keith parve che il maiale fosse smodatamente compiaciuto. 17 Il ponte era tranquillo, le sei postazioni fluttuavano serene nella notte olografica. Erano le 05:00, tempo della nave. Mancava solo un’ora alla fine del servizio del turno delta. Il ruolo di direttore era assegnato all’ib di nome Bicchiere da Vino; altri ib occupavano le postazioni delle operazioni interne e del Timone. Le scienze fisiche erano assegnate a distanza a un delfino di nome Anguria Scavata, alle scienze biologiche c’era un waldahud e alle operazioni esterne un’umana di nome Denna Van Hausen. Una griglia di schermi di forza si irradiava verso il basso dal soffitto invisibile, creando tra le varie stazioni millimetrici strati di vuoto che impedivano la trasmissione del rumore. L’ib alle operazioni interne era impegnato in una conferenza olografica con le miniature fluttuanti di altri tre ib e con le teste senza corpo di tre waldahud. L’umana alle operazioni esterne stava leggendo un romanzo sul monitor. All’improvviso i campi silenziatori scomparvero e cominciò a risuonare un allarme. “Astronave non identificata in avvicinamento” annunciò Phantom. «Laggiù!» esclamò Van Hausen, indicando l’immagine della stella vicina. «È appena uscita da dietro la fotosfera.» Phantom mostrava la nave sconosciuta come un triangolino rosso; il vero velivolo era di gran lunga troppo piccolo per essere visibile a quella distanza. «C’è qualche possibilità che sia solo un watson?» domandò Bicchiere da Vino in un accento britannico con sfumature cockney. «No» rispose Van Hausen. «È grande almeno quanto una delle nostre sonde.» Sulla ragnatela di Bicchiere da Vino brillarono alcune luci. «Diamogli un’occhiata» disse. L’ib alla postazione del Timone fece ruotare leggermente la nave, in modo che le ottiche a schiera del ponte 70 fossero dirette verso l’intruso. Apparve un contorno quadrato che si sovrapponeva in parte alla stella e al suo interno c’era un’immagine ingrandita. La nave in avvicinamento era illuminata su un lato dalla stella verde. L’altro lato era una silhouette nera, visibile soltanto perché eclissava le stelle sullo sfondo. Bicchiere da Vino parlò a Kreet, il waldahud alla sua destra. «Sembra un progetto waldahud, con quel bozzolo-motore centrale, no?» I waldahudin credevano che ogni nave, proprio come gli edifici e i veicoli, dovesse essere unica: non producevano niente in serie, sulla base dello stesso progetto. Kreet sollevò tutte e quattro le spalle. «Forse» disse. «Qualche segnale dal radarfaro, Denna?» domandò Bicchiere da Vino. «Se ce ne sono» rispose l’umana «si confondono nel rumore della stella.» «Cerca di contattare la nave, per favore.» «In trasmissione» disse Denna. «Ma sono ancora a più di 50 milioni di chilometri, ci vorranno quasi sei minuti per un’eventuale risposta e… Dio mio!» Una seconda nave sbucò dal margine della stella verde. Era simile alla prima, quanto a grandezza, ma aveva un profilo diverso, più squadrato. Mostrava però anche il marchio di fabbrica waldahud, il bozzolo-motore centrale. «È meglio chiamare Keith» disse Bicchiere da Vino. Una serie di luci increspò la rete dell’ib alle operazioni interne. «Direttore Lansing, sul ponte!» «Cerca di contattare anche la seconda nave» disse Bicchiere da Vino. «Lo sto facendo» replicò Van Hausen. «E… Cristo, cercherò di contattare anche la terza!» Un’altra nave, per metà fuoco smeraldino riflesso dal metallo lucido e per metà più nera del nero, stava emergendo da dietro la stella. Un attimo più tardi apparvero la quarta e la quinta. «È un’armata, dannazione» esclamò Van Hausen. «Sono chiaramente navi waldahud» disse Anguria Scavata dalla vasca a sinistra della postazione scienze fisiche. «Gli scarichi dei propulsori sono una firma inconfondibile.» «Ma che ci fanno qui cinque… sei, “otto”… otto vascelli waldahud?» domandò Bicchiere da Vino. «Denna, dove sono diretti?» «Seguono una rotta parabolica intorno alla stella» rispose l’umana. «È difficile valutare con certezza dove abbiano intenzione di arrivare, ma l’attuale posizione della Starplex è a otto gradi dal progetto di rotta più probabile.» «È a noi che puntano» disse Anguria Scavata. «Dobbiamo…» Nell’ologramma comparve una porta e sul ponte fece irruzione un Keith Lansing non rasato, con i capelli ancora scomposti dal sonno. «Mi spiace di averti svegliato così presto» disse Bicchiere da Vino, allontanandosi sulle sue ruote dalla postazione del direttore «ma abbiamo compagnia.» Keith annuì all’ib, e attese che emergesse una multisedia dalla botola davanti alla sua consolle. Si era già plasmata per metà sulla conformazione umana mentre risaliva dal pavimento. Keith sedette. «Avete provato a contattarli?» «Sì» rispose Denna. «Ma anche la più rapida delle risposte non può arrivare prima di… 48 secondi.» «Sono navi waldahud, giusto?» s’informò Keith, mentre la sua postazione risaliva all’altezza da lui preferita. «È probabile» confermò Bicchiere da Vino. «Anche se, ovviamente, le navi waldahud sono vendute in tutto il Commonwealth. Ai comandi potrebbe esserci chiunque.» Keith si strofinò gli occhi per scacciare il sonno. «Come hanno fatto così tante navi ad arrivare senza che ce ne accorgessimo?» «Devono essere emerse una alla volta dalla scorciatoia mentre la nostra visuale era bloccata dalla stella verde» rispose Bicchiere da Vino. «Accidenti, ma certo» disse Keith. Consultò lo schema che riportava i nomi di chi si trovava alle varie postazioni. «Doppio Punto, fai venire qui Jag.» L’ib alle operazioni interne sferzò con le sue corde il pannello di comando e, dopo un attimo, disse: «Jag ha dirottato le comunicazioni per lui a una casella vocale. È il suo periodo di sonno.» «Sovrapponiti» ordinò Keith. «Fallo venire qui immediatamente. Denna, ci sono risposte ai nostri messaggi?» «No.» Keith lanciò uno sguardo agli orologi digitali luminosi che fluttuavano nel campo stellare. «È quasi ora del cambio di turno, comunque» disse. «Fate venire il turno alfa al completo» ordinò. «Turno alfa, immediatamente a rapporto sul ponte» disse Doppio Punto. «Lianne Karendaughter, Thorald Magnor, Rombo, Jag e Clarissa Cervantes sul ponte, per favore.» «Grazie» disse Keith. «Denna, apri un canale con tutte le navi in avvicinamento.» «Fatto.» «Parla G.K. Lansing, direttore del vascello di ricerca del Commonwealth Starplex. Dichiarate le vostre intenzioni, prego.» «Sto trasmettendo» lo informò Denna. «Hanno già ridotto considerevolmente la distanza da noi. Se intendono rispondere a questo ultimo messaggio, avremo una replica fra tre minuti.» Una porta si aprì nel punto dell’ologramma che mostrava l’ingrandimento incorniciato della nave in avvicinamento. Jag fece il suo ingresso, la pelliccia non ancora spazzolata. «Che guaio c’è?» chiese. «Forse nessuno» rispose Keith «ma otto navi waldahud si stanno avvicinando alla Starplex. Sei al corrente del motivo?» Le quattro spalle oscillarono su e giù. «Non ne ho idea.» «Rifiutano di risponderci, e…» «Ho detto che non ne ho idea.» Jag fece dietro front e scrutò l’ologramma nel punto in cui si trovava la porta. I quattro occhi cominciarono a muoversi in modo indipendente: ognuno osservava una nave diversa. «Che tipo di navi sono?» domandò Keith. «Ricognitori?» «Sarebbero della grandezza giusta» disse Jag. «Quanto numerosi sono i loro equipaggi?» «Le navi stellari non sono il mio campo» rispose Jag. Keith guardò il waldahud alla postazione delle scienze biologiche. «Tu, laggiù… Kreet, giusto? Quante persone ci sono a bordo di quelle navi?» «Sei, mi sembra» rispose Kreet. «No, di più.» Due delle quattro porte del ponte si aprirono contemporaneamente: dalla prima entrò Thorald Magnor, dalla seconda Rissa Cervantes. L’ib e il waldahud cedettero loro le postazioni del Timone e delle scienze biologiche. «Otto navi si stanno avvicinando alla Starplex» comunicò Keith a Rissa e a Thor. Rissa annuì. «Phantom ci ha fatto un riassunto mentre eravamo per strada. Però nessuna avrebbe dovuto attraversare la scorciatoia senza il nostro preventivo assenso.» La donna era in piedi di fronte alla sua consolle, in attesa che la sedia si riconfigurasse. «Forse sono arrivate qui per sbaglio» disse Thor, premendo alcuni tasti della sua consolle mentre una sedia emergeva dal ponte. «Quando viene attivata una nuova scorciatoia, gli angoli di avvicinamento accettabili per la destinazione selezionata diventano più stretti. Potrebbero aver fatto male i calcoli. Forse volevano arrivare da tutt’altra parte.» «Un pilota può fare un errore» obiettò Keith. «Ma otto?» «Il tempo di minima attesa è terminato» annunciò Denna. «Se avessero voluto rispondere al tuo ultimo messaggio, avrebbero potuto farlo.» Rombo era entrato un momento prima, ma si era accontentato di fermarsi accanto alla postazione delle operazioni esterne senza dare il cambio a Denna. «Thor, se dessi l’ordine di andarcene da qui» domandò Keith «potremmo sfuggire a quelle navi?» Thor si strinse nelle spalle. «Ne dubito. Hanno bloccato lo specchio della scorciatoia, quindi quella via ci è preclusa. E poi, li vedi quegli anelli intorno ai bozzoli-motore? Sono associati a motori waldahud iperspaziali di classe Gatob. È ovvio che nessuno può usare un motore a iperpropulsione così vicino alla stella verde ma, se tentassimo di andarcene, ben presto ci troveremmo in uno spazio abbastanza piatto per azionare gli iperpropulsori e a quel punto ci sarebbero addosso in un secondo.» Keith aggrottò la fronte. «Le navi si aprono a ventaglio» disse Thor. «A me sembra una formazione di attacco.» «“Di attacco?”» esclamò Rombo, con le luci che impazzavano sulla rete. «Messaggio in arrivo» disse Denna. In un’altra parte dell’ologramma del cielo fu ritagliata una cornice lucente. Al suo interno comparve una faccia waldahud, bordata da una pelliccia marrone con strisce color rame. «Lansing, comandante della Starplex» disse la voce tradotta. «Io sono Gawst. Segnati il nome: Gawst.» Keith annuì: per un maschio waldahud, il credito era tutto. «Siamo venuti per scortare la Starplex nel suo ritorno attraverso la scorciatoia. La vostra nave…» «Quanto ci vuole perché la risposta li raggiunga?» domandò Keith. «…si arrenderà a noi.» Denna consultò lo schermo. «Quarantatré secondi.» «Se coopererete» continuò Gawst «né l’equipaggio né la nave subiranno alcun danno.» «Thor, possiamo convincerli che stiamo puntando verso la scorciatoia con una certa traiettoria, poi cambiare direzione all’ultimo momento e uscire dove loro non se lo aspettano?» L’ufficiale al Timone scosse la testa. «Quei piccoli ricognitori potrebbero farlo, ma la Starplex ha un volume di tre milioni di metri cubi. Non possiamo ballare il tip tap.» «Quanto abbiamo prima che ci raggiungano?» «Filano a un decimo di C» disse Thor. «Ci saranno addosso in meno di venti minuti.» «Lansing a Gawst: la Starplex è di proprietà del Commonwealth. La vostra richiesta è respinta. Chiudo. Rombo, nel momento in cui riceveranno il nostro messaggio dimmelo.» Lianne Karendaughter arrivò a passo di carica. «Vorrei qualche suggerimento, ragazzi» disse Keith. «Suggerimento numero uno» intervenne Lianne, prendendo posto. «Ritiriamoci. Più lontano arriviamo dalla scorciatoia e meno è probabile che ci possano costringere ad attraversarla.» «Giusto. Thor, togliamoci…» «Perdonami l’interruzione, Keith» s’intromise Rombo. «Ma il tuo messaggio è arrivato a destinazione.» «Bene. Thor, togliamoci da qui. Propulsori a piena potenza.» «Sposterò la nave con un certo angolo» disse Thor. «Meglio non entrare nel campo di materia oscura: sarebbe una corsa a ostacoli e le navi piccole se la caverebbero meglio della nostra.» «Perfetto» disse Keith. «Rombo, vedi se riesci a mandare oltre Tau Ceti un Watson con il diario di bordo di oggi. Voglio avvertire il primo ministro Kenyatta.» «Fatto. Da qui, però, ci vorrà più di un’ora perché arrivi alla scorciatoia, e… chiedo scusa, messaggio in arrivo da Gawst.» «Lansing» disse Gawst «la Starplex è stata costruita nei cantieri di Rehbollo e lì è stata registrata, quindi è una proprietà waldahud. Evitiamo che la situazione diventi sgradevole. Una volta che la nave sarà tornata su Rehbollo rilasceremo tutti i membri dell’equipaggio per un immediato rimpatrio ai loro mondi di origine.» «Risposta» sbottò Lansing. «La costruzione della Starplex è stata finanziata da tutti i mondi del Commonwealth e la sua registrazione è una semplice formalità: sulle registrazioni si deve indicare un mondo di origine. La vostra pretesa è respinta. Se sarà necessario, questa astronave si difenderà contro il vostro illegittimo sequestro. Chiudo.» «Si difenderà?» ripeté Thor scuotendo la testa. «Keith, questa nave non è armata.» «Lo so benissimo» ribatté Keith. «Lianne, dammi un inventario completo dell’equipaggiamento di bordo che può essere usato a scopo offensivo. Se non abbiamo niente che possa emettere raggi di energia, o scagliare oggetti o esplodere, voglio saperlo.» «Ci sto lavorando» replicò Lianne, mentre le sue mani danzavano sulla consolle. «La Starplex non è stata progettata per il volo acrobatico» disse Thor, parlando all’ologramma di Keith sopra la sua consolle. «In confronto a quei piccoli caccia arrancheremo come un ippopotamo in calore.» «Allora combatteremo sul loro terreno» disse Keith. «Difenderemo la Starplex con le nostre sonde.» Diede un’occhiata alla lista che Lianne gli aveva appena inviato sul monitor numero tre: laser per prospezioni geologiche, esplosivi da miniera, tubi guida-massa per lanciare le sonde. «Lianne, organizzati con Rombo per far portare quanto più è possibile di questo materiale nelle nostre cinque sonde più veloci. Voglio che tutto sia caricato entro quindici minuti, non m’importa di quello che dovete fracassare per riuscirci.» A quel punto Denna Van Hausen si allontanò dalla consolle delle operazioni esterne e al suo posto rotolò Rombo. Le corde di manipolazione sfrecciarono sui comandi e la rete di sensori di Rombo arrivò quasi ad avvolgere il pannello per avere un contatto più immediato con i comandi. «Con un armamento raffazzonato» intervenne Thor «le nostre sonde non riusciranno certo a far fuori dei veri vascelli da combattimento.» «Non penso affatto di farli fuori» ribatté Keith. «La Starplex è di costruzione waldahud, certo, ma non le nostre sonde.» «Sono sicuro che saranno riluttanti ad aprire il fuoco su un veicolo ibese» disse Thor. «Però…» «Non era a questo che pensavo» disse Keith. «A differenza dei vascelli in arrivo, le nostre sonde non sono state progettate da ingegneri waldahud.» «Ah! E a pilotarle ci sono i delfini!» tuonò Thor. «Appunto» disse Keith. «Phantom, comunicazione olografica diretta con Lunga Bottiglia, Pinna Sottile, Arpione Rubato, Occhio Storto, Fascia sul Fianco. Mi sentite?» Le sagome di cinque teste delfinesche sbocciarono sulla consolle di Keith. «Eccomi.» «Che succede?» «Pinna Sottile, a disposizione.» «Sì, Keith?» «Ehilà.» «Stiamo per essere attaccati da navi waldahud» comunicò Keith. «Le nostre sonde sono più manovrabili… se ai comandi c’è un delfino. Sarà pericoloso, ma lo sarebbe altrettanto non agire affatto. Siete disposti a…» «La nave è casa oceano… la proteggeremo!» «Se serve io aiuto.» «Pronto a collaborare.» «Okay.» «Be’… va bene, conta su di me.» «Eccellente» commentò Keith. «Avviatevi ai moli di lancio. Rombo vi comunicherà quali navi vi sono state assegnate.» Thor guardò l’ologramma di Keith. «Non c’è dubbio che le nostre navi sono più maneggevoli… ma i delfini non se la cavano bene con le armi. Dovrebbero avere a bordo degli artiglieri.» La rete di Rombo lampeggiò. «Se saranno usate armi, moriranno esseri senzienti.» «Non possiamo limitarci ad aspettare, senza difenderci» dichiarò Thor. «Sarebbe meglio arrenderci» suggerì Rombo. «No» intervenne Keith. «Questo non lo farò mai.» «Ma uccidere qualcuno…» «Non ci sarà bisogno di uccidere nessuno» affermò Keith. «Potremmo sparare sui motori, cercando di disattivare le navi waldahud senza squarciare i loro habitat. Quanto agli artiglieri… tra noi ci sono soltanto scienziati e diplomatici.» Rimase in silenzio a riflettere per qualche secondo. «Phantom, controlla nelle registrazioni personali. Quali sarebbero i cinque artiglieri più in gamba?» “Elaborazione in corso. Elaborazione terminata: Wong Wai-Jeng. Smith-Tate Helena. Leed Jelisko em-Layth. Cervantes Clarissa. Dask Honibo em-Kalch.” «Rissa?» esalò Keith in un sussurro. «Se si tratta di governare laser geologici» propose Thor «perché non impiegare Fiocco di Neve? È lei la geologa anziana, dopo tutto.» «Noi ib abbiamo una mira schifosa» dichiarò Rombo. «Puntare su un bersaglio è più facile quando si ha un unico punto di vista.» «Phantom» ordinò Keith «trova sostituti di altre specie per i due waldahudin, e mettimi immediatamente in comunicazione con loro.» «Fatto. Canale di comunicazione aperto.» «Parla il direttore Lansing. Phantom ha calcolato che voi siete le cinque persone più abili o meglio addestrate per azionare gli improvvisati sistemi d’arma a bordo delle nostre cinque sonde pilotate da delfini. Non posso ordinarvelo, ma abbiamo bisogno di volontari. Siete disponibili?» Una seconda fila di teste olografiche apparve sopra quelle dei delfini. «Dio santo, io… sì, d’accordo.» «Conta su di me.» «Non sono sicura di essere la persona giusta, ma accetto.» «Naturalmente.» Rissa si era alzata e si era avvicinata a suo marito. «Farò quello che posso» disse. Keith la guardò. «Rissa…» «Non preoccuparti, amore. Voglio essere sicura che tu abbia i tuoi dieci miliardi di anni.» Keith le toccò un braccio. «Rombo assegna ciascuno di loro a una nave. Phantom, portali a destinazione nel più breve tempo possibile.» “Sarà fatta.” «State facendo tutti un ottimo lavoro» disse Keith, con la testa bassa e a mani giunte. «Cristo!» gridò Thor. Una piccola esplosione era fiorita sul monitor. «Hanno appena liquidato il nostro watson.» «Jag, controlla che arma hanno usato» ordinò Keith. «Almeno sapremo come sono armati.» Jag consultò con lo sguardo un monitor quadrato. «Normali laser waldahud per azioni di polizia» rispose. Subito dopo, però, si alzò dalla postazione e chiamò con un gesto Anguria Scavata, che aveva occupato la postazione scienze fisiche nel turno delta. Jag premette alcuni tasti. «Trasferisco scienze fisiche alla postazione 1 dei delfini» comunicò. Si girò a guardare Keith. «Forse sarebbe meglio se io non partecipassi ulteriormente. Gawst non ha invocato il nome della regina Trath, quindi ritengo che lui e i suoi associati stiano agendo senza l’approvazione reale, nel tentativo di guadagnarsi considerevole gloria. Ma sono pur sempre waldahudin. Forse dovrei tornare nel mio appartamento.» «Non così in fretta, Jag» disse Keith, alzandosi in piedi. Lanciò un’occhiata a Lianne. «Quanto manca al lancio?» «Dieci minuti, forse undici.» Keith tornò a fronteggiare Jag. «Sei stato tu a convincermi a spostare la Starplex in modo tale che non fossimo in grado di vedere le forze waldahud che si ammassavano dalla parte opposta della stella verde.» «Lo nego» sbraitò Jag, con entrambe le coppie di braccia incrociate sul dorso. «Non è ai waldahudin che riservi la tua lealtà?» «La mia lealtà va alla regina Trath, ma non esistono prove che ella abbia autorizzato il tentativo di requisire questa nave.» «Lianne, quanti watson ha ricevuto Jag negli ultimi due giorni?» «Faccio un controllo… Tre. Due venivano da Ceti.» «Che si trova appena all’esterno del sistema d’origine dei waldahudin» commentò Keith. «E il terzo era un’unità commerciale di un’organizzazione per le telecomunicazioni di Rehbollo.» «Portava notizie personali» dichiarò Jag «relative a una malattia in famiglia.» «Esamina quei watson,Lianne» disse Keith. «Voglio controllare che messaggi hanno portato.» «Dopo avere scaricato i dati di mio interesse» disse Jag «ho rimandato indietro quei watson perché potessero essere riutilizzati… cancellando i dati, è chiaro.» «Dovremmo riuscire comunque a recuperare qualcosa» disse Keith. «Lianne?» «Sto controllando» rispose lei. Dopo qualche secondo disse: «Okay, i watson arrivati per Jag sono a bordo. Ne abbiamo circa un centinaio, e quelli sono ancora in coda per essere riutilizzati.» Premette alcuni tasti. «Ho aperto un’interfaccia con tutti e tre: risultano vuoti.» «Niente che sia stato cancellato è recuperabile?» «No. Le aree-dati sono state svuotate, e poi riempite con schemi casuali. Non è rimasto nulla.» «Uso sempre un cancellatore di livello sette» intervenne Jag. «Ovvero due livelli sopra gli standard dei militari terrestri» notò Keith. «Lascia tutto più a posto» affermò Jag. «Tu stesso hai fatto notare più volte quanto io sia maniaco dell’ordine.» «Falla finita, stronzo» disse Keith. «Non ci credo che sia stata una coincidenza che tu mi abbia chiesto di spostare la nave. I waldahudin non avrebbero potuto attaccare in massa se noi fossimo stati lì a vederli sbucare uno dopo l’altro dalla scorciatoia.» «Ti dico invece che è una coincidenza» replicò Jag. Keith si girò verso la postazione delle operazioni interne. «Lianne, cancella immediatamente ogni autorità di comando per Jag Kandaro em-Pelsh. E considera concluso qualsiasi lavoro egli abbia avviato.» I tasti emisero dei bip quando furono toccati. «Fatto» disse Lianne. «Non hai l’autorità per compiere un atto simile» disse Jag. «Fammi causa» ribatté Keith. Guardò il waldahud. «Io mi sono schierato tra chi era contrario ad assegnare qualunque parte della Starplex a strutture militari umane, ma se fosse andata così adesso potremmo almeno buttarti un salvagente.» Guardò le luccicanti telecamere che galleggiavano sulle due serie di sedie della galleria oltre le postazioni. «Phantom, registra un nuovo protocollo. Nome: arresti domiciliari. Autorità in grado di autorizzarlo, G.K. Lansing. Parametri: gli individui agli arresti domiciliari non hanno accesso alle aree di lavoro; Phantom non aprirà loro nessuna porta che conduca in queste aree. Essi hanno inoltre la proibizione di usare apparecchiature per le comunicazioni esterne, nonché di dare a Phantom ordini che oltrepassino il livello quattro.» “Protocollo stabilito.” «Registra quanto segue: da questo momento, ore 7:52, e finché l’ordine non verrà revocato da me personalmente, Jag Kandaro em-Pelsh è agli arresti domiciliari.» “Registrato.” La voce di Keith era controllata. «Adesso puoi abbandonare il ponte.» Jag incrociò nuovamente le due coppie di braccia dietro la schiena. «Non credo che tu abbia il diritto di escludermi da questa stanza.» «Un attimo fa volevi andartene» disse Keith. «Ovviamente parliamo di quando avevi l’autorità di lanciare una scialuppa e fuggire verso l’armata.» Rombo aveva lasciato la postazione delle operazioni esterne ed era rotolato accanto alla consolle del direttore. Molte luci saltellarono qua e là sulla rete di sensori, i cui fili erano diventati gialli: il colore della rabbia. «Do il mio appoggio a Keith» disse la flemmatica voce britannica. «Tu hai compromesso tutto ciò per cui abbiamo lavorato. Lascia il ponte di tua volontà, Jag, altrimenti ti sbatterò fuori io.» «Non puoi farlo. È contrario al codice operativo aggredire un essere senziente.» Quando Rombo cominciò a muoversi verso Jag, aveva tutta l’aria di un rullo compressore vivente. «Stai a vedere» disse. Jag mantenne il suo atteggiamento di sfida. Rombo ridusse ulteriormente la distanza che li separava, mentre le ruote con i bordi di quarzo riflettevano la luce stellare dell’ologramma che li avvolgeva tutti. I tentacoli-corde dell’ib emersero dal fascio in cui erano normalmente riposti e sferzarono l’aria come serpi infuriate. Solo allora Jag fece dietro front. Il panorama stellare di fronte a lui si spalancò e il waldahud uscì. La porta si chiuse. Keith fece a Rombo un cenno di ringraziamento, poi domandò: «Thor, stato delle navi waldahud?» Thorald Magnor rispose volgendo la testa di lato: «Assumendo che non abbiano niente di più dei normali laser per azioni di polizia, saremo a distanza di tiro fra tre minuti.» «Quanto manca perché le nostre navi siano pronte per il lancio?» Le luci di Rombo lampeggiarono una risposta mentre lui tornava alla sua postazione. «Due sono già pronte. Le altre tre… direi quattro minuti al massimo.» «Voglio che siano lanciate tutte contemporaneamente. L’intera forza dev’essere fuori entro 240 secondi.» «Agli ordini.» «Saremo comunque in minoranza, otto contro cinque» osservò Thor. Keith si accigliò. «Lo so, ma soltanto le nostre cinque più veloci navette sono attrezzate per essere pilotate da delfini. Rombo, non appena le navette saranno fuori dai moli, voglio piena potenza per gli schermi di forza. Taglia i motori, sposta tutta l’energia sugli schermi.» «Agli ordini.» «Lianne» continuò Keith «voglio mandare un messaggio a Tau Ceti con un altro Watson. Questo sparalo con un tubo guidamassa. Spediscilo in un’orbita di trasferimento che lo porti alla scorciatoia semplicemente per inerzia: voglio che per tutto il tragitto non faccia uso di energia.» «Per arrivare alla scorciatoia in questo modo il Watson ci metterebbe tre giorni» fece notare Lianne. «Me ne rendo conto. Calcola la traiettoria. Quanto tempo ho prima del lancio delle navi?» «Due virgola cinque minuti» rispose Rombo. Keith annuì e premette il pulsante privacy che eresse intorno alla sua postazione quattro doppie pareti a schermo di forza, vuote all’interno per impedire la propagazione dei suoni. «Phantom» disse «cerca tutte le registrazioni delle ricerche effettuate da Gaf Kandaro em-Weel e dai suoi collaboratori, in particolare il materiale mai tradotto dal waldahudar.» “Sto cercando. Ricerca completata.” «Fammi vedere titoli e riassunti in inglese.» Keith esaminò riga per riga i testi che comparvero sullo schermo. «Scarica in un Watson gli articoli numero 2, 19 e… vediamo, meglio aggiungere anche il 21, per sicurezza. Codifica tutto con la parola chiave “Kassabian”: K-A-S-S-A-B-I-A-N. Registra quanto segue e inseriscilo nel watson come messaggio non codificato:» Da Keith Lansing a Valentina Ilianov, Provost, Nuova Pechino. Val, siamo attaccati da navi waldahud e non sarei sorpreso se tra poco toccasse a voi. Sono venuto a sapere che in teoria esiste un sistema per distruggere una scorciatoia, appiattendo lo spazio-tempo che la circonda e impedendole in tal modo di ancorarsi nello spazio normale. Se a un certo punto le forze d’invasione waldahud saranno prossime a sconfiggere la vostra flotta, forse sarete disposti a considerare la possibilità di distruggere l’uscita della vostra scorciatoia. Questo atto, è chiaro, isolerebbe il sistema Sole — Epsilon Indi — Tau Ceti dal resto della galassia e priverebbe le forze waldahud di ogni via di ritirata. Pensaci bene prima di farlo, amica mia. La tecnica si può desumere dagli articoli allegati al messaggio. Li ho codificati e la chiave è il cognome della donna sulla quale tutti e due abbiamo fantasticato molti anni fa. Fine. “Fatto” disse Phantom. Keith premette un pulsante e gli schermi scomparvero. «Lancia il watson,Lianne» disse. «Agli ordini.» Keith osservò la scatola di metallo allontanarsi dalla Starplex, alla deriva. Il cuore gli batteva forte. Se Val avesse deciso di usare quella tecnica ci sarebbe stata un’altra conseguenza che Keith non le aveva ricordato esplicitamente: anche lui e Rissa, e gli altri terrestri a bordo della Starplex, non avrebbero mai più rivisto le loro case. «Ci siamo» esclamò Rombo. «Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Lancio del PDQ. Tre. Due. Uno. Lancio del Rum Runner. Tre. Due. Uno. Lancio del Marc Garneau. Tre. Due. Uno. Lancio del Dakterth. Tre. Due. Uno. Lancio del Lunga Marcia.» I lampi di fusione dei dieci motori gemelli rischiararono il cielo olografico quando le cinque sonde furono espulse dal disco centrale della Starplex. Le navi waldahud in avvicinamento erano ormai abbastanza vicine da poter essere visualizzate direttamente e non come triangoli colorati. «Schermi di forza al massimo» comunicò Rombo. «Apri cinque finestre negli schermi di forza e invia quanto segue, come messaggio laser in codice, a ciascuna delle nostre navi» ordinò Keith. «Nessuno deve fare fuoco a meno che i waldahudin non sparino a noi per primi. Forse basterà una dimostrazione di forza per convincerli a ritirarsi.» «Hanno già liquidato uno dei nostri Watson» disse Thor. Keith annuì. «Però se anche creature senzienti dovessero diventare bersagli, allora dovranno essere i waldahudin a cominciare.» «Messaggio in arrivo» avvertì Lianne. «Vediamolo.» Apparve la faccia di Gawst. «Ultima possibilità, Lansing. Dichiara la resa della Starplex.» «Nessuna risposta» disse Keith. Lanciò un’occhiata a un monitor. La Starplex era ancora orientata in modo che la serie inferiore di telescopi guardasse la stella verde e i caccia in avvicinamento. «La nave di Gawst si avvicina velocemente» disse Thor. «Le altre sette stanno attestandosi a circa 9 mila chilometri da qui.» «Tenetevi forte!» gridò Keith. «Sta sparando!» esclamò Thor. «Un colpo contro i nostri schermi di forza. Nessun danno.» «Quanto a lungo possiamo deflettere i suoi laser?» domandò Keith. «Per altri quattro colpi, forse cinque» rispose Lianne. «Le altre navi waldahud si stanno avvicinando. Tentano di circondarci» avvertì Thor. «Vuoi che le nostre sonde attacchino?» chiese Rombo. Keith non rispose. «Direttore, vuoi che le nostre sonde attacchino?» «Non credo che Gawst sparerebbe davvero» disse Keith, incerto. «Si stanno collocando su posizioni geodesiche equidistanti intorno a noi» comunicò Thor. «Se tutte e otto le navi spareranno contemporaneamente, usando la stessa lunghezza d’onda, schiacceranno i nostri campi. Non rimarrà nessuna direzione in cui deviare l’energia.» Gli ologrammi dei piloti delfini e dei loro artiglieri fluttuavano sopra la consolle di Keith. «Permettimi di impegnare la nave più vicina» suggerì Rissa, che era a bordo della Rum Runner con Lunga Bottiglia. Keith tenne gli occhi chiusi per un secondo. Quando li riaprì, era arrivato a una decisione. «Fallo» disse. «Fuoco sul bozzolo-motore» disse Rissa. Phantom tracciò una linea rossa sulla sfera olografica per rappresentare l’invisibile raggio del laser geologico, scagliato dalla prua della Rum Runner a trafiggere la nave waldahud. Il raggio incise il bozzolo-motore nel senso della lunghezza e dalla nave fu eiettata una lingua di plasma. «Ehi» esclamò Rissa con un sorriso di trionfo. «Tutto quel tempo passato a tirare con l’arco non è stato poi così inutile.» «Gawst ha sparato ancora contro la Starplex» annunciò Thor. «E una delle altri navi punta contro la Rum Runner.» «Allontanati da lì, Lunga Bottiglia» disse Keith. La Rum Runner fece una manovra identica alla capriola all’indietro di un delfino e completò la mossa azionando i laser in direzione della nave in arrivo, la quale sbandò per evitare ogni contatto con il raggio. «La nave di Gawst ha due laser, uno a tribordo e uno a babordo» disse Thor. «E li sta usando entrambi sul nostro radiotelescopio inferiore… è in gamba, accidenti. Fa in modo che l’antenna parabolica focalizzi i raggi sulla nostra strumentazione.» «Fai ballare la Starplex» disse Keith. «Liberati di lui.» Le stelle sulla bolla olografica danzarono a destra e a sinistra. «Ci è rimasto incollato» disse Thor. «Scommetto che… ehi, ce l’ha fatta. Anche con la massima schermatura un po’ dei suoi laser sono penetrati, e la parabolica ha focalizzato i raggi. Ha fatto fuori la schiera di sensori del ponte 70, e inoltre…» La Starplex tremò e Keith ne fu sconvolto: su quella nave non aveva mai sentito un simile scossone. «I sette vascelli waldahud superstiti ci stanno sparando a turno» annunciò Thor. «Keith a tutte le sonde: attaccate i waldahudin. Costringeteli a interrompere l’aggressione alla Starplex.» «I nostri schermi cederanno fra sedici secondi» avvertì Lianne. Nel display olografico Keith vide il PDQ e il Lunga Marcia aprire il fuoco su due navi waldahud. Contemporaneamente, i waldahudin cercavano di mantenere attivo un unico schermo di forza per proteggersi dagli aggressori mentre continuavano a far fuoco sulla Starplex, ma le imprevedibili manovre delle sonde rendevano impossibile mantenere lo schermo nella giusta angolazione. La luce delle esplosioni cominciò a oltrepassarlo. Risuonò un allarme. “Imminente cedimento del campi di forza” annunciò Phantom. All’improvviso, e silenziosamente, una delle navi waldahudin esplose. La Marc Garneau aveva rinunciato al suo bersaglio e si era portata sulla nave impegnata dalla PDQ, che sulla prua non era protetta da schermi di forza. Keith chinò il capo. I primi caduti della battaglia… e, considerato che i laser erano azionati a mano, nessuno avrebbe mai saputo se l’artigliere Helena Smith-Tate aveva preso volutamente di mira l’habitat o se aveva sbagliato il colpo contro il bozzolo-motore. «Due fuori, ne restano sei» commentò Thor. «Cedimento dei campi di forza» annunciò Lianne. Le cinque navi pilotate dai delfini cominciarono a sfrecciare in ogni direzione, con le armi che sparavano a casaccio. Il display olografico si riempì di un intrico di raggi laser: rossi per le forze del Commonwealth, azzurri per gli aggressori. In quel momento il vascello di Gawst cominciò a ruotare intorno all’asse poppa-prua, girando come un cacciavite. «Che diavolo sta facendo?» domandò Keith. La risposta fu evidente quando Phantom disegnò i due raggi provenienti dai cannoni laser gemelli di Gawst: con la nave in rotazione, i raggi formavano un cilindro di luce coerente… trasformando una coppia di armi a effetto puntiforme in un dispositivo a largo raggio. Gawst puntava all’insù, verso la faccia inferiore del disco centrale, proprio sotto uno dei quattro generatori principali della nave. «Se non commette qualche errore» disse Thor con ammirazione, malgrado tutto «riuscirà a estrarre il generatore numero 2 come un geologo farebbe con una carota di roccia.» «Sposta la nave!» esclamò Keith. Il campo stellare roteò. «Ci provo, ma Gawst ci ha agganciati con un raggio trattore…» La nave sussultò ancora e un’altra sirena lanciò l’allarme. Lianne fece ruotare la sedia per portarsi faccia a faccia con Keith. «C’è una breccia sullo scafo interno, all’altezza del ponte 40, dove il fondo del ponte oceano si unisce al cilindro centrale. L’acqua sta scendendo attraverso il cilindro nei ponti inferiori.» «Cristo!» esclamò Keith. «Che cos’avevano bevuto gli ib quando hanno installato i nuovi habitat inferiori?» La rete di Rombo diventò nuovamente gialla di rabbia e i punti luminosi lampeggiarono infuocati. «Domando scusa?» sbottò. Keith sollevò le mani. «Volevo solo dire che…» «Il lavoro è stato eseguito “alla perfezione”» sillabò Rombo. «Ma i progettisti della nave non hanno mai pensato che avremmo affrontato una battaglia.» «Sono spiacente» disse Keith. «Lianne, qual è la procedura in una situazione come questa?» «Non esiste nessuna procedura» rispose Lianne. «Il ponte oceano è considerato a prova di falla.» «È possibile contenere l’acqua con campi di forza?» suggerì Keith. «Non per molto tempo» disse Lianne. «I campi di forza che usiamo nei moli d’attracco sono abbastanza intensi da mantenere l’aria alla giusta pressione contro il vuoto. Ma ogni metro cubo d’acqua ha una tonnellata di massa. Contro una pressione simile, soltanto gli emettitori di campo esterni alla nave potrebbero farcela, e anche se Gawst non li avesse sovraccaricati non ci sarebbe comunque modo di dirigerli all’interno. Se si spegne la gravità artificiale nel disco centrale e su tutti i ponti sottostanti, almeno l’acqua non si accumulerà in basso.» «Buona idea» approvò Keith. «Lianne, provvedi.» “Intervento di sicurezza” disse la voce di Phantom. “L’ordine è respinto.” Keith lanciò un’occhiata alla coppia di telecamere di Phantom sulla sua consolle. «Che diavolo…?» «È per gli ib» disse Rombo. «Il nostro sistema circolatorio è alimentato dalla gravità: se venisse spenta, noi moriremmo.» «Maledizione! Lianne, quanto tempo ci vuole per far spostare tutti gli ib dai ponti 41-70 a quelli superiori?» «Trentaquattro minuti.» «Fai iniziare lo sgombero. E porta fuori dal ponte oceano tutti i delfini, ma di’ loro di portarsi dietro l’apparato respiratorio nel caso che dovessimo mandarli di sotto, nelle aree inondate.» «Se fai cominciare l’evacuazione dal ponte 70» disse Thor «puoi togliere la gravità soltanto lì, all’inizio, e poi continuare con i ponti successivi.» «Non farebbe nessuna differenza» affermò Lianne. «Ora che l’acqua fosse arrivata così lontano, avrebbe ormai abbastanza inerzia per continuare a muoversi verso il basso anche se non ci fosse più la gravità a farla cadere.» «Ci sono rischi di corto circuito elettrico?» domandò Keith. «Ho già spento tutti i sistemi elettrici nelle zone inondate» disse Lianne. «Se il ponte oceano fosse completamente prosciugato, quanti ponti inferiori si riempirebbero con la sua acqua?» domandò Thor. «Il cento per cento» rispose Lianne. «Davvero?» esclamò Keith. «Accidenti!» «Il ponte oceano contiene 686 mila metri cubi d’acqua» disse Lianne consultando i dati sul suo monitor. «Anche contando tutte le zone sigillate tra un ponte e l’altro, il volume complessivo della nave al di sotto del disco centrale è soltanto di 567 mila metri cubi.» «Chiedo scusa, ma mi sembra che il PDQ sia nei guai» intervenne Rombo, agitando una corda verso un punto della bolla olografica: due navi waldahud convergevano verso la nave sonda, con i laser in piena attività. Keith divise la sua attenzione tra il display olografico e il monitor della consolle che mostrava il procedere dell’inondazione. «Aspetta» disse Rombo. «La Dakterth sta arrivando alle spalle delle due navi che hanno attaccato la PDQ. Dovrebbe riuscire a distogliere da lei un po’ di potenza di fuoco.» «Come va l’evacuazione?» domandò Keith. «Siamo nei tempi previsti» rispose Lianne. «Ci sono perdite di acqua nello spazio?» «No, la falla è soltanto interna.» «Fino a che punto sono a prova d’acqua le porte interne?» «Be’, quelle scorrevoli tra le stanze si chiudono ermeticamente, ma non sono molto robuste» disse Lianne. «Dopo tutto, quei pannelli sono progettati in modo che basti un calcio per farli uscire dalle guide, per essere usati come uscite di emergenza in caso di incendio. Il peso dell’acqua li farebbe saltare in un attimo.» «Qual è stato il genio che ha avuto questa idea?» domandò Thor. «Credo che abbia collaborato anche al progetto del Titanic» borbottò Keith. La nave traballò di nuovo, ondeggiando avanti e indietro. Nel display olografico si vide un pezzo cilindrico del disco centrale della Starplex, alto quanto dieci ponti, allontanarsi roteando nella notte. «Gawst ha tranciato il generatore numero 2» fece rapporto Lianne. «Avevo fatto evacuare quella zona del toroide ingegneria non appena il laser aveva cominciato a scavare, quindi non ci sono perdite. Però se riesce a fare altrettanto con un altro generatore, la nave non potrà più entrare nell’iperspazio, neanche allontanandosi a sufficienza dalla stella.» Un’esplosione di luce attirò l’attenzione di Keith. La Dakterth aveva reciso il bozzolo-motore da una delle navi waldahud che avevano attaccato la PDQ. Il bozzolo si allontanò roteando. Sembrò sul punto di scontrarsi contro il nucleo cilindrico staccato dalla Starplex, ma era soltanto un’illusione indotta dalla prospettiva. «E se scaricassimo l’acqua nello spazio?» propose Rombo. «Per farlo dovremmo scavare noi stessi un buco nel ponte oceano» disse Lianne. «In quale punto sarebbe più facile farlo?» domandò Keith. Lianne consultò il progetto della nave. «La parete posteriore del molo d’attracco 16. Dietro c’è il toroide ingegneria, ovviamente, ma in quel punto il toroide contiene una stazione di filtraggio per il ponte oceano. In altre parole è pieno d’acqua, quindi basta scavare un buco nella parete del molo per riversarvi l’acqua.» Keith rifletté per qualche secondo, poi capì. «D’accordo» disse. «Mandate immediatamente al molo 16 qualcuno con un laser geologico.» Si girò verso Rombo. «So che gli ib hanno bisogno della gravità, ma che succederebbe se togliessimo la gravità artificiale e mettessimo la nave in rotazione su se stessa?» «Forza centrifuga?» disse Lianne. «La gente dovrebbe camminare sulle pareti.» «Già. E allora?» «Be’, i ponti sono a forma di croce, quindi l’apparente forza di gravità aumenterebbe spostandosi verso l’esterno del braccio.» «Però impedirebbe all’acqua di scendere lungo il cilindro centrale» disse Keith. «Invece si schiaccerebbe contro le pareti più esterne del ponte oceano. Thor, ce la fai a mettere la nave in rotazione con i propulsori Acs?» «Certo che ce la faccio.» Keith guardò Rombo. «Di quanta gravità hanno bisogno gli ib per far funzionare il sistema circolatorio?» Rombo sollevò le sue corde. «Secondo i dati sperimentali dovrebbe bastare un ottavo di G.» «Sotto il ponte 55» intervenne Lianne «anche alle estremità dei bracci non ci sarebbe gravità apparente a sufficienza, a nessun ragionevole ritmo di rotazione.» «Però dovremmo far evacuare gli ib soltanto da quindici ponti, anziché da quaranta» fece notare Keith. «Lianne, informa tutti di ciò che intendiamo fare. Thor, quando non sarà più rimasto nessun ib sotto il ponte 55 comincia a far ruotare la nave. E quando avrà preso velocità, togli la gravità artificiale.» «Agli ordini.» «È probabile che la gente non occuperà le stanze alle estremità dei bracci, a causa delle finestre» disse Lianne. «Perché?» s’informò Keith. «Sono trasparenti, ma sono anche fatte di materiale composito al carbonio: non si romperanno se qualcuno ci camminerà sopra.» «Certo che no» confermò Lianne. «Ma quelle finestre hanno un’angolazione di 45 gradi, perché quello è l’angolo con cui sono tagliati i moduli abitativi. Sarà difficile restarvi in piedi, quando la gravità artificiale le farà diventare pavimenti in forte pendenza.» Keith annuì. «Giusto. Trasmettilo come consiglio.» «Ci penso io.» Parlò la testa olografica di Lunga Bottiglia, che pilotava la Rum Runner. «In acque inquinate siamo. Surriscaldando si stanno i motori.» Keith rivolse all’ologramma un cenno di assenso. «Fai quello che puoi. Se necessario allontanati da noi, forse nessuno vi seguirà.» La Starplex vibrò ancora una volta. «Gawst ha cominciato a scavare il disco centrale sotto il generatore numero 3» annunciò Rombo. «E un’altra delle sue navi sta scavando il disco sull’altra faccia, all’altezza del generatore numero 1.» «Inizia la rotazione, Thor.» L’ologramma del cielo stellato cominciò a roteare. La nave ebbe uno scossone. «Abbiamo colto Gawst di sorpresa» disse Thor. «I suoi laser vagano sull’intera superficie del disco centrale.» Si fece sentire Lianne: «Jessica Fong è in posizione nel molo d’attracco 16, Keith.» «Fammela vedere.» Sull’ologramma del cielo stellato, che ora ruotava a sconcertante velocità, comparve una scena incorniciata: l’interno del molo d’attracco, dove una donna in tuta spaziale fluttuava a mezz’aria. Con un cavo era agganciata alla parete posteriore, quella che confinava con il toroide ingegneria, e il cavo era mantenuto teso dalla rotazione della nave. La stessa rotazione spingeva in fuori la donna, verso il centro del boccaporto incurvato. Il pavimento del molo, segnato dalle strisce che indicavano le zone di atterraggio, si trovava a più di una decina di metri sotto i suoi piedi, mentre il soffitto, coperto di pannelli luminosi e alloggiamenti per gli argani, si trovava a una decina di metri sopra la sua testa. «Canale aperto» disse Keith. Poi: «Okay, Jessica. Oltre la parete posteriore del molo, nel toro ingegneria, c’è una stazione di filtraggio del ponte oceano, piena d’acqua. Dall’altra parte la stazione si apre sull’oceano. Tu dovrai scavare un bel buco nella parete posteriore del molo. Attenta, però: l’acqua uscirà con la forza di un maglio.» «Capisco» disse Jessica. Portò le mani alla vita e lasciò andare un altro po’ di cavo. Keith la guardò col fiato sospeso mentre si muoveva nell’aria lungo il molo. Non sprecava un attimo: a ogni istante si vedevano comparire altri metri di cavo. Alla fine la donna raggiunse la parte opposta del molo e sbatté contro la superficie curva del boccaporto che dava sullo spazio. Per un terribile momento, Keith pensò che fosse rimasta priva di conoscenza a causa dell’impatto, invece si riprese quasi subito e si diede da fare per mettere in posizione il massiccio laser geologico. Faceva fatica a tenere immobile l’unità. Quando infine sparò, il primo colpo attraversò il suo stesso cavo tagliandolo proprio nel mezzo: quindici metri di filo di nylon le precipitarono addosso, mentre gli altri quindici sferzarono l’aria ben lontano dalla sua testa, simili a un magro serpente giallo. Adesso era inchiodata al centro del portello spaziale a causa della rotazione della nave. Il secondo colpo di Fong fu altrettanto disastroso, dal momento che centrò una scatola di collegamento del sistema d’illuminazione del molo. L’intera scena fu avvolta dalle tenebre. «Jessica!» «Sono sempre qui, Keith. Dio mio, quanto sono goffa.» Nella cornice non si distingueva altro che buio… buio, e poi uno sfrigolio color rubino, quando il laser colpì la parete posteriore. Keith guardò il metallo illuminarsi, ammorbidirsi, incresparsi… E poi… Il rumore scrosciante dell’acqua, come quello di una pompa antincendio ad alta pressione. Jessica continuò ad azionare il laser, aprendo sulla parete un gigantesco squarcio di forma quadrata: un buco qui, uno spostamento di un centimetro, un altro buco, uno spostamento, e così via, senza interruzione. Si accesero le luci di emergenza, che immersero l’hangar in una penombra rossastra. L’acqua marina erompeva dalla parete. Il quadrato di metallo della paratia venne piegato, poi strappato del tutto e volò libero nel molo sotto la spinta del geyser d’acqua che lo seguiva. Keith si rannicchiò su stesso. Sembrava quasi che il pezzo di paratia stesse per schiacciare Jessica, che già era stata colpita con violenza da alcuni schizzi d’acqua. Anche lei, però, l’aveva visto arrivare. Alle spalle della donna un’esplosione di fiamme bruciacchiò la parete. Jessica era stata abbastanza previdente da indossare una tuta dotata di razzi e proprio in quel momento, appena in tempo, li azionò per spararsi verso l’alto. Il molo si stava riempiendo d’acqua: il fondo era adesso la parete del boccaporto e l’acqua saliva verso l’interno della nave. Ben presto Jessica si ritrovò schiacciata contro il boccaporto. Quando il molo fu pieno del tutto, Keith le parlò ancora. «Benissimo. Adesso girati e apri un buco di dieci centimetri sul portello. Tienici il laser appoggiato, se non vuoi bollire in tutta quell’acqua.» «Seguirò il consiglio» ribatté lei, con la tuta spaziale diventata ora una tuta da sub. Si girò per fronteggiare il boccaporto e impugnò il cono di metallo grigio che costituiva il laser geologico come un martello pneumatico. Poi si sparò in mezzo ai piedi. Ben presto parte del boccaporto brillò di un colore rosso ciliegia, poi arrivò al calor bianco, poi… La Starplex girava nella notte come una trottola, mentre la stella verde traeva bagliori dal suo scafo. Le cinque navi waldahud superstiti si avvicinarono. Due di esse venivano da sopra, le altre tre dal basso e si dirigevano verso l’anello dei moli. Senza dubbio la grande nave ruotava troppo velocemente perché i piloti waldahud notassero il puntino incandescente al centro del portello del molo 16, un puntino che aumentò il suo splendore, s’infiammò e bruciò fino a spegnersi. Poi, all’improvviso… L’acqua cominciò a sprizzare nello spazio, scagliata lontano dalla nave in rapida rotazione. Non appena colpì il vuoto si trasformò in vapore ma quando si accumulò abbastanza vapore da fornire la giusta pressione l’acqua si ricondensò in liquido: i granuli per la formazione delle gocce furono forniti dal plancton, dai cristalli di sale e dai detriti oceanici. Subito dopo, grazie al campo di materia oscura che schermava la luce della stella verde, l’acqua liquida diventò ghiaccio… Milioni e milioni di schegge di ghiaccio furono scagliate lontano dalla Starplex ad alta velocità, spinte dalla forza esplosiva dell’acqua che continuava a uscire e dalla forza centrifuga della nave in rotazione. Come innumerevoli diamanti che, sullo sfondo notturno, luccicavano verdi nella luce della stella vicina… La prima nave waldahud fu colpita da uno sbarramento di pezzi di ghiaccio e la sua stessa velocità si aggiunse a quella dei proiettili, creando tutte le condizioni per una vera collisione ad alta velocità. I primi cinque o sei frammenti furono deviati dagli schermi di forza della nave, schermi progettati per proteggere il vascello contro i rari impatti dei micrometeoriti nello spazio interstellare, non per affrontare una grandinata. Poi… Le pallottole di ghiaccio affondarono nello scafo waldahud come zanne nella carne squarciando l’habitat ed espellendo l’aria, che si congelò e si aggiunse alla tempesta nello spazio. Sul ponte, Keith gridò: «Adesso, Thor! Fai ballare la nave.» Thor eseguì. Un nuovo fiotto di pezzi di ghiaccio venne espulso a una diversa angolazione e si scontrò con una seconda nave waldahud, facendola a pezzi. Poi una terza nave esplose, un fiore silenzioso sullo sfondo oscuro, quando le pallottole ghiacciate bucarono il serbatoio che conteneva il carburante per le manovre atmosferiche. Thor fece ondeggiare la nave nella direzione opposta, scagliando le pallottole di ghiaccio verso la quarta nave superstite. A quel punto, però, il pilota aveva escogitato una controstrategia: ruotò la sua nave in modo che il cono di scarico del motore a fusione puntasse verso la Starplex, poi azionò il motore principale facendo fondere il ghiaccio in gocce d’acqua, che si misero a bollire e divennero vapore prima di colpire la nave. Il pilota di una delle navi rimanenti, però, non aveva intuito la manovra, o forse era troppo occupato a salvarsi la pelle dirigendosi di corsa verso la scorciatoia: scelse una rotta che lo portò proprio nel cono di scarico dell’altra nave, dove fu avvolto da fiamme al calor bianco che fecero esplodere il vascello. Rimanevano soltanto due navi, una delle quali era quella di Gawst. L’anello in espansione di pallottole d’acqua deviò dalla Starplex la maggior parte dei rottami della nave, ma l’equipaggio del vascello waldahud che aveva tentato il trucco del cono di scarico non fu altrettanto fortunato. Un grande e contorto pezzo di scafo si scontrò con la loro nave. L’impatto la fece roteare lontano, priva di controllo… proprio verso il campo di materia oscura. Il pilota sembrò sul punto di riprendere il controllo quando fu a qualche milione di chilometri dalla più vicina delle grandi sfere gassose, ma a quel punto era già stato catturato dal suo campo gravitazionale. Ci sarebbero volute ore perché la traiettoria giungesse alla sua mortale conclusione, ma la nave era condannata a sfracellarsi sul matos… e, a quella velocità, anche il morbido impatto caratteristico degli scontri tra materia normale e materia oscura sarebbe stato sufficiente per polverizzare il vascello. La nave di Gawst era ancora indenne, essendosi ancorata con un raggio trattore sotto il disco centrale. Thor non aveva alcun modo di dirigere lì il flusso di pallottole ghiacciate. Comunque, la Starplex avrebbe potuto continuare a ruotare finché la nave di Gawst non avesse terminato il carburante, se necessario… “Oh-oh.” Così Phantom tradusse il lampeggiare di luci sulla ragnatela di Rombo. Thor alzò gli occhi. «Maledizione!» esclamò. Dal bordo inferiore della stella verde erano spuntati uno… due… “cinque” altri caccia waldahud. Gawst non era stato così sciocco da concentrare tutte le sue forze nel primo attacco. Uno dei nuovi arrivati era un gigante, almeno dieci volte più grande delle sonde. Le cinque navi pilotate dai delfini della Starplex si erano disperse per evitare lo sbarramento di ghiaccio. Adesso però stavano ritornando in formazione e si dirigevano verso la forza d’attacco in avvicinamento, decisi a raggiungerla prima che questa potesse impegnare la nave-madre. Poi… «Che diavolo succede?» esclamò Keith, aggrappandosi ai braccioli. «Cristo!» disse Thor. «Cri-i-i-isto!» Il vasto campo di materia oscura aveva cominciato a muoversi, sulle prime lentamente ma ora con velocità crescente. Sembrò allungare tozzi tentacoli rotanti, verdastri dalla parte che dava sulla stella verde, neri come l’inchiostro dall’altra. I tentacoli crebbero fino a estendersi per milioni di chilometri, tubi di ghiaia con sfere grandi quanto pianeti distribuite sulla loro lunghezza come nocche di dita eteree. Le sonde della Starplex deviarono sopra o sotto i tentacoli. I piloti waldahud si trovarono con le navi trascinate in rotte irregolari, incapaci di compensare l’attrazione gravitazionale dei tentacoli. Nell’ologramma sferico, Keith vide le navi attaccanti vagare su percorsi erratici, da ubriachi, spinte fuori rotta da centinaia di masse gioviane nei nastri di materia oscura. I tentacoli crebbero a velocità sorprendente. Keith aveva ancora difficoltà con il concetto di macrovita in grado di prosperare nello spazio, ma sapeva benissimo che quasi tutte le forme viventi sono in grado di muoversi in fretta, quando vogliono… I piloti delle navi waldahud in arrivo cominciarono a capire di essere nei guai. Uno di loro interruppe una manovra di attacco nei confronti della Starplex e prese ad allontanarsi con una brusca virata. Un altro accese i razzi frenanti e gli scarichi accesero nel buio quattro nuvole di scintille color rubino. I matos continuarono però ad allungare verso di loro lunghe dita evanescenti nella notte. Se le navi fossero state in grado di entrare nell’iperspazio, sarebbero riuscite a fuggire. Ma il pozzo gravitazionale della stella verde, oltre a quelli creati dai matos (superficiali ma tuttavia significativi), non lo permettevano. Il più lontano dei nuovi aggressori si trovava ora solo a qualche chilometro da un tentacolo di materia oscura. Keith osservò mentre la distanza si riduceva a zero e la nave scompariva nella nube di ghiaia. Thor fornì un diagramma che mostrava la posizione del caccia nel tentacolo… il quale adesso non si allungava più. Anzi, si contraeva, e la sua forza di gravità trascinava all’indietro anche il vascello waldahud. Ben presto una seconda escrescenza di materia oscura avviluppò un’altra nave waldahud. Un terzo caccia tentava disperatamente di togliersi di là: Keith vide i lampi delle cariche esplosive quando la nave espulse i suoi sistemi d’arma nel tentativo di diminuire la propria massa totale. Ma la materia oscura continuava a guadagnare terreno. Nel frattempo, i due tentacoli che avevano già catturato navi continuavano a contrarsi e… che stranezza… avevano cominciato a ripiegarsi su se stessi, arcuandosi come cobra di cenere. Infine venne presa la terza navetta e anche quel dito grigio cominciò a contrarsi. La nave waldahud più grande fu presa di mira anch’essa, da sopra e da sotto, da due diversi tentacoli di materia oscura. Soltanto la quinta nave, tra le nuove arrivate, sembrava avere qualche possibilità di fuga. Ma Keith si sentì battere forte il cuore quando si accorse che Rissa e Lunga Bottiglia le erano alle calcagna. Si vide davanti agli occhi la faccia di suo figlio, che a diciannove anni era ancora un ragazzo, malgrado la barbetta caprina. Come avrebbe fatto a dirgli che sua madre era stata uccisa? I due tentacoli si erano inarcati in semicerchi, che rivolgevano la gobba verso la stella verde. Nell’esatto momento in cui il grande vascello fu racchiuso dai due raggi convergenti che gli davano la caccia, la prima delle due dita di materia oscura balzò in avanti come una frusta. Il caccia waldahud ne fu avvolto e poi subito scagliato via, e cominciò a roteare. Keith vide lampeggiare i puntini luminosi dei propulsori Acs, ma la rotazione della nave continuò immutata come se… Keith s’irrigidì. Santo Dio! …come se fosse stata scagliata a tutta forza verso la stella verde. Il vascello continuò a ruotare senza interruzione mentre la distanza con la stella verde diminuiva rapidamente. Il pilota riuscì infine a riprendere il controllo ma era ormai troppo vicino alla palla di fuoco del diametro di 1,5 milioni di chilometri. Già le eruzioni stellari lambivano il proiettile in arrivo… …e la nave si vaporizzò nell’alta atmosfera della stella. Keith gridò: «Rombo, chiama le sonde!» «Canale aperto.» «Ritornate alla Starplex!» ordinò Keith. «A tutte le navi, ritornate immediatamente alla Starplex.» Quattro sonde accusarono ricevuta del messaggio e cambiarono rotta, ma la quinta continuò a dirigersi verso il suo obiettivo. «Rissa!» urlò Keith. «Torna indietro!» Di colpo la seconda frusta di materia oscura schioccò nella notte, mandando un’altra nave waldahud a schiantarsi contro la stella verde. La testa di Keith continuava a scattare a destra e a sinistra, tra i due orrori gemelli: la nave di Rissa che si allontanava dalla Starplex e la corsa a capofitto del caccia verso la distruzione. La Rum Runner ruotava come la punta di un trapano nell’avvicinarsi al vascello nemico. I colpi dei cannoni laser posteriori della nave waldahud continuavano a mancare la sonda o a rimbalzare sui suoi schermi di forza. A un certo punto, però, il fuoco di sbarramento si interruppe: con ogni probabilità, anche i waldahudin a bordo della nave in fuga erano assorbiti dallo spettacolo che tutti stavano contemplando. La seconda nave che i matos avevano scagliato verso il sole stava rapidamente raggiungendo la sua destinazione. Dallo scafo emersero le scialuppe di salvataggio, ma i loro deboli motori non erano nemmeno in grado di metterle in orbita intorno alla stella. L’ultima cosa che i waldahudin condannati videro sui loro monitor furono probabilmente le strane macchie solari a forma di manubrio sulla superficie stellare, chiazze grigio-scuro su un inferno di giada liquida. Il PDQ e il Dakterth stavano raggiungendo la Starplex. Dovevano però avvicinarsi da sopra o da sotto per evitare la grandine espulsa dal disco della nave. Rombo usò i raggi trattori per trascinarle sulla superficie piatta del disco centrale: non era possibile farle arrivare ai portelli dei moli d’attracco, lo impediva il ghiaccio, ma c’erano morse per soste di emergenza su entrambe le facce del disco. La Rum Runner era ancora in caccia. «Rissa!» urlò Keith nel microfono. «Per l’amor di Dio, Rissa, torna a casa!» Di colpo il laser della Rum Runner entrò in azione e Phantom, diligentemente, ne tracciò il raggio sul display olografico. La lama di luce attraversò il cielo stellato. La perfetta mira di Rissa aveva staccato con un sol colpo il bozzolo-motore dallo scafo. Il bozzolo si allontanò roteando nella notte, circondato da un alone di gas che brillava di luce smeraldina. Poi, all’improvviso… Il bozzolo s’infiammò, divenne persino più lucente delle stella vicina, come per un’esplosione da fusione nucleare. Lunga Bottiglia mise in atto un folle salto mortale rovesciato per sfuggire alla bolla di plasma in espansione, poi puntò verso la Starplex diritto come un raggio laser. La nave waldahud priva di motore prese una traiettoria angolata, guidata solo dall’inerzia. La terza frusta di materia oscura schioccò, spedendo un altro caccia waldahud attraverso il firmamento. Mentre passava, Keith notò che parecchie piastre del suo scafo erano state deliberatamente espulse: evidentemente l’equipaggio aveva preferito aprire la nave al vuoto, piuttosto che cuocere vivo durante la caduta nel sole verde. Poi, il doppio dito che aveva avviluppato la grande nave waldahud prese a ruotare intorno al suo asse centrale, tracciando sulle prime un disegno simile a quello di una galassia spirale, ma continuando ad accelerare senza interruzione. Phantom mostrò la posizione della nave sepolta in un braccio della massa rotante. La rotazione divenne ancora più rapida, finché, come un atleta che lancia un disco, la materia oscura scagliò lontano la nave gigantesca. Il pilota cercò di riprendere il controllo per non scontrarsi con il sole, ma non appena iniziò a modificare la sua rotta mentre le bianche fiamme di fusione si stagliavano contro l’inferno verde, una gigantesca prominenza s’inarcò oltre la fotosfera e inghiottì la nave. «Quattro delle nostre cinque sonde sono al sicuro, agganciate al nostro scafo» comunicò Rombo. «E la Rum Runner sarà di ritorno tra 11 minuti.» Keith si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Eccellente. Ormai i ponti inferiori dovrebbero essere sgombri, vero?» «Sta salendo proprio adesso l’ultimo ascensore» disse Lianne. «Diamogli altri trenta secondi.» «Va bene. Mantieni i ponti inferiori a zero G, perché non siano invasi dall’acqua. Thor, interrompi la rotazione della nave.» «Agli ordini.» «Direttore» disse Rombo «la nave di Gawst si è attaccata al nostro scafo. Si tiene in posizione usando un raggio trattore.» Keith sorrise. «Divertente… un prigioniero di guerra.» Parlò ad alta voce. «Eccellente lavoro. Lo dico a tutti, Thor, Lianne, Rombo… eccellente.» Fece una pausa. «Grazie a Dio, i matos si sono schierati con noi. Direi che vale la pena di essere in buoni rapporti con la materia che costituisce la maggior parte dell’universo. Oltretutto…» «Cristo!» Era la voce di Thor. Keith si girò di scatto verso il pilota. Aveva parlato troppo presto: i tentacoli di materia oscura si stavano chiudendo sulla Starplex, adesso. «Tocca a noi» disse Rombo. «Ma noi siamo diversi ordini di grandezza più grossi delle navi waldahud» commentò Thor. «Dici che possono buttarci nella stella?» «Soltanto un terzo della materia oscura ha partecipato all’attacco contro le forze waldahud» osservò Rombo. «Se si muovesse tutta contemporaneamente contro di noi… Phantom, possono farlo?» “Sì.” «Chiama Occhio di Gatto» disse Keith. «Ci conviene parlargli.» «La frequenza è vuota» disse Rombo. «Sto trasmettendo… nessuna risposta.» «Thor, portaci via di qui.» «Rotta?» Keith rifletté per mezzo secondo. «Verso la scorciatoia.» Ma subito si rese conto che i tentacoli di materia oscura si erano già interposti tra la Starplex e quell’invisibile punto nello spazio. «No, ordine annullato» sbottò. «Portaci nella direzione opposta, verso la stella verde. E fai venire qui Jag, Phantom.» “Mi ha ordinato di non farlo entrare in questa stanza, signore” ribatté il computer. «Lo so. Ti ho appena dato nuove istruzioni. Fallo scendere qui subito.» Ci fu un minuto di silenzio mentre Phantom conferiva con Jag. «Allora, arriva?» «Che cos’hai in mente?» domandò Rombo. La materia oscura si avvicinava alla Starplex da tre lati, come una mano che si chiude su un insetto. «Un modo per battercela, spero… se non restiamo uccisi nel tentativo.» Il panorama stellato si aprì ed entrò Jag. Per la prima volta Keith vide una traccia di umiltà sulla faccia del waldahud: Jag, con ogni probabilità, aveva assistito alla battaglia spaziale e aveva visto i suoi compatrioti scagliati nella stella di smeraldo. Ma una parte del suo antico atteggiamento di sfida si affacciò nella voce, quando guardò Keith con aria sospettosa e disse: «Che cosa vuoi da me?» «Voglio» rispose Keith mantenendo la voce rigidamente controllata «far carambolare la Starplex intorno alla stella verde e scaraventarla nella scorciatoia da dietro.» «Santo Dio» esclamò Thor. Jag ringhiò, esprimendo un sentimento simile nella sua lingua. «Si può fare?» domandò Keith. «Funzionerebbe?» «Ehm… non lo so» rispose Jag. «Mi ci vorrebbero diverse ore per fare i calcoli.» «Non abbiamo ore a disposizione, al massimo minuti. Funzionerà?» «Non… sì. Forse.» «Anguria Scavata» chiamò Keith «ritrasferisci il controllo alla postazione di Jag.» «Subito» disse il delfino. Jag si accomodò al suo solito posto. «Computer centrale» abbaiò «mostra sul monitor la nostra attuale traiettoria.» “Le è interdetto l’uso di ogni apparecchiatura, fatta eccezione per le necessità domestiche.” «Correzione» sbottò Keith. «Gli arresti domiciliari di Jag sono sospesi fino a nuovo avviso.» Il diagramma richiesto comparve. Jag lo esaminò con la massima cura. «Magnor?» «Sì?» disse Thor. «Abbiamo al massimo dieci minuti prima di essere inglobati. Ci serviranno tutti i nostri razzi ventrali. Copia il mio monitor 6 nella modalità touch-screen.» Thor premette alcuni pulsanti. «Fatto.» Con una delle sue dita piatte, Jag tracciò un arco lungo il diagramma. «Ce la fai a seguire questa rotta?» «Con pilotaggio manuale, vuoi dire?» «Certo, manuale. Non abbiamo il tempo di programmarla.» «Be’… Ce la farò.» «Vai. Parti immediatamente!» «Direttore?» «Fra quanto la Rum Runner sarà ancorata al nostro scafo?» «Quattro minuti» rispose Rombo. «Non abbiamo il tempo di aspettarla» esclamò Jag. Keith si girò per ribattere, ma rinunciò subito. «Alternative?» domandò, rivolgendosi senza distinzione a chiunque si trovasse sul ponte. «Potrei mettere un raggio trattore sulla Rum Runner» suggerì Rombo. «Non riuscirò a tirarla dentro prima che colpiamo la scorciatoia, ma dovrebbe bastare per trascinarla con noi. Poi Lunga Bottiglia dovrebbe riuscire a imboccare la scorciatoia con i suoi mezzi.» «Va bene. Thor, portaci via di qui.» La Starplex scattò verso la stella secondo una traiettoria molto angolata. «Propulsori a pieno regime» disse Thor. «Ce un altro problema che dobbiamo risolvere» disse Jag rivolto a Keith. «Ci sono buone probabilità che io riesca a portare la nave alla scorciatoia, ma quando arriveremo avremo solo il tempo per tuffarci al suo interno. Non riusciremo a rallentare né a calibrare l’angolo di avvicinamento, e con gli iperscopi del ponte 70 danneggiati non posso nemmeno prevedere da quale uscita sbucheremo. Potremmo arrivare a qualunque destinazione.» Le dita di materia oscura continuavano ad allungarsi sulla Starplex. «Fra qualche minuto, qualunque destinazione sarà preferibile a questo posto» fece osservare Keith. «Portaci via di qui, e basta.» La nave intraprese una sbandata controllata intorno alla stella. Metà dell’ologramma del ponte era occupato dal globo verde, rendendo visibili i dettagli della sua superficie granulosa e delle sue macchie a forma di manubrio. Gran parte del panorama rimanente era nebbioso, poiché i tentacoli di materia oscura eclissavano le stelle sullo sfondo. «Rombo, hai agganciato bene la Rum Runner?» «È ancora lontana 400 chilometri e la materia oscura comincia a mettersi in mezzo, però la tengo.» Keith fece un sospiro di sollievo. «Bel lavoro. Sei riuscito a metterti in contatto con Occhio di Gatto, o con qualche altro matos?» «Continuano a ignorare le nostre chiamate» rispose Rombo. «Non possiamo arrivare vicini alla stella quanto vorrei» disse Jag. «Non è rimasta abbastanza acqua nel ponte oceano per una schermatura efficace e gli schermi di forza sono ancora fuori uso. I matos hanno il trenta per cento di probabilità di intrappolarci.» Keith si sentiva il cuore battere nel petto. La Starplex continuò ad aggirare la stella nella sua rotta a parabola, mentre i tentacoli continuavano ad allungarsi per afferrarla. La Rum Runner era indicata nella olobolla come un quadratino collegato a un raggio trattore giallo. Il campo stellato roteò… avevano sfiorato l’atmosfera della stella e Thor stava mutando l’angolazione della nave. Infine la Starplex raggiunse la cuspide della parabola e, sfruttando il potente effetto-fionda della stella, si diresse a tutta velocità verso la scorciatoia. Nella bolla olografica, Phantom accentuò la luminosità del raggio trattore giallo, indicando che gli era stata fornita una potenza maggiore. La rotta della Starplex, che si trovava 400 chilometri più vicino alla stella, era significativamente diversa da quella che la Rum Runner avrebbe seguito se fosse stata lasciata alla sua sola forza d’inerzia. «Due minuti al contatto con la scorciatoia… “adesso”» disse Rombo. «Non abbiamo mai attraversato una scorciatoia a una velocità simile» osservò Jag. «Né l’ha fatto nessun altro. Dovremmo tutti agganciare le cinture di sicurezza, o almeno aggrapparci a qualcosa.» «Lianne, trasmetti questa raccomandazione» disse Keith. «A tutto il personale» risuonò la voce di Lianne, riecheggiando dagli altoparlanti. «Possibilità di turbolenze.» All’improvviso un grande oggetto di forma irregolare eclissò parte del campo visivo. «È la nave di Gawst» disse Lianne. «Si sta staccando dal nostro scafo. Probabilmente pensa che siamo diventati matti.» «Potrei bloccarlo con un altro raggio trattore» propose Rombo. Keith sorrise. «No, lascialo andare. Se è convinto di avere possibilità migliori con i matos, per me va bene.» «Ottanta secondi, da adesso» disse Rombo. Dall’invisibile pavimento risalirono morse color arancione che si agganciarono alle sue ruote. «Uno virgola quattro gradi all’impatto, Magnor» disse Jag. «Stai per mancare la scorciatoia.» «Sto correggendo la rotta.» «Sessanta secondi.» «Aggrappatevi tutti» disse Lianne. «Stiamo per…» Buio. Assenza di peso. «Maledizione!» La voce di Thor. Un latrato: parole di Jag, senza la traduzione di Phantom. Un lampeggiare di luci, l’unica illuminazione nella stanza: era Rombo che diceva chissà cosa. «Manca l’energia» gridò Thor. Si accesero le luci rosse di emergenza e altrettanto fece la gravità di emergenza: una priorità, a causa degli ib. Da una parte all’altra della stanza si udirono rumori di tonfi e spruzzi: quando la gravità era mancata, l’acqua nelle vasche dei delfini si era gonfiata in grandi forme a cupola, per ricadere poi dappertutto quando il peso era tornato. Nessuna bolla olografica circondava più il ponte. Si vedevano invece le pareti grigio-azzurre di plastomero. Keith era ancora seduto sulla sua sedia, mentre Jag era sul pavimento avendo ovviamente perso l’equilibrio nel breve periodo a zero G. Alle tre postazioni della fila anteriore — operazioni interne, Timone e operazioni esterne — si accesero di luci tornando alla vita. Quelle della fila posteriore erano meno necessarie e rimasero spente, per risparmiare l’energia delle batterie. «Abbiamo perso la Rum Runner» annunciò Rombo. «Si è staccata quando al raggio trattore è mancata l’energia.» «Interrompi l’inserimento nella scorciatoia!» esclamò Keith. «Troppo tardi» disse Thor. «L’attraverseremo per pura forza di inerzia.» Keith chiuse gli occhi. «In che direzione si è allontanata la Rum Runner?» «Non sarà possibile calcolarlo finché i sensori non torneranno in attività» disse Rombo. «Noi però la stavamo trainando, quindi adesso dovrebbe muoversi più o meno in linea retta verso la stella verde.» «Il generatore numero 1 ha ceduto per i danni della battaglia» intervenne Lianne, consultando il monitor. «Passo ai generatori di riserva.» La voce di Phantom: “Pro-va di avvi-a-men-to. Attivo.” La bolla olografica si riformò, con un’esplosione di luce che circondò tutti i presenti. Poi tornò il panorama esterno, dominato dalla stella verde e per il resto annebbiato dai tentacoli in avvicinamento di materia oscura. Keith scrutò invano all’esterno, alla ricerca di qualsiasi segno della Rum Runner. La voce di Thor: «Dieci secondi all’inserimento nella scorciatoia. Nove, otto.» La voce di Lianne, dall’alto, proveniente dagli altoparlanti per gli annunci pubblici: «Torneremo alla piena operatività fra sessanta secondi. Preparatevi…» «Due. Uno. Contatto!» Le luci rosse di emergenza si affievolirono e apparve la scorciatoia, simile a un anello viola che s’allargava intorno a loro, sotto i piedi così come sopra la testa, mentre il punto infinitesimo si espandeva per inghiottire la grande nave. A poppa dell’anello c’era ancora il familiare cielo con la stella verde e la materia oscura all’inseguimento, ma davanti c’era un cielo quasi completamente nero. Il passaggio richiese soltanto pochi secondi, con la Starplex che sfrecciava a una velocità mozzafiato. Keith rabbrividì quando si rese conto di ciò che era accaduto. Le luci di Rombo rotearono in schemi che denotavano stupore. Lianne emise un flebile singhiozzo. Jag si lisciò la pelliccia, pensieroso. Tutt’intorno si estendeva una nera vacuità, a eccezione di un indistinto ovale bianco, di tre macchioline bianche più in alto e di una manciata di puntini indistinti sparsi qua e là nella notte. Erano emersi nel vuoto dello spazio intergalattico. Le macchioline bianche non erano stelle, ma intere galassie. E nessuna delle tre aveva l’aspetto della Via Lattea. 18 Rissa sentì un tuffo al cuore quando la Rum Runner si staccò dalla Starplex. «Che cos’è successo?» gridò. Lunga Bottiglia, però, era troppo indaffarato per rispondere. Continuava a roteare e caprioleggiare nel serbatoio, facendo ogni sforzo per riprendere il controllo della nave. Sui monitor, Rissa vide la stella verde sfrecciare sotto di loro. La sua superficie era un ruggente oceano di smeraldo, giada e malachite. Tenne a bada l’ondata di panico che stava arrivando e si sforzò di capire da sola che cos’era andato storto. Di sicuro non era stato Keith a tranciare il raggio trattore, quindi rimanevano solo due possibilità: lo aveva tagliato Gawst, usando chissà quale trasmissione d’interferenza, oppure alla Starplex era mancata l’energia. Comunque fosse andata, si erano staccati dalla nave-madre e adesso erano diretti quasi esattamente verso la stella. Attraverso la parete trasparente che separava la sua camera piena d’aria da quella piena d’acqua di Lunga Bottiglia, Rissa vide il delfino inarcarsi, come per una fitta di dolore e poi colpire con la testa la parete opposta quasi che così facendo potesse costringere la nave a prendere la direzione da lui scelta. Rissa guardò i monitor e il suo cuore per un istante si fermò. Vide la Starplex scomparire attraverso la scorciatoia per andare… dovunque fosse diretta. La grande vetrata della nave era buia, a confermare la caduta di energia. Se davvero la nave non aveva più energia, Rissa sperava che fosse diretta verso Nuova Pechino o Flatlandia dove avrebbe trovato altri vascelli pronti ad aiutarla. In caso contrario, forse non sarebbe mai riuscita a ritornare indietro… e una ricerca di tutte le uscite attive non sarebbe stata avviata prima che le batterie della Starplex si esaurissero, lasciandola priva di ogni supporto vitale. Ma Rissa non aveva il tempo di meditare sul fato del marito e dei colleghi: la Rum Runner stava sempre precipitando verso la stella verde. Il finestrino di prua si era già considerevolmente oscurato nello sforzo di filtrare l’inferno sotto di loro, mentre Lunga Bottiglia continuava a litigare con i comandi che portava attaccati a pinne e coda. Il delfino fece un’improvvisa giravolta nel serbatoio e Rissa vide la stella verde correre via lungo l’orizzonte e uscire di vista. Lunga Bottiglia aveva rivolto i motori principali verso la stella per usarli come freni. La nave ebbe una vibrazione mentre Rissa vedeva Lunga Bottiglia escludere gli automatismi di sicurezza premendo con il muso alcuni pulsanti. «Squali!» strillò Lunga Bottiglia. Per qualche istante Rissa pensò che si trattasse di una specie di scongiuro delfinesco, poi capì a che cosa si riferiva: il cielo era annebbiato da tentacoli di materia oscura, con le sfere grigie che nel miasma di materia quark-lucente sembravano quasi i nodi di un gatto a nove code. Lunga Bottiglia si girò verso destra e la nave lo seguì. Ma ben presto un’oscurità molto più definita bloccò la loro visuale. «La nave di Gawst» disse Lunga Bottiglia. «Accidenti» commentò Rissa. Abbassò le mani sui comandi che controllavano i laser geologici. Non avrebbe sparato se non in caso di necessità, però… Puntini color rubino sullo scafo di Gawst. Rissa avvicinò il pollice ai due interruttori gemelli del laser. Lunga Bottiglia doveva aver visto il movimento. «Razzi Acs» disse «non laser. Anche lui tenta di allontanarsi dai matos.» La visuale cambiò mentre Lunga Bottiglia variava la rotta della Rum Runner. La stella verde alle spalle, la nave nemica di fronte, i matos a tribordo ma in avvicinamento sia da sopra sia da sotto. C’era un’unica via di fuga possibile. Lunga Bottiglia percosse con il muso i comandi. «Alla scorciatoia!» strillò con la sua voce acuta. Rissa premette rapidamente vari tasti. Su uno dei suoi monitor comparve la mappa iperspaziale, con il gorgo di tachioni in evidenza intorno al punto di uscita. «Più manovrabili siamo noi della Starplex» disse Lunga Bottiglia. «L’uscita possiamo scegliere.» Rissa rifletté per mezzo secondo. «Hai idea di dove siano andati Keith e gli altri?» «No. La scorciatoia ruota. Potrei replicare il loro angolo d’ingresso, ma non la scelta di tempo necessaria per uscire nello stesso luogo.» «Allora andiamo a Nuova Pechino» disse Rissa. «È lì che la Starplex si dirigerà alla fine per le riparazioni… se potrà.» Lunga Bottiglia si dimenò nel serbatoio, e la Rum Runner s’inarcò prima in su poi in giù, dirigendosi alla scorciatoia ondeggiando da sotto in su. «Entrata fra secondi cinque» disse. Rissa trattenne il fiato. Sui monitor non si vedeva nulla, proprio nulla… Un lampo color porpora. Una diversa disposizione delle stelle. Una grossa nave nera. Una nave che sparava contro una flotta di vascelli delle Nazioni Unite. Quattro… no, cinque!… carcasse senza vita roteavano nella notte, circondate da nubi di aria espulsa. Il tutto era bagnato dalla luce sanguigna della nana rossa recentemente emersa da quella scorciatoia. Le parole lampeggiarono davanti agli occhi di Rissa, come il titolo di un capitolo di libro di testo del futuro… “La disfatta di Tau Ceti”. Le forze waldahud avevano attaccato la colonia terrestre, impadronendosi dell’unica scorciatoia che serviva lo spazio umano grazie a un gigantesco incrociatore da battaglia che aveva avuto facilmente ragione della navetta diplomatica che di norma stazionava in quel punto… Un gigantesco incrociatore da battaglia che aveva tutti gli schermi di forza rivolti in avanti, per proteggersi dal fuoco di ritorno delle navi delle Nazioni Unite… Un gigantesco incrociatore da battaglia che la Rum Runner aveva sorpreso alle spalle. Rissa non aveva mai ucciso nessuno, prima. Non aveva nemmeno mai causato danni fisici, se non per errore. Non aveva… “La disfatta di Tau Ceti”. Afferrò le maniglie che servivano a dirigere il laser e avvicinò il dito al grilletto. Lì non c’era Phantom a rendere visibile il raggio e la nave waldahud era troppo lontana perché lei potesse vedere il puntino rosso muoversi lungo il suo scafo… Muoversi lungo i propulsori, i serbatoi del carburante… Fenderli e strapparli… Dare fuoco al carburante… E poi… Un globo di luce, come una supernova… Il boccaporto di prua che diventava completamente nero… Lunga Bottiglia fece una capriola all’indietro nel serbatoio, facendo allontanare la Rum Runner dalla sfera in espansione dei rottami. Rissa allontanò le dita dal grilletto, mentre il vetro del boccaporto tornava a schiarirsi. Tremava da capo a piedi. Quanti waldahudin potevano esserci, in una nave di quelle dimensioni? Cento? Mille? Se l’idea era quella di puntare sul sistema solare e devastare la Terra, Marte e la Luna, i soldati ammassati a bordo potevano arrivare al numero di diecimila… Tutti morti. Morti. C’erano altre navi waldahud nella zona, ma si trattava di piccole scialuppe monoposto. Il grande vascello nero doveva essere stato la nave-madre. Rissa espirò rumorosamente. «Hai agito bene» disse gentilmente Lunga Bottiglia. «Hai fatto solo il tuo dovere.» Lei non disse nulla. Ora le navi delle Nazioni Unite si stavano riorganizzando… Nuova Pechino, dopotutto, era una colonia umani-“delfini”… e cominciavano a dare la caccia alle navette waldahud più piccole. La Rum Runner sbandò appena quando passò attraverso alla nube di atmosfera espulsa dalla nave da battaglia. La consolle di Rissa emise un trillo. Lei guardò la luce sul quadro comandi, rossa come una goccia di sangue, ma non mosse un muscolo. Lunga Bottiglia le lanciò una rapida occhiata, poi colpì col naso l’analogo comando nel serbatoio. Dagli altoparlanti uscì una voce di donna. “Da Liv Amundsen, comandante delle forze di polizia delle Nazioni Unite di Tau Ceti, alla nave ausiliaria della Starplex.” Rissa si girò verso i monitor. La nave della Amundsen era ancora lontana tre minuti luce, non aveva senso intavolare una conversazione. “Abbiamo identificato il segnale del vostro radarfaro. Grazie per l’arrivo così tempestivo. Abbiamo avuto gravi perdite, più di duecento morti, ma grazie a voi Nuova Pechino è salva. Scommetto che vi appiccicheranno una medaglia sul petto, chiunque voi siate. Chiudo.” “Una medaglia” pensò Rissa. “Cristo, questi pensano alle medaglie.” «Rissa?» la chiamò Lunga Bottiglia. «Vuoi che ci pensi io a…» «No» ribatté Rissa, scuotendo la testa. «No, lo farò io.» Premette un pulsante. “Parla la dottoressa Clarissa Cervantes, dalla Rum Runner. Siamo qui in due, l’altro è il pilota: un delfino di nome Lunga Bottiglia. Anche la Starplex è stata attaccata da forze waldahudin, dopodiché è entrata nelle rete delle scorciatoie con destinazione sconosciuta. Potrebbe però richiedere un ricovero di emergenza in bacino di carenaggio. Potete pensarci voi?” Rissa osservò le stelle andare alla deriva mentre attendeva che il segnale raggiungesse la nave della Amundsen e che la risposta fosse di ritorno. “Le forze waldahud furono respinte a Tau Ceti” diceva il libro di storia nella sua mente. Ma quale sarebbe stato il prossimo capitolo? Duecento abitanti della Terra e delle sue colonie erano morti… I delfini non credevano nella vendetta, ma gli umani vi avrebbero rinunciato? Si sarebbe risolto tutto in una scaramuccia o stava per scoppiare la madre di tutte le guerre? “Negativo, dottoressa Cervantes” disse infine la voce della Amundsen. “Le attrezzature portuali sono state le prime a essere spazzate via dai waldahudin.” Ovvio, pensò Rissa. Si comincia sempre da Pearl Harbor. “Per la Starplex suggerisco i cantieri di Flatlandia, anche se dovrà usare la massima prudenza nell’attraversare la scorciatoia in quella direzione: sarà bene ricordarle che una stella di classe G sub-gigante è emersa poco tempo fa dalla scorciatoia. Per una nave piccola come la vostra, comunque, possiamo offrire servizi di riparazione anche qui.” Rissa osservò i monitor. La battaglia non era ancora finita. I vascelli della polizia continuavano a scontrarsi con navette waldahud, anche se alcune di esse sembravano essersi arrese espellendo spontaneamente il bozzolo-motore. «Ci serve carburante» disse Lunga Bottiglia a Rissa. «E i propulsori devono avere il tempo di raffreddarsi… li ho sfruttati oltre ogni limite.» “Va bene” comunicò Rissa parlando nel microfono. “Arriviamo.” Fece un cenno a Lunga Bottiglia e subito lui ruotò nel serbatoio mettendo in movimento la nave. Rissa però continuava a sentire il cuore che le martellava nei petto. Chiuse gli occhi, cercando di non pensare a quel che aveva fatto. 19 «Lianne, rapporto sui danni» ordinò Keith. «Quelli della battaglia sono ancora in elaborazione, ma il passaggio ad alta velocità nella scorciatoia non ha provocato nuovi problemi.» «Perdite?» Lianne scosse la testa, mentre con l’impianto auricolare ascoltava i vari rapporti. «Nessun morto. Però abbiamo parecchie fratture e un paio di commozioni cerebrali. Niente di preoccupante, comunque. E Jessica Fong è venuta fuori alla grande dal molo d’attracco 16, anche se piena di abrasioni e con un braccio e un’anca fratturati.» Keith annuì, sospirando di sollievo. Alzò lo sguardo sulla bolla olografica, cercando di distinguere qualche dettaglio nel tenue spolverio di bianco contro il nero infinito. «Dio mio» disse sottovoce. «Tutti gli dèi sono molto, molto lontani da qui» commentò Jag. Thor si girò a guardarlo. «Siamo davvero nello spazio intergalattico?» Jag sollevò le spalle superiori in segno di assenso. «Ma… non ho mai sentito parlare di nessuna uscita così lontana» disse Lianne. «Le scorciatoie non esistono da un tempo infinito» fece notare Jag. «E i segnali emessi da un portale situato nello spazio intergalattico potrebbero non avere ancora raggiunto i mondi del Commonwealth, anche viaggiando nell’iperspazio.» «Ma come fa una scorciatoia a trovarsi a metà strada tra due galassie?» domandò Thor. «A che cosa è ancorata?» «Ottima domanda» disse Jag, abbassando la testa per consultare la sua strumentazione. «Ah, ecco. Da’ un’occhiata allo scanner iperspaziale, Magnor.» C’è un grosso buco nero a circa sei anni luce da qui. Thor emise un fischio sommesso. «Cambio subito rotta per stargli alla larga.» «Può costituire un pericolo?» domandò Keith. «Direi di no, capo. A meno che io non mi addormenti al volante.» Jag azionò alcuni comandi e sulla olobolla comparve un’area riquadrata. Lo spazio al suo interno, però, era vuoto e nero esattamente come quello che lo circondava. «In genere, intorno a un buco nero si forma un disco di accrescimento» disse Jag «ma qui fuori non c’è niente per alimentarlo.» Si azzittì per un istante. «La mia ipotesi è che si tratti di un buco nero antico… deve avere impiegato miliardi di anni per spingersi fin qui. Probabilmente è ciò che resta di un sistema stellare binario: quando la componente più grande è diventata una supernova, si è generato un impulso asimmetrico che ha spinto il buco nero risultante fuori dalla sua galassia d’origine.» «Ma che cosa può avere attivato la scorciatoia?» si chiese Lianne. Jag alzò tutte e quattro le spalle. «Il buco attira a sé qualunque forma di materia che si aggiri nei dintorni. È probabile che qualche oggetto, risucchiato in questa direzione dal buco, sia caduto invece dentro la scorciatoia.» Jag cercava di mantenere un atteggiamento disinvolto, ma era chiaro che perfino lui era rimasto scioccato da quello sviluppo della situazione. «Siamo stati davvero fortunati perché, con ogni probabilità, le scorciatoie nello spazio intergalattico sono rare come fango senza impronte.» Keith guardò Thor sforzandosi di mantenere la voce tranquilla e controllata. Lui era il direttore e, per quanto la Starplex di solito somigliasse più a un laboratorio di ricerca che a un vascello marino, sapeva che tutti gli occhi erano puntati su di lui e in lui cercavano forza. «Qual è il tempo minimo per rientrare nella scorciatoia?» domandò. «E per ricongiungerci alla Rum Runner?» «Abbiamo ancora gravi problemi con gli impianti elettrici» comunicò Lianne. «Non vorrei muovere la nave finché non si saranno tutti stabilizzati e ci vorranno tre ore per…» «Tre ore!» esclamò Keith. «Ma…» «Tenterò di ridurre i tempi» disse Lianne. «E se nel frattempo inviassimo nella scorciatoia una sonda, per aiutare Rissa e Lunga Bottiglia?» suggerì Keith. Nella stanza ci fu un istante di silenzio. Rombo rotolò alla postazione di comando e sfiorò delicatamente con una delle corde manipolatorie il braccio di Keith. «Non è possibile, amico mio» disse, e Phantom tradusse sussurrando la bassa intensità delle sue luci. “Non puoi mettere in pericolo un’altra nave.” Il direttore sono io, pensò Keith. Posso fare tutto ciò che voglio, maledizione. Scosse la testa, cercando di recuperare il controllo di sé. Se succedeva qualcosa a Rissa… «Hai ragione» disse infine. «Grazie.» Sentì il cuore accelerare i battiti mentre si girava verso Jag. «Dovrei farti rimettere subito agli arresti, razza di…» «Maiale» completò Jag, e il latrato sottostante fu un’eccellente imitazione della parola terrestre. «Vai avanti, dillo.» «Mia moglie è là fuori, chissà dove. Forse è morta, insieme con Lunga Bottiglia. Che diavolo avevi intenzione di ottenere?» «Non ammetto nulla.» «I danni a questa nave ammontano a miliardi. Il Commonwealth si rifarà su di te, di questo puoi stare certo…» «Non sarai mai in grado di dimostrare che la mia richiesta di spostare la Starplex abbia qualcosa a che fare con ciò che è accaduto in seguito. Puoi insultarmi quanto vuoi, umano, ma perfino i vostri rozzi tribunali richiedono prove per sostenere un’accusa. La creatura di materia oscura che desideravo esaminare lasciava davvero un’insolita impronta iperspaziale, gli astronomi potranno confermarlo. Ed era davvero invisibile dal punto di osservazione della Starplex, prima dello spostamento.» «Avevi detto che il matos stava per riprodursi. Invece non ha fatto niente del genere.» «Il tuo guaio è quello di essere un sociologo, Lansing. A noi fisici capita più spesso di dover affrontare la realtà, cioè il fatto che alcune delle nostre teorie siano sconfessate dagli eventi.» «Era un trucco per…» «Era un esperimento, qualunque altra conclusione è opinabile. Se insisti in queste accuse ti farò incriminare per diffamazione.» «Bastardo. Se Rissa morirà…» «Se la dottoressa Cervantes dovesse morire ne sarei dispiaciuto. Non le auguro alcun male. Tuttavia, per quel che ne sappiamo, lei e Lunga Bottiglia hanno attraversato la scorciatoia e ora sono in salvo. Sono i “miei” compatrioti a essere morti oggi, non i tuoi.» Lianne parlò con voce dolce, dalla sua consolle. «Ha ragione lui, Keith. Abbiamo perso delle attrezzature e parecchie persone sono rimaste ferite, ma nessun membro dell’equipaggio della Starplex è morto.» «A parte, forse, Rissa e Lunga Bottiglia» esclamò Keith. Fece un respiro profondo, cercando di calmarsi. «L’avete fatto per i soldi, vero, Jag? Fra tutti i mondi del Commonwealth, Rehbollo è stato quello colpito più duramente dal punto di vista economico a causa dell’apertura del commercio interstellare. Voi non avete mai costruito due oggetti nello stesso…» «Sarebbe un affronto al dio degli artigiani!» «Sarebbe soltanto efficiente, cosa che le vostre industrie e i vostri operai non sono. Così avete pensato di rimpolpare le vostre casse planetarie: anche smontata a pezzi, la Starplex ha un valore di triliardi… e c’è un sacco di gloria in un’azione simile. E se per caso la sua confisca avesse scatenato una guerra, be’… che c’è di meglio di una piccola guerra per ridare fiato all’economia?» «Nessun essere sano di mente desidera la guerra» disse Jag. «Phantom» sbottò Keith. «Jag è nuovamente agli arresti domiciliari.» “Registrato.” «Questo atto potrà compiacere il tuo spirito punitivo» abbaiò Jag «ma questo è ancora un vascello scientifico, e noi siamo i primi esseri del Commonwealth a vedere lo spazio intergalattico. Dobbiamo determinare la nostra posizione esatta, e io sono la persona più qualificata per svolgere questo compito. Annulla l’ordine di arresto e smettila di berciare. Provvederò io a calcolare dove ci troviamo.» «Capo» intervenne Thor, con gentilezza. «Lo sai anche tu che è vero. Permettigli di darci una mano.» Keith attese qualche istante per fare sbollire la rabbia, poi annuì seccamente ma senza aggiungere nessun ordine. Così Thor disse ad alta voce: «Phantom, annulla gli arresti domiciliari per Jag.» “L’annullamento richiede l’autorizzazione del direttore Lansing.” Keith espirò rumorosamente. «Va bene così, Phantom. Però controlla tutti gli ordini che impartisce e se qualcuno non sembra in relazione con l’obiettivo di determinare la nostra posizione, notificamelo immediatamente.» “Registrato. Fine degli arresti domiciliari.” Keith si rivolse a Thor. «Dove siamo diretti, adesso?» Thor consultò gli strumenti. «Siamo ancora su una versione modificata della rotta parabolica che abbiamo usato per sfruttare la gravità della stella verde. Ovviamente, però, la traiettoria si è modificata quando abbiamo cessato di avvertire l’influsso gravitazionale della stella. Di conseguenza…» «Magnor» lo interruppe Jag. «Ho bisogno che la nave venga ruotata secondo lo schema di Gaf Wayfarer: ci manca una delle due serie di iperscopi e a me serve una scansione iperspaziale parallattica dell’intero cielo.» Thor azionò alcuni comandi e la bolla olografica che circondava il ponte iniziò una complicata serie di rotazioni. Poiché però lo spazio era vuoto, a parte le scarse macchioline bianche, le oscillazioni e le giravolte non causarono nessun senso di mal di mare. Il pilota guardò Keith. «A proposito del ritorno a casa: l’uscita della scorciatoia alle nostre spalle appare, vista nell’iperspazio, identica a tutte le altre che conosciamo, completa di meridiano zero. Nell’ipotesi che questi affari funzionino sempre nello stesso modo anche a milioni di anni luce di distanza, non appena Lianne avrà tutti i sistemi elettrici in funzione, dovrei riuscire a portare la nave a qualunque scorciatoia attiva mi venga indicata.» «Bene» commentò Keith. «Lianne, quanto gravi sono i danni della battaglia?» «Tutti i ponti dal 54 al 70 sono inondati» rispose lei da un ologramma sopra la testa di Keith. «E tutte le attrezzature dal ponte 41 in giù hanno subito qualche danno a causa dell’acqua. Inoltre, tutti i ponti sotto il disco centrale hanno assorbito una massiccia dose di radiazioni quando abbiamo costeggiato la stella verde. Suggerisco di dichiarare inabitabile l’intera metà inferiore.» Dopo un momento di silenzio, Lianne proseguì. «Quelli della Starplex 2 se la prenderanno con noi: abbiamo reso inservibili per due volte di seguito la sezione inferiore dei moduli abitativi.» «Gli schermi come sono messi?» «Gli emettitori di campo di forza si sono tutti surriscaldati, ma ho già messo al lavoro gli ingegneri per ripararli e uno schermo minimo sarà disponibile entro un’ora. In un certo senso è un bene che siamo finiti nello spazio intergalattico: qua fuori la probabilità di essere colpiti da un micrometeorite è minima.» «E i danni provocati da Gawst quando ha staccato il generatore numero 2?» «Le mie squadre hanno già messo in posizione paratie temporanee intorno al buco» rispose Lianne. «Dovrebbero durare fino al nostro arrivo in un cantiere.» «Gli altri generatori?» «Il numero 3 ha tutti i collegamenti elettrici danneggiati. C’è una squadra al lavoro per poterlo utilizzare almeno come riserva, ma non so se abbiamo in magazzino abbastanza cavi a fibre ottiche a banda larga per completare il lavoro. Forse saremo costretti a fabbricarne un po’ di nuovi. In ogni caso, finché il generatore non tornerà operativo non potremo fare uso dei motori principali. Un’altra nave waldahud aveva cominciato a colpire anche il generatore numero 1: è la sua mancanza che ha causato il black out energetico. Dovremmo comunque essere in grado di riportarlo in piena efficienza.» «I moli di attracco?» «Il molo 16 è pieno di acqua ghiacciata» rispose Lianne. «Inoltre, tre delle cinque sonde coinvolte nella battaglia hanno bisogno di riparazioni.» «Possiamo almeno tenere lo spazio?» domandò Keith. «Mi piacerebbe poter mettere in calendario almeno tre settimane ai cantieri per riparare i danni, ma a breve termine non corriamo pericoli.» Keith annuì. «In tal caso, Thor, non appena Lianne annuncerà che siamo pronti per azionare i motori, prepara una rotta che attraversi la scorciatoia facendoci sbucare esattamente dove siamo partiti, vicino alla stella verde.» Le sopracciglia color arancione di Thor si inarcarono. «So che vuoi soccorrere la Rum Runner, Keith, ma se la nave si è salvata, Lunga Bottiglia deve averla già portata il più lontano possibile da lì.» «Sì, è probabile. Ma non è per questo che voglio tornare là.» Lanciò un’occhiata a Rombo. «Qualche minuto fa hai detto una cosa giusta, amico a rotelle: dobbiamo tenere presenti le nostre priorità. E lo scopo per cui la Starplex è stata costruita è, in primo luogo, quello di prendere contatto con altre forme di vita. Non permetterò che il Commonwealth diventi come gli Sbattiporta, che tagli ogni comunicazione a causa di un malinteso. Voglio scambiare altre due chiacchiere con i matos.» «Hanno tentato di ucciderci» fece notare Thor. Keith alzò una mano. «Non sarò così sciocco da dare loro una seconda possibilità di buttarci nella stella verde. Riesci a tracciare una rotta che ci porti fuori dalla scorciatoia con la giusta direzione, che possa nuovamente sfruttare l’effetto-fionda della stella e che infine ci riporti alla scorciatoia lungo un vettore che ci conduca all’uscita Flatlandia 368A?» Dopo averci pensato per un po’, Thor rispose: «Sì, è possibile. Ma perché F368A e non Nuova Pechino?» «Per quel che ne sappiamo, non è detto che l’attacco alla Starplex sia stato un evento isolato: Nuova Pechino potrebbe essere assediata. Preferisco una destinazione neutrale.» Una pausa. «Veniamo a noi. Con la rotta che ho descritto, i matos riusciranno ad afferrarci?» Thor scosse la testa. «Considerata la velocità che avremo, no. A meno che non siano tutti là in attesa, all’uscita della scorciatoia.» «Rombo» chiamò Keith. «Non appena Lianne avrà fatto riparare i sistemi relativi, manda una sonda all’uscita della stella verde. Aggiungici uno scanner iperspaziale, in modo che possa localizzare i matos dalle infossature che causano allo spaziotempo. Falle fare anche un’analisi radio ad ampio spettro, per controllare che non siano arrivati rinforzi waldahud. E infine…» Keith tentò di bloccare il tremito nella voce «falle controllare se capta il codice di radarfaro della Rum Runner.» «Ci vorranno almeno trenta minuti perché il lancio sia possibile» comunicò Lianne. Keith si morse un labbro e pensò a Rissa. Se lei non c’era più, i miliardi di anni che gli restavano da vivere non sarebbero bastati ad attutire la perdita. Osservò il flebile biancore delle luci galattiche che si stagliavano contro l’abisso. Non sapeva nemmeno in quale direzione guardare, dove concentrare i suoi pensieri. Si sentiva incredibilmente piccolo, insignificante e solo. Nella bolla olografica non c’era nulla su cui fissare lo sguardo, niente di netto, niente di ben definito. Soltanto l’abisso… un vuoto che schiacciava l’ego. Proprio in quel momento, da un punto alla sua sinistra venne un rumore strano, simile al colpo di tosse di un cane. Phantom la tradusse come “espressione di assoluto stupore”. Keith si girò verso Jag e rimase a bocca aperta: non aveva mai visto la pelliccia di Jag in quelle condizioni. «Che cosa succede?» «So dove siamo» rispose Jag. Keith lo fissò. «E allora?» «Lo sai, vero, che la Via Lattea e Andromeda hanno una quarantina di galassie più piccole legate a loro dalla forza gravitazionale?» domandò Jag. «Il gruppo locale» ribatté Keith, seccato. «Appunto» disse Jag. «Ebbene, ho cominciato cercando di localizzare alcune delle caratteristiche distintive del gruppo locale, come la stella superluminosa S Doradus nella Grande Nube di Magellano, ma non ho avuto successo. Così ho consultato il catalogo delle pulsar extragalattiche di cui era nota la distanza, che ovviamente corrisponde all’età, e ho usato per orientarmi le loro “firme” fatte di impulsi radio.» «Sì, ho capito» disse Keith. «E allora?» «Attualmente la galassia più vicina a noi è questa» Jag indicò una chiazza sfocata che nell’ologramma si trovava sotto i suoi piedi. «Si trova a circa 500 mila anni luce da noi. L’ho identificata come CGC 1008: ha diversi attributi unici.» «Va bene» disse seccamente Keith. «Siamo a mezzo milioni di anni luce da CGC 1008. E adesso una concessione a noi non-astrofisici: quanto lontano si trova CGC 1008 dalla Via Lattea?» Il latrato di Jag fu sommesso, quasi rispettoso. La voce tradotta disse: «Siamo a sei miliardi di anni luce da casa.» «Sei… miliardi?» ripeté Thor, girandosi a guardare Jag. Jag sollevò le spalle superiori. «Esatto» disse, con voce ancora sommessa. «È stupefacente» commentò Keith. Jag ripeté il suo tipico gesto di perplessità. «Sei miliardi di anni luce. Sessantamila volte il diametro della Via Lattea. Duemilasettecento volte la distanza tra la Via Lattea e Andromeda.» Fissò Keith. «In termini comprensibili ai non-astrofisici, una distanza dannatamente lunga.» «Si vede la Via Lattea, da qui?» domandò Keith. Jag fece un gesto con le braccia. «Oh, sì» rispose, ancora con quel tono rispettoso. «Direi di sì. Computer centrale, ingrandisci il settore 112.» In un punto della bolla olografica comparve una cornice. Jag abbandonò la sua postazione per dirigervisi. Lo scrutò con attenzione per qualche istante, poi indicò un punto e disse: «Eccola. E quella vicina è Andromeda. E quell’altra è M33, terzo membro del gruppo locale per dimensioni.» Le luci di Rombo ammiccarono, in segno di confusione. «Porgo scuse sconfinate ma questo non può essere vero, buon Jag. Quelle che hai indicato non sono galassie spirali, sembrano piuttosto dei dischi.» «Non ho sbagliato» ribatté Jag. «Quella è la Via Lattea. Solo che, poiché ci troviamo a sei miliardi di anni luce di distanza, la vediamo com’era sei miliardi di anni fa.» «Ne sei sicuro?» domandò Keith. «Al di là di ogni dubbio. Una volta che le pulsar mi hanno detto dove guardare approssimativamente, è stato piuttosto facile identificare quale galassia era la Via Lattea, qual era Andromeda e così via. Le Nubi di Magellano sono troppo giovani perché la loro luce si sia spinta così lontano, ma gli ammassi globulari contengono quasi esclusivamente stelle antiche, della prima generazione, e io ho identificato molti ammassi globulari specifici associati sia con la Via Lattea sia con Andromeda. Ne sono assolutamente certo: quel semplice disco di stelle è la nostra galassia natale.» «Ma la Via Lattea ha bracci a spirale» intervenne Lianne. Jag si girò a guardarla. «Sì, al di là di ogni dubbio: l’attuale Via Lattea ha bracci a spirale. Adesso però posso affermare con altrettanta sicurezza che, quando aveva sei miliardi di anni di meno, non aveva bracci a spirale.» «Com’è possibile?» domandò Thor. «La questione è controversa» rispose Jag. «Confesso che io mi sarei aspettato che la Via Lattea avesse i bracci già a metà della sua età attuale.» «D’accordo» intervenne Keith. «Dunque la Via Lattea si è conquistata i bracci a spirale in un periodo intermedio.» «No, non siamo affatto d’accordo» disse Jag. I suoi latrati erano ritornati all’abituale brutalità. «In effetti, non ha mai avuto senso. Non abbiamo mai elaborato un buon modello per la formazione dei bracci a spirale delle galassie. Quasi tutti i modelli si basano sulla rotazione differenziale, cioè il fatto che le stelle vicine al nucleo centrale orbitano diverse volte intorno al nucleo nel tempo impiegato da quelle più esterne a compiere un’unica rotazione. Ma tutti i bracci originati da questo fenomeno dovrebbero essere temporanei, della durata massima di un miliardo di anni. In altre parole, dovremmo vedere “alcune” galassie a spirale, ma non esiste alcuna ragione al mondo per cui tre su quattro di tutte le galassie più grandi, cioè il rapporto che si osserva attualmente, debbano essere a spirale. Le ellittiche dovrebbero essere di gran lunga più numerose, invece non è così.» «In tal caso c’è un errore nella teoria, è chiaro» osservò Keith. Jag sollevò le spalle superiori. «Effettivamente. Noi astrofisici ci siamo arrangiati per secoli con una cosa che si chiama “modello a onde di densità”, per spiegare l’abbondanza di galassie a spirale. Il modello propone l’esistenza di un disturbo a forma di spirale che si sposta attraverso il centro del disco galattico, catturando le stelle… o forse formato da stelle… mentre l’onda ruota. Tuttavia, questa teoria non ha mai soddisfatto nessuno. Per prima cosa non spiega i diversi tipi di spirale esistenti e, seconda cosa, non sappiamo rispondere in maniera soddisfacente alla domanda più ovvia: che cosa mette in moto le pretese onde di densità? A volte si citano le esplosioni delle supernove, ma è altrettanto facile costruire un modello nel quale gli effetti di queste esplosioni si annullano a vicenda quanto lo è costruirne uno in cui si sommano dando origine a onde di lunga durata.» Fece una pausa. «Ci sono anche altri problemi, con i modelli di formazione delle galassie. Tempo fa, nel 1995, gli astronomi umani scoprirono che le galassie lontane, osservate quando avevano appena il venti per cento dell’età attuale dell’universo, avevano una velocità di rotazione paragonabile a quella della Via Lattea attuale: cioè il doppio di quella che avrebbero dovuto avere per confermare la teoria.» Keith rifletté per qualche istante. «Ma se ciò che vediamo adesso è vero, le galassie a spirale come la nostra devono essersi formate da semplici dischi, giusto?» Altro ondeggiamento delle spalle superiori del waldahud. «Forse. Il vostro Edwin Hubble aveva immaginato che tutte le galassie partissero come una sfera di stelle per appiattirsi poi in un disco a causa della rotazione e sviluppando infine bracci sempre più aperti con il trascorrere del tempo. Tuttavia, anche se adesso abbiamo la prova visibile di questo tipo di evoluzione» indicò il disco di stelle circondato dalla cornice lucente «ancora non abbiamo una spiegazione del perché questa evoluzione abbia luogo, o perché la struttura a spirale persista.» «Hai detto che tre quarti delle galassie maggiori sono spirali?» chiese conferma Lianne. «Mmm» disse Jag (Phantom aveva tradotto uno sbuffo simile a un fischio con un verso simile a un muggito). «In realtà non abbiamo informazioni dirette sul rapporto fra galassie ellittiche e non ellittiche nell’universo: è molto difficile estrapolare la struttura di oggetti a malapena visibili, distanti miliardi di anni luce da noi. Nella nostra zona abbiamo osservato un numero di spirali molto superiore a quello delle ellittiche, e abbiamo notato che le spirali contengono una preponderanza di giovani stelle azzurre. Invece le ellittiche, almeno nei nostri dintorni, contengono soprattutto vecchie stelle rosse. Ne abbiamo dedotto, dunque, che qualunque galassia lontana che mostrasse molta luce azzurra… dopo la correzione per compensare il red shift,è chiaro… doveva essere a spirale, mentre quelle che emettevano principalmente luce rossa dovevano essere ellittiche. In realtà, però, non abbiamo informazioni dirette.» «È incredibile» commentò Lianne, osservando l’immagine. «Allora, se la Via Lattea appariva così sei miliardi di anni fa, significa che nessuno dei mondi del Commonwealth si è ancora formato. C’è… credi che adesso ci sia qualche forma di vita, nella nostra galassia?» «Be’, adesso significa sempre adesso, sia chiaro» osservò Jag. «Ma se intendevi chiedermi se c’era vita nella Via Lattea quando quella luce ha iniziato il suo viaggio per arrivare qui, devo rispondere di no. I nuclei galattici sono estremamente radioattivi, anche più di quanto si riteneva una volta. In una grande galassia ellittica, come quella che vediamo qui, in pratica l’intera galassia è costituita dal nucleo. Con le stelle così ravvicinate, le radiazioni dure sarebbero talmente diffuse che non si potrebbero formare molecole geneticamente stabili.» Fece una pausa. «Il che significa, direi, che soltanto le galassie di mezza età possono dare origine alla vita: quelle giovani e senza bracci sono sterili.» Per un po’ sul ponte regnò il silenzio, rotto soltanto dal soffio leggero dell’impianto per la circolazione dell’aria e dall’occasionale bip di un pannello di controllo. Ciascuno dei presenti contemplava l’indistinta chiazza di luce che un giorno avrebbe dato origine a tutti loro, contemplava il fatto che tutti loro si trovavano più lontano di quanto chiunque si fosse mai spinto prima, contemplava la vasta oscurità vuota che li circondava. Sei miliardi di anni luce. Keith ricordò ciò che aveva letto su Borman, Lovell e Anders, gli astronauti dell’Apollo 8 che avevano orbitato intorno alla Luna durante il Natale del 1968, leggendo passi della Genesi ai popoli della Terra. Erano stati i primi esseri umani a spingersi così lontano dal proprio pianeta da poterlo circondare con le dita di una mano. Forse, più di ogni altro evento, era stata quella visuale, quella prospettiva, quell’immagine, a segnare la fine dell’infanzia per l’umanità: la comprensione che il mondo non era altro che una pallina che fluttuava nel buio. Adesso, pensò Keith, questa immagine avrebbe forse segnato… “forse”… l’inizio della mezza età: un fotogramma immobile, che sarebbe diventato il frontespizio per il secondo volume della biografia dell’umanità. Non era soltanto la Terra a essere così piccola, così fragile e insignificante. Keith sollevò una mano a coppa verso l’ologramma e raccolse tra le dita quell’isola di stelle. Rimase a lungo seduto in silenzio, poi abbassò la mano e permise ai suoi occhi di vagare in quella schiacciante vacuità buia che si estendeva in ogni direzione. Posò casualmente lo sguardo su Jag, che stava facendo lo stesso identico gesto compiuto da Keith pochi istanti prima, cioè raccoglieva la Via Lattea in una mano tesa a coppa. «Scusa, Keith» esordì Lianne, pronunciando le prime parole dopo parecchi minuti. La sua voce era dolce, rispettosa, simile ai movimenti di chi cammina in una cattedrale. «Gli impianti elettrici sono in funzione. Possiamo lanciare quella sonda quando vuoi.» Keith fece un lento cenno di assenso. «Grazie» disse con voce meditabonda. Guardò un’ultima volta la giovane Via Lattea che galleggiava nelle tenebre, quindi disse in un sussurro: «Rombo, andiamo a vedere che cosa sta succedendo a casa.» 20 «Sonda lanciata» disse Rombo. Nella bolla olografica Keith vide il cilindro argenteo e verde allontanarsi dalla nave, illuminato da un raggio cercatraccia proveniente dalla Starplex. Sembrava fuori posto, tra le chiazze indistinte delle galassie lontane. Ben presto la sonda toccò la scorciatoia e scomparve. «Il percorso programmato dovrebbe richiedere soltanto cinque minuti» ricordò Rombo. Keith annuì, cercando di nascondere l’impazienza. Non sapeva che cosa desiderare: se un rapporto sulla localizzazione del radiofaro di Rissa (il che avrebbe significato che, perlomeno, la Rum Runner era intatta) o un rapporto di mancata localizzazione (il che avrebbe significato che “forse” la sonda aveva attraversato la scorciatoia e si trovava ormai al sicuro). Il tempo passava, e il nervosismo di Keith cresceva di pari passo. È vero che una pentola osservata non bolle mai, però… Alzò lo sguardo sulla terna di orologi che fluttuavano nel nulla sopra l’invisibile porta di prua. «Quanto tempo è passato?» «Sette minuti» rispose Rombo. «La sonda non dovrebbe essere già tornata?» Sulla rete dell’ib le luci si mossero all’insù. «Allora dove diavolo…» «Impulso tachionico!» annunciò Rombo. «Arriva.» «Non aspettare che abbia attraccato» ordinò Keith. «Scarica i dati via radio e mandali ai monitor.» «Lo farò con piacere» disse Rombo. «Eccoli.» La scansione della sonda era a bassa risoluzione e si limitava a immagini video non olografiche. Una parte della bolla che avvolgeva il ponte venne contornata di azzurro, e in essa cominciarono ad apparire le piatte immagini registrate dalla sonda. «Che cosa…?» esclamò Keith. «Rombo, hai usato l’angolo di approccio corretto?» «Sì, con l’approssimazione di un decimo di grado.» Jag lanciò un’imprecazione in waldahudar. Come regola generale Phantom non traduceva le oscenità, ma Keith capì ugualmente perché anche lui aveva voglia di sfogarsi imprecando. «Non è da qui che siamo venuti!» esclamò. La pelliccia di Jag era immobile. «No» disse. L’immagine sullo schermo mostrava stelle rosse fittamente raggruppate. «Come prima ipotesi, direi che questo luogo non si trova nemmeno nella Via Lattea. Sembra l’interno di un ammasso globulare: potrebbe essere uno dei tanti associati con CGC 1008.» «Il che significa…» «Il che significa» ripeté Thor alzando le mani dalla consolle del Timone «che non possiamo ritornare a casa. Non abbiamo l’indirizzo giusto.» «A quanto pare, il sistema di coordinate latitudine/longitudine non funziona allo stesso modo su distanze grandi come queste» notò Lianne. La voce di Keith era esile. «Anche con gli iperpropulsori a piena potenza…» Jag sbuffò. «Anche con gli iperpropulsori a piena potenza, percorrere sei miliardi di anni luce richiederebbe 270 milioni di anni.» «Va bene» disse Keith. «Continueremo a mandare sonde secondo uno schema di ricerca. Rombo, comincia col bucare la sfera tachionica intorno alla scorciatoia al polo nord, poi prosegui verso il basso spostandoti ogni volta di cinque gradi di latitudine e cinque gradi di longitudine. Se siamo fortunati, forse vedremo qualcosa di conosciuto nelle riprese che riporteranno con sé.» Rombo cominciò a lanciare sonde, ma ben presto fu evidente che tutte finivano nell’ammasso globulare oppure in una regione di spazio nella quale il cielo era dominato da una nebulosa ad anello. «Dal punto di vista di questa scorciatoia» disse Rombo «esistono soltanto altre due uscite attive. È stata una fortuna che la prima sonda abbia fatto ritorno… aveva soltanto una possibilità su due di farcela.» «La scelta qui è un po’ scarsa, eh?» commentò Keith. «Alla periferia di un buco nero nello spazio intergalattico, nel bel mezzo di un ammasso globulare (probabilmente pieno di stelle vecchie e senza vita), oppure nei dintorni di una nebulosa ad anello.» «No» disse Jag. «No cosa?» «No, non è possibile che siamo limitati a queste sole scelte.» Keith esalò un sospiro di sollievo. «Meno male. E perché?» «Perché il mio patrono è la dea dei depositi alluvionali» affermò il waldahud. «Ed Ella non mi abbandonerebbe mai.» Keith si sentì sprofondare. Riuscì a controllarsi appena in tempo, prima di pronunciare qualche cattiveria. «Una via di ritorno “deve” esserci» insistette Jag. «Fin qui siamo arrivati, dunque dobbiamo anche essere in grado di tornare. Se soltanto…» «Velocità!» strillò Lianne. Keith la guardò. «Velocità!» ripeté lei. «Siamo entrati nella scorciatoia viaggiando a una velocità elevatissima. Forse la velocità con la quale si imbocca il portale può dare accesso a un’altra famiglia di scorciatoie. In passato siamo sempre andati a velocità relativamente basse allo scopo di evitare impatti. Dopo tutto, quando si attraversa una scorciatoia lo si fa completamente alla cieca, senza mai sapere con certezza che cosa si troverà all’altro capo. Questa volta, invece, ci siamo fiondati dentro sfrecciando a una frazione significativa della velocità della luce. Forse in questo modo abbiamo avuto accesso a un altro livello di scorciatoie.» Keith guardò Jag, il quale sollevò le quattro spalle. «È una spiegazione buona quanto qualunque altra.» «Rombo, lancia un’altra sonda» ordinò Keith. «Ma questa volta mettila su una traiettoria allungata, che le permetta di accelerare fino alla velocità che avevamo noi quando siamo entrati, poi indirizzala secondo la latitudine e la longitudine corrispondenti al luogo da cui siamo venuti.» «Lo farò con gioia trascendente» rispose l’ib. La sonda fu lanciata, accumulò velocità, bucò la scorciatoia. Tutti trattennero il respiro. Perfino la pompa di Rombo, che funzionava senza alcuna guida da parte del baccello, sembrava avvertire che stava accadendo qualcosa di importante: il suo orifizio centrale interruppe momentaneamente la sua costante sequenza di aperto/allungato/compresso/chiuso. Poi la sonda ritornò. Le corde di Rombo sferzarono la consolle producendo schiocchi rumorosi, e l’area incorniciata si riempì con le immagini registrate dalla sonda. Il sorriso di Thor andava da un orecchio all’altro. «Non avrei mai pensato che sarei stato felice di rivederla» disse, alzando un pollice verso l’immagine della stella verde. Keith fece un lungo sospiro di sollievo. «Grazie a… Grazie alla dea dei depositi alluvionali.» «Secondo l’iperscopio della sonda, i matos si sono notevolmente allontanati dal punto di uscita» comunicò Rombo. «Eccellente. Thor, portaci a casa. Programma la stessa rotta descritta prima. Mi piacerebbe scambiare due chiacchiere con Occhio di Gatto.» 21 La Starplex navigò nell’abisso intergalattico verso la scorciatoia. Thor aveva dato tutto gas e la nave, che appariva minuscola in mezzo a tutto quel vuoto, continuava a guadagnare velocità a mano a mano che si avvicinava. Non appena toccò la scorciatoia, un anello di fuoco violetto cominciò a passarle intorno mentre attraversava sei miliardi di anni luce (60.000.000.000.000.000.000.000 chilometri) in un batter d’occhio. Sul ponte ci fu un applauso spontaneo quando la bolla olografica si riempì nuovamente di stelle in ogni direzione. Keith sentì un nodo alla gola, proprio come l’ultima volta che era ritornato sulla Terra. Thor provvide subito a correggere manualmente la rotta: non avevano osservato la stella verde abbastanza a lungo da conoscere con precisione la sua traiettoria di allontanamento dalla scorciatoia, e la posizione prevista non coincideva esattamente con quella reale. Ben presto, però, riuscì a immettere la nave nell’orbita parabolica richiesta da Keith… una parabola molto più ampia di quella del loro passaggio precedente, per evitare la dannosa vicinanza con la stella verde che ora dominava il cielo nella olobolla. «Cerca il radiofaro della Rum Runner» ordinò Keith. «Subito» disse Lianne. E, pochi secondi dopo: «Mi dispiace, Keith. Non c’è niente.» Keith chiuse gli occhi. Poteva comunque essersi salvata, si disse. Poteva essere uscita dalla scorciatoia chissà dove. Poteva… «Impulso tachionico!» disse Rombo, in un tono che Phantom tradusse come un grido. Keith ruotò su se stesso per guardare la scorciatoia, che si stava gonfiando in una forma contornata da una striscia color porpora… che aveva l’esatta sagoma di una sonda del Commonwealth. «È la Rum Runner» strillò Thor. «Segnale in arrivo» annunciò Lianne, toccando alcuni tasti. Subito un ologramma della faccia sorridente di Rissa apparve in una cornice che fluttuava nel nulla. «Ciao a tutti» disse Rissa. «Lieta di incontrarvi qui.» «Rissa!» esclamò Keith, balzando in piedi. «Ciao, tesoro» lo salutò lei, con un sorriso radioso. «Rombo» disse Keith «possono attraccare alla Starplex senza costringerci ad abbandonare la rotta attuale?» «Sì, se li rimorchiamo con un raggio trattore.» Sul viso di Keith si allargò un sorriso. «Provvedi, per favore.» «Okay, ragazzi» annunciò Rombo «preparatevi a essere agganciati.» La faccia grigia di Lunga Bottiglia comparve accanto a quella di Rissa. «Pronti siamo già. Casa torniamo a!» «Agganciati» disse Thor. «Thor» disse Keith «hai localizzato Occhio di Gatto?» «Sì. Si trova a circa dieci milioni di chilometri da qui, a ore nove rispetto alla stella verde.» «Ho trovato una frequenza vuota nel chiacchierio dei matos, nel caso che tu voglia parlargli» comunicò Lianne. «Qualcuno deve avere abbandonato la conversazione di recente.» «Eccellente» commentò Keith. «Non perderla di vista. Non appena Rissa sarà a bordo cominceremo a comunicare.» «La Rum Runner sarà al molo di attracco 7 fra tre minuti» disse Rombo. Keith era divorato dall’impazienza. Tentò di nasconderlo controllando i vari rapporti che comparivano sui monitor, ma non riuscì a registrare il significato delle parole che lesse. Alla fine, il campo stellare si aprì e apparve Rissa, stagliata contro il corridoio retrostante. Keith le corse incontro, l’abbracciò e la baciò. Tutti gli altri presenti sul ponte avevano applaudito al suo ingresso. Un attimo più tardi Lunga Bottiglia si affacciò da una delle due piscine scoperte. Rissa gli si inginocchiò accanto e gli accarezzò la fronte prominente: «Grazie per averci riportati a casa sani e salvi, fratello» disse. «Siamo su una velocissima traiettoria parabolica» li informò Keith. «Non credo che i matos possano prenderci, questa volta, ma voglio comunicare con loro… scopri perché diavolo ci hanno attaccato.» Rissa annuì, si rialzò e baciò nuovamente Keith, poi si avviò alla sua postazione. Premette alcuni tasti per caricare il programma di traduzione. «Abbiamo ancora quella frequenza vuota?» domandò Keith. «Sì» rispose Lianne. «Bene, buttiamoci nella conversazione. Lianne, apri un canale con traduzione automatica dalla mia consolle, ma inserisci un ritardo automatico di cinque secondi nella trasmissione delle mie parole.» Si rivolse a Rissa. «Parlerò io direttamente con Occhio di Gatto, ma se dirò qualcosa di sbagliato, oppure qualcosa che potrebbe non essere tradotta in modo appropriato, inserisciti, e riformuleremo il messaggio prima che sia inviato.» Rissa annuì. «Pronti» annunciò Lianne. «La Starplex a Occhio di Gatto» disse Keith. «La Starplex a Occhio di Gatto. Siamo amici. Siamo amici.» Keith osservò il cronometro: pur viaggiando alla velocità della luce, il messaggio avrebbe impiegato 35 secondi per raggiungere Occhio di Gatto, e ci sarebbe voluto quasi lo stesso tempo per l’arrivo della risposta. Ma non arrivò nessuna risposta. Keith attese un altro minuto, poi un altro ancora. Premette un tasto e ritentò: «Siamo amici.» Alla fine, con un ritardo di 40 secondi rispetto al tempo di andata e ritorno del segnale, giunse la risposta. Due sole parole, in un brusco accento francese: «Non amici.» «Sì, invece» replicò Keith. «Siamo amici.» «Amici non fanno male» fu la replica, senza più ritardo oltre al tempo di trasmissione. Keith fu preso alla sprovvista. Avevano forse colpito i matos in qualche modo? Era quasi inconcepibile che quelle gigantesche creature potessero essere danneggiate da loro. Eppure… forse le sonde avevano causato dolore prelevando campioni di materia. Keith non aveva la minima idea di come scusarsi: il vocabolario costruito da Rissa non contemplava questo genere di concetto. «Non intendevamo farvi del male» disse Keith. «Non direttamente» replicò Occhio di Gatto. Keith allargò le braccia e si guardò intorno in cerca di aiuto. «Qualcuno lo capisce?» «Credo che voglia dire che abbiamo causato danni, ma non in maniera diretta» suggerì Lianne. «Cioè non abbiamo colpito loro, ma qualcosa che per loro è importante. O forse stavamo per farlo.» Keith premette il tasto di trasmissione. «Non intendevamo fare del male a niente. Voi, invece, avete deliberatamente tentato di ucciderci.» «Fatto voi. Non fatto voi.» Keith disattivò il microfono. «“Fatto voi. Non fatto voi”» ripeté, con espressione sconsolata. «Qualche idea?» Lianne allargò le braccia. Jag fece oscillare la pelliccia che gli copriva le spalle. La rete di Rombo restò buia. Keith riaccese il microfono. «Vogliamo essere di nuovo amici.» Il tempo di risposta si stava accorciando perché l’orbita parabolica della Starplex portava la nave sempre più vicino a Occhio di Gatto. «Anche noi vogliamo essere di nuovo amici» disse il matos. Dopo un attimo di riflessione, Keith rispose: «Hai detto che vi abbiamo fatto del male, ma non era nostra intenzione. Diteci che cos’abbiamo fatto di sbagliato e non lo faremo più.» Il ritardo era snervante. Infine: «Attaccarvi tra voi.» «Siete stati turbati dalla battaglia?» domandò Keith. «Sì.» «Temevate che le esplosioni vi danneggiassero?» «No.» «Allora perché avete buttato quelle navi nella stella?» «Paura.» «Di che cosa?» «Che le vostre azioni distruggessero… distruggessero… il punto che non è un punto.» «La scorciatoia? Temevate che distruggessimo la scorciatoia?» «Sì.» «Nessuna esplosione potrebbe mai danneggiarla. Non è affatto fragile.» «Non sapevamo.» Jag abbaiò piano. «Chiedigli perché ci tengono tanto.» Keith annuì. «Perché tenete tanto alla scorciatoia, comunque? La usate personalmente?» «Usare? No. Non usare.» «E allora perché?» «Riprodursi.» «È importante per le vostre pratiche riproduttive?» «No, una delle nostre riproduzioni» disse la voce dall’altoparlante. Era frustrante, e probabilmente la frustrazione era identica per Keith e per il matos. Occhio di Gatto apparteneva a una comunità i cui membri continuavano a chiacchierare tra loro da millenni. Conoscevano il contesto delle affermazioni altrui, la storia passata. Spiegare un pensiero nei dettagli non era normale, per loro. Forse, anzi, era un comportamento maleducato. «Una delle vostre riproduzioni» ripeté Keith, speranzoso. «Sì. Toccato il punto che non è un punto.» “Oh, Dio mio.” «Intendi dire che uno dei vostri giovani è entrato nella scorciatoia?» «Sì. Perduto.» «Cristo!» esclamò Thor, girando la testa. «Ecco che cos’ha attivato questa scorciatoia: l’ha attraversata un cucciolo di matos!» Keith si appoggiò allo schienale. «E se i nostri caccia avessero accidentalmente distrutto la scorciatoia, il vostro bambino non avrebbe più potuto ritrovare la strada di casa, giusto?» «Abbondanza di giustezza. Quando siete arrivati, abbiamo pensato che foste venuti per riportare a casa la nostra riproduzione.» «Non ce ne avete mai parlato.» «È male chiedere.» «Maleducazione matos» commentò Rissa, con le sopracciglia inarcate. Keith allargò le braccia. «Non sappiamo niente del vostro piccolo. Quanto tempo fa è entrato nella scorciatoia?» «Il tempo da quando siete arrivati, raddoppiato.» Keith si girò a sinistra per guardare Jag. «Allora il piccolo non può trovarsi molto lontano dal punto di uscita. Esiste qualche modo per scoprire dove è sbucato?» «Il piccolo deve essere emerso da un’uscita attiva» esordì Jag. «Come abbiamo scoperto sulla nostra pelle, però, esistono più uscite attive di quelle che immaginavamo… forse addirittura a miliardi, se si estendono allo spazio intergalattico e alle altre galassie. Inoltre, dal momento che le scorciatoie ruotano, sarebbe necessario conoscere con precisione l’istante in cui il piccolo l’ha attraversata. Senza questa informazione, anche conoscere con precisione l’angolo di approccio non servirebbe a nulla. Quella cosa può essere finita dovunque.» «Però se riuscissimo a ritrovare il piccolo e a riportarlo a casa al sicuro» disse Keith «non soltanto compiremmo una buona azione, ma consolideremmo la nostra amicizia con i matos.» Si guardò intorno. «Qualcuno la pensa diversamente?» Tornò a parlare al microfono. «Il piccolo ha un nome? Una parola unica che lo identifichi?» “Sì. È…” La voce di Phantom sostituì quella sintetizzata che proveniva dall’altoparlante: “Termine non tradotto”. Keith agitò una mano verso gli occhi di Phantom. «Chiamalo… chiamalo Junior» disse. “Registrato.” Keith alzò lo sguardo da Rombo, che naturalmente non aveva difficoltà a vedere Keith anche se gli dava le spalle. «Rombo, che ne pensi?» «Potrebbe essere una china molto ripida, che termina su un dirupo» disse. «Ovvero un buco nell’acqua. Ma, come hai fatto notare, stabilire relazioni amichevoli è lo scopo per cui la Starplex è nata. Secondo me dovremmo almeno provarci.» «Forse dovremmo chiedere a uno di loro di accompagnarci» suggerì Lianne. «Non esiste alcun modo per attraversare la scorciatoia insieme» replicò Thor, girandosi a guardarla. «Non dimenticare che anche la più piccola di quelle creature ha una massa pari a quella di Giove. E se non ha la possibilità di controllare con precisione il suo angolo di entrata, il matos potrebbe arrivare a un’uscita diversa. Risultato: ci sarebbero due matos dispersi anziché uno solo.» Keith riattivò il microfono. «Cercheremo il vostro piccolo» disse. «Ora, per favore, chiamatelo in un modo che gli sia familiare. Noi lo registreremo e trasmetteremo la registrazione in tutti i luoghi in cui potrebbe trovarsi. Chiamatelo e ditegli di seguirci. Ditegli che non gli faremo del male e che ci limiteremo a guidarlo a casa.» «Registrare?» «Come i racconti storici: ripeteremo ciò che direte.» «Va bene, comincio» disse la voce dall’altoparlante. Keith attese che il messaggio in arrivo si riversasse nella memoria di Phantom. «Abbiamo sentito» disse Keith, quando Occhio di Gatto smise di trasmettere. «Trovate il nostro piccolo» disse Occhio di Gatto. «Io… “parole non disponibili”.» Gli esercizi di traduzione non avevano toccato quell’argomento, ma Keith comprendeva i legami di sangue… anzi, i legami “di materia”. E annuì. 22 Keith era nel suo ufficio, intento a esaminare le proposte per ritrovare il cucciolo matos. Era il primo del mese e l’ologramma di Rissa, quello che teneva sulla scrivania, era automaticamente cambiato: ora mostrava un’istantanea di Rissa in short e maglietta, scattata durante un’escursione al Grand Canyon. Il quadro di Emily Carr si era trasformato in una veduta del Lago Superiore dipinta da A.Y. Jackson. “Jag Kandaro em-Pelsh è alla porta” annunciò Phantom. Keith parlò senza alzare lo sguardo dal blocco-dati che stava leggendo. «Fallo entrare.» Jag entrò e si accomodò su una sedia. Entrambe le coppie di braccia erano incrociate sul grosso torace. «Desidero andare a prendere il piccolo matos» abbaiò. Keith si appoggiò allo schienale e guardò il waldahud. «Tu?» Le placche dentali ticchettarono in segno di sfida. «Io.» Keith lasciò andare lentamente il fiato, approfittando del tempo necessario per completare l’esalazione per raccogliere le idee. «Si tratta di una missione delicata.» «E tu non ti fidi più di me» disse Jag. Mosse le spalle superiori. «Me ne rendo conto. Ma l’attacco alla Starplex non era stato autorizzato dalla regina Trath. E l’attacco a Tau Ceti di cui ha parlato Rissa è stato respinto. La faccenda è ormai conclusa… a meno che voi umani non desideriate prolungarla. Che cosa succederà, Lansing? È tutto finito o continueremo a combatterci? Io sono pronto ad agire come se…» «Come se nulla fosse accaduto?» «L’alternativa è la guerra. Io non la desidero, e credevo che neanche tu la volessi.» «Tuttavia…» I latrati di Jag si inasprirono. «La decisione spetta a te. Ti ho spontaneamente offerto una coesistenza pacifica. Se invece vuoi il sangue, come dite voi umani, allora rifiuto di darti soddisfazione. Comunque, per trovare il piccolo e riportarlo a casa sarà necessaria un’estrema abilità nel maneggiare la meccanica delle scorciatoie. Magnor è bravo in questo campo, ma io lo supero. Per la precisione, non c’è nessuno in tutto il Commonwealth che sia migliore di me. E tu sai che è vero. Se non lo fosse, non sarei stato assegnato a questa nave.» «Di Thor ci si può fidare» disse Keith, semplicemente. I due occhi di destra del waldahud erano già puntati su Lansing e un attimo dopo anche i due di sinistra virarono su di lui. «La decisione spetta a te. Hai il mio rapporto.» Indicò con un gesto il blocco-dati che Keith teneva ancora in mano. «Ho suggerito di inviare una sonda a recuperare il piccolo. E a bordo di quella sonda ci sarei io.» «Tutto ciò che vuoi» commentò Keith «è che il tuo popolo abbia accesso ai matos. Portando a casa il loro cucciolo ti guadagneresti la loro gratitudine.» Jag mosse le spalle inferiori. «Mi dipingi peggiore di quello che sono, Lansing. In realtà i matos non sanno ancora che a bordo di questa nave ci sono un migliaio di entità distinte, figuriamoci se immaginano che qui ci sono rappresentanti di un quarto di sedici razze.» Keith si prese qualche secondo per riflettere. Accidenti, essere messo con le spalle al muro era una cosa che detestava. Ma quel maledetto maia…, Jag aveva ragione. «D’accordo» disse. «Andrete tu e Lunga Bottiglia, se lui è d’accordo. La Rum Runner è in condizione di affrontare un’altra missione?» «La dottoressa Cervantes e Lunga Bottiglia l’hanno fatta controllare a Grand Central» disse il waldahud. «Rombo ha confermato che è in condizioni di tenere lo spazio.» Keith alzò gli occhi. “Comunicazione: da Keith a Thor.” Sulla scrivania di Keith apparve il fluttuante ologramma della testa di Thorald Magnor. “Sì, capo?” “Come siamo messi per un viaggio attraverso la scorciatoia?” “Nessun problema” rispose Thor. “Adesso la stella verde è abbastanza lontana da consentire l’ingresso con qualunque angolo. Vuoi che programmi una rotta?” Keith scosse il capo. “Non per l’intera astronave. Solamente per la Rum Runner e un’altra per una scialuppa singola. Devo tornare a Grand Central per incontrarmi con il Primo ministro Kenyatta.” Lanciò uno sguardo al waldahud. «Tu puoi dire quello che vuoi, Jag, ma questa la pagherete.» Fu un viaggio da Guinness: il giro della galassia in venti scorciatoie, per un rapido controllo di tutti i punti di uscita attivi. La Rum Runner, con a bordo Jag e Lunga Bottiglia, si allontanò sfrecciando dai moli della Starplex e, dopo l’inevitabile e gioiosa esibizione di Lunga Bottiglia, si diresse alla scorciatoia. Come sempre, il punto di uscita si dilatò quando la nave lo toccò. La discontinuità color porpora si mosse da prua a poppa, dopodiché la nave sfrecciò in un diverso settore di spazio. Quella prima uscita non offriva panorami spettacolari: stelle e nient’altro, ammassate un po’ meno densamente che dall’altra parte. Jag era assorto sugli strumenti. Stava eseguendo una scansione iperspaziale in cerca di qualunque grande massa entro un raggio di un giorno luce dall’uscita. Trovare il piccolo matos sarebbe stato arduo. La materia oscura, per sua natura, era difficilissima da localizzare: era praticamente invisibile, e i segnali radio che emetteva erano molto deboli. Tuttavia, anche un cucciolo matos si portava dietro una massa di 10 chili, che avrebbe prodotto nello spaziotempo locale un’infossatura percepibile nell’iperspazio. «Niente?» domandò Lunga Bottiglia. Jag mosse le spalle inferiori. Lunga Bottiglia fece un salto mortale nella vasca e la Rum Runner sterzò per tornare alla scorciatoia. «Ancora partiamo» disse il delfino. La nave sprofondò nel punto… …e sbucò nei pressi di un elegante sistema stellare binario, con fasci di gas che fluivano dalla gigante rossa, schiacciata ai poli e rigonfia all’equatore, verso la piccola compagna azzurra. Jag consultò gli strumenti. Niente. La Rum Runner fece un doppio giro della morte e piombò sulla scorciatoia dall’alto, immergendosi tra spruzzi di radiazioni Soderstrom. Lo spettacolo della coppia binaria fu rimpiazzato da un nuovo panorama stellato, con una grande nebulosa gialla e rosa che copriva metà del cielo, al centro della quale una pulsar alternava oscurità e lucentezza con un periodo di qualche secondo. «Niente» disse Jag. Lunga Bottiglia tornò a impennarsi e si tuffò sulla scorciatoia. Un punto in espansione. Un anello color porpora. Costellazioni che non coincidevano. Un altro settore di spazio. Un settore dominato dall’ennesima stella verde, che si allontanava dalla scorciatoia. Lunga Bottiglia si precipitò a manovrare per evitarla. La scansione richiese più tempo, perché la vicinanza della stella saturava lo scanner iperspaziale. Alla fine, tuttavia, Jag riuscì a escludere che il cucciolo matos si trovasse lì. Lunga Bottiglia ruotò nel serbatoio e la Rum Runner si avvitò penetrando nella scorciatoia. Questa volta sbucarono dalla Prima, in prossimità del nucleo galattico: si trattava della scorciatoia iniziale, quella che si presumeva fosse stata attivata dagli stessi fabbricanti di scorciatoie. Dal cielo proveniva l’abbacinante luce di innumerevoli soli rossi fittamente ammassati. Lunga Bottiglia colpì con il muso un comando e gli scudi della nave si attivarono al livello massimo. Erano abbastanza vicini al cuore della galassia da distinguere il corrusco bordo violetto del disco di accrescimento intorno al buco nero centrale. «Non qui» disse Jag. Lunga Bottiglia manovrò per ritornare alla scorciatoia lungo una semplice linea retta. Non erano abbastanza vicini per essere catturati dalla gravità, ma era meglio non correre rischi. Successivamente uscirono in un’altra regione di spazio apparentemente vuota, ma gli scanner iperspaziali indicarono a Jag la presenza di una ragguardevole massa nascosta. «Qui niente anche?» domandò Lunga Bottiglia. Jag scrollò le quattro spalle. «Fare un controllo non ci costa niente» commentò, cercando con la radio di bordo intorno alla banda dei 21 centimetri. «Novantatré frequenze in uso» disse Jag. «È un’altra comunità di matos.» Si trovavano a decine di migliaia di anni luce dai primi matos che avevano incontrato, ma, dopo tutto, la razza matos aveva un’età di miliardi di anni. Forse parlavano tutti la stessa lingua. Jag esaminò la cacofonia di segnali, scelse il gruppo di frequenze più usato e, poiché non c’erano bande vuote, si limitò a sovrapporsi. «Cerchiamo l’individuo chiamato Junior.» Il computer della nave provvide a sostituire il vero nome del piccolo. Il silenzio che ne seguì si prolungò molto oltre il puro tempo di andata e ritorno del messaggio, ma alla fine una risposta arrivò. «Non ce nessuno qui con quel nome. Chi siete?» «Adesso non abbiamo tempo per parlare, ma torneremo» disse Jag, e Lunga Bottiglia fece fare dietro front alla nave. «Scommetto sorpresi che li ha questo» disse il delfino mentre attraversavano il portale. Questa volta emersero accanto a un pianeta delle dimensioni di Marte e altrettanto privo d’acqua, però, giallo anziché rosso. Il suo sole, una stella bianco-azzurra, era visibile all’orizzonte: appariva grande circa il doppio del Sole visto dalla Terra. «Qui niente» affermò Jag. Lunga Bottiglia si concesse il lusso di spostare la Rum Runner in modo tale che il disco del pianeta giallo eclissasse la stella con la massima precisione. La corona solare, un misto di porpora, bianco e blu marina, era un vero spettacolo e si estendeva nel cielo molto più di quanto il delfino si fosse aspettato. Per qualche istante lui e Jag si bearono di quella visione, poi tornarono a tuffarsi nella scorciatoia. Anche quel punto di uscita aveva visto di recente emergere una stella, ma non una stella verde. Come a Tau Ceti, si era trattato invece di una nana rossa, piccola e fredda. Jag consultò gli scanner. «Niente.» Per l’ennesima volta si tuffarono, e la scorciatoia si spalancò per accoglierli come una bocca dalle labbra di porpora. Buio allo stato puro… nemmeno una stella in vista. «Una nube di polvere» commentò Jag, con la pelliccia che fremeva per lo stupore. «Interessante… non c’era niente del genere l’ultima volta che qualcuno ha usato questa uscita. Principalmente grani di carbonio, ma ci sono anche molecole complesse come la formaldeide, perfino alcuni amminoacidi e… sono sicuro che Cervantes vorrà tornare qui: ho raccolto anche campioni di DNA.» «Nella nube?» domandò Lunga Bottiglia, incredulo. «Nella nube» confermò Jag. «Molecole autoreplicanti che fluttuano libere nello spazio.» «Ma matos niente, giusto?» «Giusto» confermò Jag. «Meraviglia una per momento un altro» commentò Lunga Bottiglia. Mise in rotazione la nave, accese i retrorazzi e si buttò a capofitto nella scorciatoia. Un nuovo settore di spazio, un altro nel quale era recentemente sbucata una stella. Questa volta l’intrusa era una azzurra di tipo O, piena di macchie solari color porpora più di quanto un’umana dai capelli rossi fosse piena di lentiggini d’estate. La Rum Runner era emersa proprio sull’orlo di uno dei bracci a spirale della Via Lattea: da una parte il cielo era densamente popolato di luminosissime giovani stelle, dall’altra era semivuoto. In alto era visibile un ammasso globulare: un milione di antichi soli rossi riuniti tutti insieme in una palla. E poi… «Tombola» esclamò Jag. O, almeno, latrò qualcosa che in terrestre poteva essere tradotto così. «Eccolo là!» «Lo vedo io anche» confermò Lunga Bottiglia. «Però…» «Terra riarsa!» imprecò Jag. «È intrappolato.» «Vero… preso è nella rete.» Ed era proprio così. Il cucciolo matos era ovviamente sbucato dalla scorciatoia soltanto qualche giorno prima dell’arrivo della stella azzurra, e la stella era stata espulsa dall’uscita più o meno nella stessa direzione del matos. I matos, come tutti loro avevano scoperto con sorpresa e terrore, sono in grado di muoversi con un’agilità incredibile per corpi di dimensione planetaria che fluttuano nel vuoto, ma una stella ha una forza di gravità enorme. Il cucciolo si trovava ad appena 40 milioni di chilometri dalla sua superficie, meno della distanza di Mercurio dal Sole. «È impossibile che riesca a raggiungere la velocità di fuga» disse Jag. «Non sono nemmeno sicuro che sia riuscito a inserirsi in orbita: è più probabile che stia scendendo a spirale. In un caso o nell’altro, comunque, quel matos non andrà più da nessuna parte.» «Segnale mando» annunciò Lunga Bottiglia, e impostò la trasmittente della nave per inviare su tutte le frequenza usate dalla comunità dei matos il messaggio preregistrato. Si trovavano a circa 300 milioni di chilometri dalla stella: i segnali avrebbero impiegato più di 15 minuti per raggiungere il matos, e anche una risposta immediata avrebbe richiesto un altro quarto d’ora per essere captata. Attesero, Jag muovendosi irrequieto, Lunga Bottiglia divertendosi a dipingere una caricatura sonar dei movimenti di Jag. Ma non arrivò alcuna risposta. «Be’, quella stella emette un rumore radio così intenso che forse non siamo riusciti a captare la trasmissione del matos» disse Jag. «O forse è lui che non ci può sentire.» «Oppure morto è» disse Lunga Bottiglia. Jag fece vibrare il muso ed emise un rumore simile allo scoppiettio delle bolle dei fogli di cellofan usati come protezione. Quella era l’unica possibilità che non voleva prendere in considerazione. Così vicino alla stella, però, il calore doveva essere incredibile. La parte rivolta all’interno poteva essere già arrivata a una temperatura di 350 gradi, abbastanza per fondere il piombo. Né Jag né Delacorte avevano ancora compreso in ogni dettaglio la pseudo-chimica della materia quark-lucente, ma a una temperatura simile quasi tutte le molecole complesse si rompono nella materia normale. Jag fece un’altra riflessione. Chissà quali consuetudini funerarie, se pure ne avevano, erano state sviluppate dai matos? Il cadavere, grande quanto un mondo, doveva essere riportato a casa? Lanciò un’occhiata a Lunga Bottiglia. I delfini si limitano ad aspettare che il corpo venga portato via dalla corrente. Jag sperò che i matos avessero una sensibilità dello stesso genere. «Torniamo indietro» disse. «Da soli non possiamo fare niente.» La Rum Runner sfrecciò verso la scorciatoia seguendo l’ampia curva che era il marchio di fabbrica di Lunga Bottiglia e colpì la scorciatoia con l’esatta angolazione richiesta per uscire dal punto in cui avevano iniziato quella serie di balzi. La Starplex era lì, a fluttuare nella notte, tinta di verde dalla luce di una stella di quarta generazione. Alle sue spalle c’erano le creature di materia oscura, tra le quali si estendevano tentacoli di gas. La domanda giusta, adesso, era: che fare? Per un attimo Jag provò comprensione per Lansing. Non avrebbe certo voluto essere lui a dover nuotare nelle acque agitate del fiume che l’umano aveva di fronte. Keith si trovava nel suo appartamento e si stava preparando alla partenza per l’imminente incontro con il Primo ministro Kenyatta alla stazione Grand Central. Risuonò un bip elettrico. “Rombo gradirebbe vederti” annunciò Phantom. “Chiede sette minuti del tuo tempo.” Rombo? Lì? In realtà in quel momento Keith avrebbe preferito restare solo con se stesso. Stava riordinando i propri pensieri, cercando di decidere che cosa avrebbe detto durante l’incontro. Eppure, che un ib lo disturbasse a casa sua era così insolito da stuzzicare la sua curiosità. «Tempo concesso» disse Keith, usando la risposta suggerita dal galateo ibese. Ancora la voce di Phantom: “Dal momento che avrai un ospite ib, posso abbassare le luci?” Keith annuì. I pannelli sul soffitto attenuarono la loro luminosità e l’abbacinante ghiacciaio bianco nell’ologramma murale del lago Louise assunse toni di un anonimo grigio. La porta rientrò nella parete e Rombo rotolò all’interno. Sulla rete lampeggiarono alcune luci. «Salve, Keith.» «Salve, Rombo. Che cosa posso fare per te?» «Perdonami per l’intrusione» disse la gradevole voce britannica «ma oggi sul ponte sembravi piuttosto arrabbiato.» Keith inarcò le sopracciglia. «Se sono stato brusco, me ne scuso» disse Keith. «Ero infuriato con Jag… ma non avrei dovuto permettere che la cosa si riflettesse su qualcun altro.» «Oh, no, la tua rabbia era perfettamente a fuoco. Dubito che tu abbia offeso qualcuno.» Keith corrugò la fronte. «E allora qual è il problema?» Rombo rimase in silenzio per un po’, poi disse: «Ti sei mai fatto domande sull’apparente contraddizione che la mia razza rappresenta? Siamo ossessionati dal tempo, come dite voi umani. Detestiamo sprecarlo. Ciò nonostante spendiamo tempo per atti di cortesia e, come molti umani hanno notato, ci diamo un gran da fare per non urtare i sentimenti di nessuno.» Keith annuì. «Sì, ci ho pensato. Effettivamente l’impressione è che il tempo sprecato nelle minuzie del galateo venga sottratto ad altri obiettivi più importanti.» «Proprio così» disse Rombo. «Questo è esattamente il modo in cui si esprimerebbe un umano. Noi però la vediamo in modo diverso. Secondo noi l’andare d’accordo procede di pari passo — noi diremmo “mozzo nella ruota” — con la filosofia del risparmio di tempo. L’incontro breve ma spiacevole finisce per sperperare più tempo che non quello più lungo ma gradevole.» «Perché?» «Perché dopo un incontro spiacevole si passa molto tempo a riviverne mentalmente gli eventi, ripercorrendolo più volte, spesso sezionando una per una le cose che sono state dette o fatte.» Fece una pausa. «Hai visto, con Carro Merci, che la giurisprudenza ibese punisce gli sprechi diretti di tempo. Se un ib sprecasse dieci minuti del mio tempo, un tribunale potrebbe ordinare una equivalente riduzione della sua vita. Forse però non sai che se un ib mi sconvolge con un comportamento maleducato, ingrato o semplicemente cattivo, il tribunale può imporre una pena pari a 16 volte l’ammontare del tempo che si ritiene sia stato sprecato da quel suo comportamento. Moltiplichiamo per 16 perché, come i waldahudin, usiamo il 16 come base del nostro sistema di numerazione. In realtà non c’è modo di calcolare il tempo realmente sprecato rimuginando su un’esperienza sgradevole. Anche dopo anni, i ricordi dolorosi possono… non so come dite voi. Io direi: possono rotolarti al fianco. Voi probabilmente direste che possono rizzare la testa. È sempre meglio lasciare una situazione in serenità, senza rancori.» «Intendi dire che dovremmo metterla giù dura, con i waldahudin? Pretendere un risarcimento pari a 16 volte i danni che ci hanno causato?» Keith annuì. «Non è certo una proposta insensata.» «No, ciò che intendevo dire ti è sfuggito… senza dubbio a causa della mia scarsa chiarezza nell’esposizione. Sto dicendoti di “dimenticare” ciò che è passato fra te e Jag, e fra la Terra e Rehbollo. È per me fonte di angoscia pensare a quante risorse mentali… a quanto “tempo”… voi umani sprecherete su questa faccenda. Non importa quanto dissestata sia la strada: rendetela liscia nella vostra mente.» Rombo si interruppe, lasciando che le sue parole si depositassero. Poi: «Ho usato i sette minuti che mi hai concesso. Ora devo andare.» L’ib fece per allontanarsi. «Molte persone sono morte» disse Keith, alzando la voce. «Non tutto si può rendere liscio così facilmente.» Rombo si fermò. «Se è difficile, è soltanto perché voi scegliete che sia così» commentò. «Riesci a immaginare qualche soluzione che possa riportare i morti alla vita? Qualche rappresaglia che non si risolva in un maggior numero di morti?» Le luci danzarono sulla sua rete. «Lasciate perdere.» Eta Draconis Vetro guardò Keith e Keith guardò Vetro. Qualcosa nell’atteggiamento di quell’essere disse a Keith che la conversazione in corso sarebbe stata l’ultima. «Nel tuo discorso di presentazione hai menzionato il fatto che l’attuale Commonwealth è costituito da tre mondi» disse Vetro. Keith annuì. «Esatto» disse. «La Terra, Rehbollo e Flatlandia.» Vetro inclinò la testa. «In realtà, nel tuo tempo, nell’intero universo ci sono soltanto settemila mondi che ospitano vita nativa sulla propria superficie… e questi pochi mondi sono sparsi in miliardi di galassie. La Via Lattea possiede ben di più della quota di sua spettanza: essa, nel tuo tempo, ospita complessivamente 13 razze intelligenti.» «Mi segnerò il numero» commentò Keith sorridendo. «Non mi arrenderò finché non le avremo trovate tutte.» Vetro scosse la testa. «Alla fine le troverai, è ovvio… quando saranno pronte per essere trovate. La semplificazione dei viaggi interstellari dovuta alle scorciatoie non è un semplice effetto collaterale della loro funzione di smistare stelle verso il passato. Al contrario, è parte integrante del piano, così come è una valvola di sicurezza che mantiene i vari settori di spazio isolati fino a che i loro abitanti non diventano viaggiatori stellari con i propri mezzi. Certo, se tu avessi la chiave appropriata, come ce l’ho io, potresti viaggiare tra tutte le scorciatoie, comprese quelle apparentemente dormienti. Anche questo è importante, perché noi costruttori di scorciatoie avremo bisogno di farne un uso estensivo. Il modo in cui esse funzionano senza la chiave, però, è progettato per favorire la nascita di una comunità interstellare, per mettere le basi di quel futuro pacifico e cooperativo che è nell’interesse di tutti.» Vetro fece una pausa e quando riprese a parlare il suo tono aveva una sfumatura di tristezza. «Ciò nonostante, non conoscerai in anticipo il numero di razze che devi ancora scoprire. Quando ti rimanderò indietro, cancellerò ogni ricordo del periodo che hai passato qui.» Il cuore di Keith si arrestò per un istante. «Non farlo.» «Temo di esservi costretto. La nostra è una politica isolazionista.» «Fai… tu fai spesso di queste cose? Cioè prelevare gente dal passato?» «No. Di regola, no. Tu però sei un caso speciale. Io sono un caso speciale.» «In che senso?» «Sono stato uno dei primi a diventare immortale.» «Immortale…» La voce di Keith si perse in un sussurro. «Non te l’avevo detto? Eh, già. Tu non sei destinato a vivere semplicemente per un tempo lunghissimo… tu vivrai per sempre.» «Immortale» ripeté Keith. Tentò di farsi venire in mente un commento migliore, ma non ci riuscì. Così disse semplicemente: «Uau!» «Ma come ho detto, tu (io), “noi” siamo un caso speciale di immortalità.» «Come mai?» «Ci sono soltanto tre esseri umani più vecchi di me nell’intero universo, in effetti. A quanto pare avevo una… com’è che si chiamava? Ah, sì, una raccomandazione, che mi ha permesso di ricevere il trattamento per l’immortalità fin dall’inizio.» «Rissa era impegnata in ricerche sulla senescenza. Immagino che abbia contribuito alla scoperta delle tecniche per l’immortalità.» «Sì, dev’essere stato per questo» concordò Vetro. «Non te lo ricordi?» «No… ed è questo il nocciolo del problema. Vedi, quando hanno inventato l’immortalità, la tecnica consisteva nel permettere alle cellule di suddividersi per un numero infinito di volte, anziché soccombere alla morte cellulare preprogrammata.» «Il limite di Hayflick» commentò Keith, che grazie alle sue conversazioni con Rissa sapeva tutto sull’argomento. «Prego?» «Il limite di Hayflick. Il fenomeno che limita il numero di possibili suddivisioni per una cellula.» «Ah, sì» disse Vetro. «Be’, l’hanno superato. E hanno superato anche quell’altra vecchia limitazione naturale che ci faceva nascere con una certa quantità di cellule cerebrali, le quali non venivano più rimpiazzate. Una delle chiavi per l’immortalità è stata l’idea di permettere al cervello di creare costantemente nuove cellule, a mano a mano che quelle vecchie venivano meno…» «Però se le cellule vengono rimpiazzate» lo interruppe Keith con lo sguardo sempre più vitreo «allora si perdono i ricordi immagazzinati in quelle originali.» Vetro fece un cenno di assenso con la sua testa liscia. «Precisamente. Adesso scarichiamo i vecchi ricordi in matrici leptoniche, è ovvio, così possiamo conservare una quantità infinita di materiale. Io non ho semplicemente accesso a milioni di libri, io “ricordo” il contenuto dei milioni di libri che ho letto negli anni. Però sono diventato immortale prima che fossero inventate le matrici leptoniche. I miei primi ricordi, quelli relativi ai miei primi due secoli di vita, se ne sono andati.» «Uno dei miei migliori amici» disse Keith «è un ib di nome Rombo. Gli ib muoiono quando i loro primi ricordi cominciano a essere spazzati via: i nuovi ricordi vanno a sovrascrivere le conoscenze istintive degli automatismi fisici, uccidendoli.» Vetro annuì. «C’è una certa eleganza in questa soluzione» disse. «È molto difficile vivere senza sapere chi si è stati in passato.» «Ecco perché sei rimasto deluso scoprendo che avevo solo 46 anni.» «Esattamente. Significa che c’è ancora un secolo e mezzo della mia vita su cui non puoi dirmi niente. Forse in futuro localizzerò un’altra versione di me stesso, dell’anno… nel vostro calendario dovrebbe essere il 2250.» Fece una pausa. «Comunque tu ricordi le parti più significative. Ricordi la mia infanzia fisica, ricordi i miei genitori. Prima di parlare con te non ero nemmeno sicuro di avere avuto dei genitori biologici. Ricordi il mio primo amore. Tutte cose per me svanite da un tempo incredibilmente lungo. Eppure sono state queste esperienze a formarmi, a porre le basi dei miei schemi di personalità, delle reti neurali che governano la mia mente, delle fondamenta di tutto ciò che sono adesso.» Vetro tacque per un attimo. «Per millenni mi sono chiesto perché agisco come agisco, perché talvolta mi tormento con pensieri sgradevoli, perché mi comporto con gli altri come un costruttore di ponti, o un portatore di pace, perché nascondo i miei sentimenti. Tu me l’hai detto: tanto tempo fa sono stato un bambino infelice, un figlio di mezzo, un piccolo stoico. C’era un orizzonte nel mio passato, una curva oltre la quale non potevo vedere. Tu l’hai rimosso. Ciò che mi hai dato non ha prezzo.» Vetro si interruppe. Quando riprese a parlare il suo tono era più scanzonato. «Ti ringrazio dal profondo del mio ultrarigenerato cuore.» Keith ridacchiò, emettendo un sibilo simile a quello di una valvola di sicurezza. Anche l’altro Keith rise, con il suo caratteristico scampanellio. Alla fine risero entrambi, divertiti dal suono emesso dall’altro. «Temo che per te sia giunto il momento di tornare a casa» disse Vetro. Keith annuì. Vetro rimase silenzioso per un po’, poi disse: «Mi sono trattenuto dal darti consigli, Keith. Non è compito mio e, comunque, ci sono dieci miliardi di anni tra noi. Siamo due persone diverse, in parecchi sensi. Ciò che è giusto per me adesso, in questo stadio della vita, potrebbe non essere giusto per te. Ma sono in debito con te per quello che mi hai dato, enormemente in debito, e vorrei ripagarti con un piccolo suggerimento.» Keith inclinò la testa, in attesa. Vetro allargò le braccia trasparenti. «Ho visto, nel trascorrere degli eoni, la morale sessuale umana declinare e risorgere. Ho visto concedere sesso con la stessa facilità di un sorriso e ho visto tenere il sesso in serbo come se fosse più prezioso della pace. Ho conosciuto persone che avevano praticato l’astinenza per un miliardo di anni, e altre persone che hanno avuto più di un milione di amanti. Ho visto fare sesso tra membri di specie diverse dello stesso mondo e fra creature evolutesi su mondi diversi. Ci sono persone a me note che si sono fatte rimuovere i genitali per non avere più niente a che fare col sesso. Altre sono diventate autentici ermafroditi, capaci di fare l’amore con se stessi e procreare. Altri ancora hanno cambiato sesso… ho un amico che cambia da maschio a femmina ogni mille anni, regolare come un orologio. Ci sono stati tempi in cui l’umanità ha manifestato una netta preferenza per l’omosessualità, per l’eterosessualità, per l’incesto, per l’harem, per la prostituzione, per la bestialità, per il sadomasochismo, e ci sono stati tempi in cui ciascuna di queste pratiche è stata messa al bando. Ho visto contratti matrimoniali con la data di scadenza e ho visto matrimoni durati cinque miliardi di anni. E anche tu, amico mio, vivrai abbastanza a lungo da vedere tutte queste cose. Ma in questa serie continua di cambiamenti esiste una costante, per la gente di coscienza, per la gente come me e te: se fai del male a qualcuno che ti sta a cuore, allora hai peccato.» Vetro scosse il capo. «Non mi ricordo di Clarissa. Non ricordo nulla di lei. Non ho idea di ciò che le è accaduto. Se anche lei è diventata immortale allora forse è ancora viva e potrei rintracciarla. Ho amato un migliaio di altri esseri umani, nel corso degli anni, un numero insignificante secondo gli standard di molta gente, ma sufficiente per me. Non c’è dubbio, però, che Rissa deve essere stata molto, molto speciale per noi: traspare con chiarezza dal modo in cui parli di lei.» Vetro fece una pausa e Keith ebbe la sconvolgente sensazione che gli occhi di lui, invisibili nella trasparente testa a uovo, scrutassero i suoi scavando la verità che essi celavano. «Posso leggerti dentro, Keith. Quando prima mi hai detto di lasciare perdere, di cambiare discorso, era ovvio che cosa volevi nascondere, che cosa occupava le tue riflessioni.» Un istante di silenzio. Anche il simulacro di foresta intorno a loro rispettò quella pace. «Non farle male, Keith. Faresti solo del male a te stesso.» «È questo il suggerimento?» domandò Keith. Vetro si strinse leggermente nelle spalle. «È questo.» Keith rimase zitto per un po’. Poi: «Come farò a ricordarmelo? Hai detto che spazzerai via tutti i miei ricordi di questo incontro.» «Questo pensiero lo lascerò intatto. Ma ugualmente non ti ricorderai di me: crederai che venga da te stesso… il che, in un certo senso, è la pura verità.» Keith rifletté a lungo per trovare una risposta appropriata. Infine disse: «Grazie.» Vetro annuì. Poi, con tono rattristato, disse: «È tempo che tu parta.» Ci fu un momento di disagio nel quale i due rimasero a fissarsi, ritti l’uno di fronte all’altro. Keith fece per porgere la mano, poi la lasciò ricadere. Infine, dopo un attimo di esitazione, fece un passo avanti e abbracciò Vetro, scoprendo con sorpresa che il corpo dell’uomo trasparente era cedevole e caldo. L’abbraccio durò solo qualche secondo. «Forse un giorno ci incontreremo ancora» disse Keith, facendo un passo indietro. «Se ti verrà voglia di venire a trovarmi nel Ventunesimo secolo…» «Forse lo farò. Qui stiamo per dare avvio a qualcosa di molto, molto grande. All’inizio ti ho detto che era in gioco il destino dell’universo, e in questo gioco io svolgo un ruolo chiave… il che significa che lo svolgi anche tu, è ovvio. Da alcune ere geologiche ho rinunciato a essere un sociologo. Come avrai già capito, ho avuto migliaia di carriere nel corso dei millenni e adesso sono un… secondo i tuoi concetti si potrebbe dire che sono un fisico. Prima o poi il mio nuovo lavoro mi obbligherà a un viaggio nel passato.» «Allora cerca almeno di ricordare il nostro nome per intero» disse Keith. «Io sono registrato negli elenchi del Commonwealth, ma non mi troverai mai se te lo dimentichi.» «No» disse Vetro. «Questa volta prometto che non mi dimenticherò di te, né delle parti del nostro passato che hai condiviso con me.» Fece una pausa. «Arrivederci, amico mio.» La simulazione della foresta, il sole immobile, la luna di giorno e il prato di quadrifogli si fusero tutti insieme rivelando l’interno cubico di un molo d’attracco. Keith si avviò verso la sua scialuppa. Vetro rimase immobile sul molo quando questo si aprì allo spazio. L’ennesima magia: non aveva bisogno della tuta spaziale. Keith premette un tasto e la scialuppa avanzò nel buio. La nebulosa rosa a sei dita che un tempo era stata il Sole colorava il cielo alla sua sinistra e il drago color uovo di pettirosso indietreggiava alle sue spalle. Diresse la scialuppa verso l’invisibile punto della scorciatoia. Mentre la toccava sentì un vago prurito nella testa. Dunque… Stava pensando a… a qualcosa che… Il pensiero, qualunque fosse, se n’era andato. Non aveva importanza. L’anello di radiazione Soderstrom passò oltre la scialuppa, da prua a poppa, e agli occhi di Keith si presentò il cielo di Tau Ceti. La stazione Grand Central era appena visibile alla sua destra e aveva uno strano aspetto, immersa com’era nella debole luce rossa della nuova arrivata, la stella nana. Come faceva sempre quando arrivava lì, Keith passò qualche secondo a cercare Bootes e poi il Sole. Fece cenno di sì e sorrise. Era sempre un piacere scoprire che il suo vecchio amico non si era trasformato in una nova… 23 Keith aveva sempre pensato che la stazione Grand Central ricordasse quattro piatti disposti sui vertici di un quadrato. Oggi invece, chissà perché, gli sembrava un quadrifoglio che fluttuava su uno sfondo stellato. Ciascuna foglia (o piatto) aveva un diametro di un chilometro e uno spessore di ottanta metri, il che rendeva la stazione la più gigantesca struttura artificiale nello spazio del Commonwealth. Come il disco centrale della Starplex, dimensioni a parte, il bordo esterno dei piatti era affollato dai boccaporti dei moli d’attracco, la maggior parte dei quali aveva il marchio di società mercantili terrestri. Il computer della scialuppa di Keith ricevette le istruzioni per l’atterraggio dai controllori del traffico di Grand Central, e lo portò a un anello d’attracco adiacente a un grande portale ondulato sul quale spiccava il simbolo giallo della Hudson’s Bay Company, giunta ormai al quinto secolo di attività. Keith approfittò dello scafo trasparente della scialuppa per guardarsi intorno. Nel cielo fluttuavano navi morte. I rimorchiatori in arrivo ai moli d’attracco trainavano relitti. Uno dei quattro piatti della stazione era completamente buio, come se avesse subito gravi danni nella battaglia. Non appena la scialuppa ebbe attraccato, Keith uscì nella stazione. A differenza della Starplex, che era un’unità del Commonwealth, Grand Central apparteneva completamente ai popoli della Terra e nei suoi ambienti comuni vigevano le condizioni terrestri medie. Ad attendere Keith c’era un funzionario governativo. Aveva un braccio al collo. Probabilmente aveva avuto un incidente durante la battaglia con i waldahudin, perché la rete saldaossa che indossava doveva essere portata soltanto per 72 ore dopo la frattura. Il funzionario lo condusse all’elegante ufficio di Petra Kenyatta, Primo ministro del governo umano della provincia di Tau Ceti. Kenyatta, una donna africana di circa cinquant’anni, si alzò in piedi per salutare Keith. «Buongiorno, dottor Lansing» disse porgendogli la mano destra. Keith gliela strinse. La stretta di lei fu energica, quasi dolorosa. «Signora.» «Prego, si sieda.» «Grazie.» Keith si era appena seduto sulla sedia (una sedia normale, umana, non plasmabile) che la porta tornò ad aprirsi per fare entrare un’altra donna, dall’aspetto nordico e un po’ più giovane di Kenyatta. «Conosce il commissario Amundsen?» domandò il Primo ministro. «È al comando delle forze di polizia delle Nazioni Unite, qui a Tau Ceti.» Keith si alzò a metà dalla sedia. «Commissario.» «È chiaro» disse la Amundsen prendendo una sedia per sé «che “forze di polizia” è un eufemismo. È la definizione che usiamo per orecchie aliene.» Keith sentì un vuoto allo stomaco. «I rinforzi sono già in viaggio, sia dal sistema solare sia da Epsilon Indi» lo informò la Amundsen. «Saremo pronti a muovere su Rehbollo non appena arriveranno.» «Muovere su Rehbollo?» ripeté Keith, attonito. «Esatto» confermò il commissario. «Spediremo quei maiali a calci fino ad Andromeda.» Keith scosse la testa. «Ma il pericolo è sicuramente passato. Un attacco di sorpresa come quello funziona una volta soltanto. Non torneranno più.» «In questo modo ne saremo ancora più sicuri» commentò Kenyatta. «Le Nazioni Unite non possono avere dato la loro approvazione» disse Keith. «Le Nazioni Unite no, è ovvio» confermò Amundsen. «I delfini non hanno abbastanza spina dorsale per un’azione del genere. Ma siamo sicuri che il GovUm voterà a favore.» Keith si rivolse al premier Kenyatta. «Sarebbe un errore dare inizio a un’escalation di violenza, signor Primo ministro. I waldahudin hanno scoperto come distruggere le scorciatoie.» Gli occhi di zaffiro del commissario Amundsen si spalancarono: «Ho capito bene?» «Possono tagliarci fuori dal resto della galassia, e per farlo devono solo fare arrivare una nave da questa parte della scorciatoia di Tau Ceti.» «Qual è la tecnica?» «Non ne ho idea. Ma mi hanno assicurato che funziona.» «Una ragione di più per distruggerli» affermò Kenyatta. «E come hanno fatto a prendere di sorpresa voi?» domandò il commissario Amundsen. «Qui a Tau Ceti hanno fatto sbucare dalla scorciatoia un grande vascello di appoggio, che ha cominciato a vomitare caccia non appena è arrivato. Da ciò che ha detto la dottoressa Cervantes quando è stata qui, ho capito che contro la Starplex hanno mandato invece navette isolate. Come mai non siete stati messi sull’avviso dall’arrivo della prima?» «La stella appena emersa si trovava tra noi e la scorciatoia.» «Chi ha ordinato alla nave di portarsi in quella posizione?» domandò Amundsen. Keith fece una pausa. «Io. Sono io che do tutti gli ordini a bordo della Starplex. Eravamo impegnati in ricerche astronomiche e per svolgerle adeguatamente abbiamo dovuto spostare la nave lontano dalla scorciatoia. Mi prendo io ogni responsabilità.» «Non si preoccupi» disse Amundsen, con un ghigno che sembrava un rictus. «Gliela faremo pagare, a quei maiali.» «Non li chiami così» esclamò Keith, sorprendendo se stesso. «Come?» «Non usi quella parola per definirli. Si chiamano waldahudin.» Si sforzò di pronunciare la parola come un latrato, con il giusto accento e la giusta percentuale di voce roca. Il commissario Amundsen rimase a bocca aperta. «Lo sa come ci chiamano loro?» domandò. Keith fece un vago cenno negativo. «“Gargtelkin”» disse lei. «“Coloro che copulano fuori stagione”.» Keith soffocò un sorriso e tornò subito serio. «Non possiamo iniziare una guerra contro di loro.» «L’hanno iniziata loro.» Pensò alla sorella più grande e al fratello più piccolo. Pensò a un vecchio film in bianco e nero nel quale erano in lizza due inni, la Marsigliese e Wacht am Rhein. E pensò soprattutto alla giovane Via Lattea raccolta nella sua mano tesa a coppa. «No» si limitò a dire. «Che cosa significa “no”?» sbottò Amundsen. «Sono loro che hanno cominciato!» «Voglio dire che non fa alcuna differenza. Ci sono esseri, là fuori, fatti di materia oscura. Ci sono scorciatoie nello spazio intergalattico. Ci sono stelle che viaggiano dal futuro al passato. E voi vi preoccupate di chi ha cominciato? Non ha importanza. L’importante è che finisca, che finisca qui e subito.» «È esattamente di questo che stiamo discutendo» disse il premier Kenyatta. «Farla finita una volta per tutte. Dare ai maiali un bel calcione sui loro culi pelosi.» Keith scosse il capo. Era la crisi della mezza età… per tutti loro, umani e waldahudin. «Fatemi andare a Rehbollo. Fatemi parlare con la regina Trath. In teoria io sono un diplomatico: fatemi andare a parlare di pace, a costruire un ponte.» «Sono morte molte persone» osservò Amundsen. «Qui a Tau Ceti sono morti degli esseri umani.» Keith pensò a Saul Ben-Abraham. Non all’orribile immagine che gli veniva in mente di solito, il cranio di Saul aperto davanti ai suoi occhi come un fiore rosso, ma a Saul vivo, con il grande sorriso che si apriva nella barba scura e con in mano un boccale di birra distillata in casa. Saul Ben-Abraham non avrebbe mai voluto la guerra. Si era recato su un’astronave aliena per cercare la pace, l’amicizia. E che dire di quell’altro Saul? Saul Lansing-Cervantes… stonato come una campana, con la sua barbetta caprina, in corsa tra la seconda e la terza base sui campi di baseball di Harvard, drogato di cioccolato… e bravissimo in fisica, proprio il tipo di persona che avrebbero selezionato come pilota di navetta a iperpropulsione, se fosse scoppiata la guerra. «Anche in passato sono morti degli esseri umani e non abbiamo cercato vendetta» disse Keith. Rombo aveva ragione. “Lasciate perdere” aveva detto. Lasciamo perdere tutto. Keith sentì che lo stava lasciando: quello sgradevole peso che si era portato dentro per 18 anni lo stava lasciando. Guardò le due donne. «Nel nome di coloro che sono morti… e di coloro che morirebbero se scoppiasse una guerra… dobbiamo spegnere il fuoco prima che sia troppo tardi.» Keith salì nuovamente a bordo della scialuppa da viaggio, lasciò Grand Central e si diresse alla scorciatoia. Aveva discusso per ore con il commissario Amundsen e con il Primo ministro Kenyatta, ma non si era arreso. Ecco qual era il mulino a vento che aveva sempre cercato, la battaglia degna di essere combattuta: una battaglia per la pace. Un sogno impossibile? Pensò alla vita piena di meraviglie del suo bis-bisnonno: automobili e aeroplani, laser e atterraggi sulla Luna. E alla sua stessa vita piena di meraviglie. E alle meraviglie che sarebbero arrivate in futuro. Niente è impossibile… nemmeno la pace. Ogni tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia. “Abbastanza avanzata.” Anche le razze crescevano e arrivavano alla maturità, non c’erano dubbi. Lui adesso si sentiva pronto. C’era voluto parecchio tempo, ma era pronto. Anche altri dovevano esserlo. Borman, Lovell e Anders avevano tenuto la Terra nella mano tesa a coppa. Soltanto un quarto di secolo prima quello stesso mondo aveva cominciato a disarmarsi. Einstein non era vissuto abbastanza per vederlo, ma il suo sogno impossibile di far tornare nella bottiglia il genio nucleare si era realizzato. E adesso umani e waldahudin avevano entrambi tenuto la galassia nelle loro mani tese a coppa. Una galassia che Keith, e certamente anche altri, avrebbero visto ruotare più e più volte intorno al proprio asse, nel corso delle loro lunghissime vite. Ci sarebbe stata la pace tra le razze, lui avrebbe fatto ogni sforzo in questo senso. Dopo tutto, quale lavoro migliore avrebbe potuto trovare un figlio di mezzo che aveva davanti a sé una vita lunga miliardi di anni? La scialuppa toccò la scorciatoia, l’alone color porpora passò lungo lo scafo sferico e Keith emerse nei pressi della stella verde. La Starplex incombeva sopra di lui, un gigantesco diamante color rame e argento che si stagliava su un fondale stellato. Keith vide che il portale del molo d’attracco 7 era aperto e il cuneo bronzeo della Rum Runner era in manovra di avvicinamento, il che significava che Jag e Lunga Bottiglia portavano notizie sulla ricerca del cucciolo matos. Con il cuore che gli batteva forte, Keith attivò la sequenza preprogrammata di attracco della scialuppa. Keith si affrettò a raggiungere il ponte. Anche se non era stato via a lungo, quando vide Rissa, che per caso si trovava alla sua postazione nonostante fosse l’ora del turno delta, sentì il bisogno di abbracciarla. La tenne stretta per parecchi secondi, assorbendo il calore di lei. Bicchiere da Vino rotolò educatamente via dalla postazione del direttore, nel caso che Keith volesse usarla, ma Keith indicò all’ib di tornare al suo posto e si accomodò invece nella galleria in fondo alla stanza. Aveva appena preso posto che la porta anteriore del ponte si aprì, e fece il suo ingresso Jag. «Il piccolo è in trappola» latrò mentre si dirigeva alla postazione scienze fisiche, che in quel momento era libera. «È bloccato in un’orbita ravvicinata intorno a una stella emersa dalla stessa uscita da cui era sbucato lui.» «L’hai chiamato via radio?» domandò Rissa. «Ti ha risposto?» «No» disse Jag «ma la stella produce una quantità di rumore. Il nostro messaggio potrebbe essersi confuso in quel fracasso, o forse noi non siamo riusciti a isolare la risposta.» «Sarebbe come tentare di udire un bisbiglio durante un uragano» commentò Keith, scuotendo la testa. «Assolutamente impossibile.» «Specialmente morto fosse il matos se» s’intromise Lunga Bottiglia sbucando dalla vasca di tribordo. Keith guardò il muso del delfino, poi annuì. «È una possibilità. Come si fa a dire se una creatura del genere è viva o no?» Rissa aggrottò la fronte. «Nessuno di noi sopravviverebbe cinque secondi così vicino a una stella senza una schermatura adeguata o potentissimi campi di forza. Il piccolo è nudo.» «La situazione è peggiore di quel che sembra» disse Jag. «Il globo è “nero”. Benché la materia quark-lucente sia trasparente alla radiazione elettromagnetica, la polvere di materia normale che la permea non riflette quasi per niente la luce e il calore della stella. Il piccolo potrebbe essere carbonizzato.» «E allora che cosa facciamo?» chiese Keith. «Per prima cosa» rispose Jag «dovremmo metterlo all’ombra… costruire con un foglio riflettente un parasole che possa essere interposto tra la stella e il matos.» «I nostri laboratori nanotecnologici sono in grado di fabbricarlo?» domandò Keith. «In un caso ordinario chiederei a Nuova Pechino di provvedere alla costruzione e di spedircelo attraverso la scorciatoia di Tau Ceti, ma li ho visti piuttosto malconci quando mi sono recato da loro per l’incontro.» Alle operazioni interne sedeva un giovane nativo americano. «Dovrei controllare con Lianne per esserne sicuro» disse «ma credo che potremmo farcela. Non sarà facile, però: il parasole dovrà essere più largo di 100 mila chilometri. Anche se avesse lo spessore di una molecola, ci vorrà comunque moltissimo materiale.» «Mettilo in produzione» ordinò Keith. «Tempo previsto?» «Se siamo fortunati, sei ore» rispose il giovanotto. «Altrimenti dodici.» «E dopo che avremo schermato il piccolo, che faremo?» domandò Rissa. «Sarà pur sempre in trappola.» Keith guardò Jag. «Possiamo usare il parasole come una vela, e lasciare che ci pensi il vento solare a spingerlo via dalla stella?» Jag sbuffò. «Con una massa di 10 chili? Neanche pensarci.» «Okay, okay» disse Keith. «E se… senti questa: se proteggessimo il piccolo con un qualche campo di forza e poi facessimo esplodere la stella facendola diventare una nova…» Jag stava emettendo latrati secchi e isolati: una risata waldahud. «La tua immaginazione è senza freni, Lansing. Sì, ce stato qualche lavoro teorico su reazioni-nova controllate, io stesso ho esplorato questo campo per qualche tempo, ma non potremmo mai costruire uno schermo in grado di proteggere il piccolo dall’esplosione di una nova a soli 40 milioni di chilometri di distanza.» Keith non si perse d’animo. «D’accordo. Allora potremmo provare a spingere la nuova stella nella scorciatoia: quando sarà passata completamente, l’attrazione gravitazionale sparirà, e il cucciolo sarà libero.» «La stella si sta “allontanando” dalla scorciatoia» disse Jag. «Non possiamo certo spostare la scorciatoia, e se avessimo l’energia necessaria per far cambiare rotta a una stella potremmo anche strappare un oggetto grande quanto Giove da un’orbita stellare ravvicinata. Solo che non ce l’abbiamo.» Jag si guardò intorno. «Altre idee brillanti?» «Sì» disse Keith dopo un momento. Fissò Jag diritto negli occhi. «Assolutamente sì.» Quando Keith ebbe finito di parlare, la bocca di Jag rimase spalancata per parecchi secondi, lasciando intravedere le due ricurve placche dentali, biancazzurre all’interno. Quando infine abbaiò, lo fece con tono rispettoso. «So che in teoria è possibile, ma nessuno ha mai provato a farlo con oggetti neanche lontanamente vicini a queste dimensioni.» Keith annuì. «Lo so. Se hai un suggerimento migliore…» «Potremmo lasciare il cucciolo matos in orbita intorno alla stella» disse la voce di Jag, con il suo accento di Brooklyn. «Se è ancora vivo, una volta che avremo messo in posizione lo schermo parasole sopravviverà egregiamente fino al termine della sua esistenza naturale, per quanto lunga possa essere, pur restando in orbita ravvicinata intorno a una stella. Se il tuo piano non dovesse funzionare, invece, il piccolo matos sarà ucciso» la voce di Jag divenne più lenta. «È vero che io sono sempre in cerca di gloria, Lansing, e so bene che il mio ruolo in ciò che proponi è cruciale. Quindi non ho dubbi che la nostra riuscita dirotterebbe su di me una gloria considerevole. Tuttavia non possiamo essere noi a prendere una decisione simile. In una situazione normale suggerirei di chiedere il permesso al… al “paziente”… prima di mettere in atto un tentativo così rischioso, ma nel nostro caso è impossibile a causa del fracasso elettromagnetico. Quindi suggerisco di comportarci secondo una regola che, in simili circostanze, vale tanto per la tua razza quanto per la mia: chiediamo ai parenti più prossimi.» Keith rifletté sul suggerimento, poi cominciò lentamente ad annuire. «Hai ragione, naturalmente. Io continuavo a guardare il quadro politico, cioè i vantaggi per le future relazioni con i matos che ci verrebbero da una soluzione positiva di questa faccenda. A volte mi comporto proprio come un maiale.» «Questo è vero» disse Jag con leggerezza, fingendo di non cogliere l’offesa implicita nella sfortunata scelta di parole di Keith. «Gira voce, però, che avrai tutto il tempo che ti serve per acquisire un po’ più di saggezza.» Keith parlò nel microfono. «Dalla Starplex a Occhio di Gatto. Dalla Starplex a Occhio di Gatto.» Ed ecco l’incongruo accento francese. Keith si era quasi aspettato di sentirlo dire bonjour. «Salve, Starplex. Chiedere è sbagliato, però…» Keith sorrise. «Sì, abbiamo notizie del vostro piccolo. Lo abbiamo localizzato. Ma si trova in orbita ravvicinata intorno a una stella azzurra, e non è capace di staccarsene con i propri mezzi.» «Brutto» commentò Occhio di Gatto. «Brutto.» Keith annuì. «Noi però abbiamo un’idea che potrebbe, ripeto “potrebbe”… permetterci di trarre in salvo il piccolo.» «Bene» disse Occhio di Gatto. «L’idea comporta un rischio elevato.» «Quantificare.» Keith guardò Jag, che sollevò tutte e quattro le spalle. «Impossibile» rispose l’umano. «Non abbiamo mai fatto niente del genere su una scala simile. Anzi, per la precisione, fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che esistesse la possibilità teorica di farlo. Potrebbe funzionare oppure no, e non ho modo di sapere come sono distribuite le probabilità.» «Idee migliori?» «No. In realtà è la nostra unica idea.» «Descrivete il piano.» Keith obbedì, per quanto lo consentiva il limitato vocabolario che avevano messo insieme. «Difficile» commentò Occhio di Gatto. «Sì.» Ci fu un lungo intervallo di silenzio sulla frequenza utilizzata da Occhio di Gatto e contemporaneamente un gran chiacchierio su tutti gli altri canali… la comunità matos discuteva sulla decisione da prendere. Alla fine Occhio di Gatto tornò a farsi vivo. «Provateci, ma… ma… sappiate che duecentodiciotto meno uno è molto meno che duecentodiciassette.» Keith deglutì. «Lo so.» La PDQ (pilotata da Anguria Scavata, cetaceo laureato in fisica) e la Rum Runner (con a bordo Jag e Lunga Bottiglia) attraversarono la scorciatoia in direzione del settore dove si trovava il piccolo matos. Lavorando in coppia, le due navi stesero il foglio parasole di spessore molecolare. Sul bordo del foglio erano montati motori a reazione che spingevano il parasole verso la stella per impedire che il vento solare lo spingesse via. Non appena il piccolo fu all’ombra, la temperatura della sua faccia esposta cominciò a calare rapidamente. Subito dopo, 112 boe costruite in fretta e furia svuotando altrettanti watson e riempiendoli con apparecchiature speciali sbucarono dalla scorciatoia, inviate dalla Starplex. Le due sonde si servirono di raggi trattori per collocarle in orbite che intersecavano quella del cucciolo. Su uno dei suoi monitor alti e sottili a bordo della Rum Runner, Jag consultò una mappa iperspaziale che mostrava il ripido pozzo gravitazionale locale, con la stella sul fondo. Vicini alla stella com’erano, le pareti del pozzo apparivano quasi perpendicolari: cominciavano a svasarsi appena prima di incontrare il matos in orbita. Il cucciolo creava lui stesso un secondo pozzo, più piccolo. Quando le boe furono tutte in posizione, la PDQ fece marcia indietro dirigendosi verso la scorciatoia ma senza attraversarla, e continuò a procedere in quella direzione per mezza giornata. Alla fine, furono tutti allineati: a un’estremità c’era la Rum Runner; più avanti c’era il cucciolo matos; quaranta milioni di chilometri oltre il piccolo c’era la fiammeggiante stella azzurra; trecento milioni di chilometri più in là c’era la scorciatoia; e un miliardo di chilometri più avanti c’era la PDQ… Anguria Scavata si trovava ora a ben 72 minuti luce dalla stella, a una distanza sufficiente a rendere il suo spazio locale ragionevolmente piatto. «Pronto?» latrò Jag, rivolto a Lunga Bottiglia che si trovava nel serbatoio di pilotaggio della Rum Runner. «Pronto» abbaiò di rimando il delfino in waldahudar. Jag toccò un comando e la rete di boe che circondava il piccolo matos entrò in vita. Ciascuna di essa conteneva un generatore di gravità artificiale, alimentato dall’energia solare rubata alla stessa stella contro la quale combattevano. A poco a poco, e di pari passo, le boe aumentarono il loro effetto, e altrettanto lentamente un punto sempre più piatto cominciò a formarsi su una parete del pozzo gravitazionale della stella. «Piano» disse Jag sottovoce, controllando la mappa iperspaziale. «Piano.» Il punto continuò ad appiattirsi sempre di più. Si doveva stare attentissimi a non appiattire anche il pozzo gravitazionale dello stesso matos, perché se fossero stati soppressi gli effetti della massa del cucciolo (che era ciò che lo teneva insieme) esso avrebbe perduto la coesione e si sarebbe gonfiato come un pallone. L’effetto delle boe continuò ad aumentare e la curvatura dello spaziotempo continuò a diminuire, finché, finché… Finché divenne perfettamente piatto, come un altopiano che sporgesse dalle pareti del pozzo. Per il matos doveva essere come trovarsi nello spazio aperto, anziché a distanza di sputo da una stella. «L’isolamento è completo» annunciò Jag. «Adesso portiamolo via di là.» «Iperpropulsori attivo gli» comunicò Lunga Bottiglia. Le boe antigravità erano state come dei punti su una sfera intorno al cucciolo, ma quando entrarono in funzione i loro generatori di campo iperspaziali la superficie della sfera divenne come uno specchio, simile a un globo di mercurio che fluttuasse libero nello spazio. Nel giro di qualche secondo, il globo sprofondò nel nulla e scomparve. Le boe erano programmate per condurre il piccolo matos il più lontano possibile dalla stella azzurra. La PDQ era in attesa accanto al punto in cui si prevedeva che il matos emergesse dall’iperspazio, un punto abbastanza lontano dalla stella da permettere al campo di iperpropulsione di collassare senza difficoltà. La Rum Runner si diresse nello stesso punto, con la sola spinta dei razzi. Mentre passavano accanto alla scorciatoia li raggiunse un messaggio di Anguria Scavata, virato verso il blu a causa della loro accelerazione verso la nave della delfina. “Dalla PDQ a Lunga Bottiglia e a Jag. Arrivato è il matos piccolo; sbucato è nello spazio normale ai miei davanti occhi. Il campo di iperpropulsione è collassato difficoltà senza. Ma il piccolo non ancora segni mostra di vita, e non risponde saluto al mio.” La pelliccia di Jag si agitò pensosamente. Nessuno sapeva se il piccolo sarebbe sopravvissuto, senza protezioni com’era, a quel breve viaggio nell’iperspazio. Anche se prima era vivo, forse era stata quell’esperienza a ucciderlo. Quello che lo faceva impazzire era che non esisteva alcun modo per scoprirlo. La tecnica di appiattimento dello spazio era rischiosa. Loro stessi avevano preferito non usarla, a costo di rinunciare agli iperpropulsori della Rum Runner e di recarsi all’appuntamento con la PDO usando soltanto i razzi. Per tenersi occupato e per allontanare la mente dal destino del cucciolo Jag si mise a chiacchierare con Lunga Bottiglia che, sia detto a suo credito, stava pilotando secondo una perfetta linea retta. «A voi delfini gli umani piacciono» disse Jag. «Quasi a tutti» confermò Lunga Bottiglia in un waldahudar dai toni acuti. Si staccò dalle pinne i droni di pilotaggio e attivò il pilota automatico. «Perché?» domandò bruscamente Jag. «Ho letto qualcosa sulla storia della Terra. Sono stati loro a inquinare gli oceani in cui nuotavate, a catturarvi e a imprigionarvi dentro vasche chiuse, a intrappolarvi nelle reti da pesca.» «Nessuno di loro del male a me fatto ha» rispose Lunga Bottiglia. «No, però…» «La differenza ecco: non noi generalizziamo. Certi umani cattivi hanno fatto certe cattive cose: quegli umani non piaccionci. Quanto al resto dell’umanità, per uno uno li giudichiamo.» «Ma non vi hanno trattato meglio, quando hanno scoperto che eravate intelligenti?» «Gli umani scoperto hanno che eravamo intelligenti prima che scoprissimo noi loro lo erano che.» «Che cosa?» esclamò Jag. «Ma era ovvio che loro fossero intelligenti. Avevano costruito città, strade…» «Visto niente di questo.» «No, me ne rendo conto. Ma navigavano su battelli, fabbricavano reti, indossavano vestiti.» «Niente di tutto ciò significativo era per noi. Avevamo non concetti per simili cose, nessun termine di paragone. I molluschi crescere si fanno una conchiglia, hanno gli umani vestiti di tessuto. La copertura dei molluschi è più robusta. Avremmo giudicare dovuto i molluschi più intelligenti? Tu dici che gli umani cose costruivano. Noi concetto non avevamo di costruzione. Sapevamo non che costruivano barche. Forse pensavamo che le barche fossero vive, o che un tempo lo erano state. Alcune avevano di legno sapore, altre lasciavano chimici elementi nell’acqua, proprio come fanno le cose viventi. Era un successo, muoversi sulla schiena delle barche? Noi credevamo che gli umani fossero come le remore degli squali.» «Ma…» «Loro la nostra intelligenza non hanno visto. Ci guardavano negli occhi e non ci vedevano. E noi loro guardavamo e non vedevamo li.» «Ma quando avete scoperto la loro intelligenza, e loro la vostra, vi sarete resi conto di quanto male vi hanno fatto.» «Sì, alcuni di loro in passato maltrattato ci hanno. Gli umani generalizzano, in colpa si sentono. Imparato ho io da tempo che il concetto di colpa ancestrale, di peccato originale, è una centrale credenza per molti di loro. Nei tribunali umani discussi sono stati casi per determinare il dovuto ai delfini compenso. Questo per noi senso ha non.» «Adesso però voi siete al fianco degli umani, un fatto che per la mia gente è difficile da comprendere. Come fate?» Lunga Bottiglia abbaiò: «Loro debolezza accetta la, il benvenuto alla loro forza dà.» Jag rimase zitto. Alla fine la Rum Runner raggiunse la sua destinazione, a 1,3 miliardi di chilometri dalla stella e a un miliardo di chilometri dalla scorciatoia. Jag e Anguria Scavata si consultarono via radio per stabilire l’esatta traiettoria su cui lanciare il piccolo matos, quindi riattivarono le boe gravitazionali che, spingendo e tirando secondo i piani, misero in movimento il piccolo verso la stella facendolo cadere proprio verso il pozzo gravitazionale dal quale l’avevano appena tirato fuori. Questa volta, però, tra il matos e la stella c’era il punto della scorciatoia; questa volta, se tutto fosse andato bene, il cucciolo sarebbe entrato nella scorciatoia e il suo avvicinamento sarebbe stato favorito proprio dalla gravità della stella. Anche con i razzi a piena potenza, alle boe ci volle più di un giorno per portare il matos in vicinanza della scorciatoia. Anguria Scavata spedì un watson per avvertire la Starplex che, se tutto andava bene, il piccolo sarebbe emerso entro breve dalla loro uscita. Quando furono nei pressi della scorciatoia, le boe si diedero da fare per rallentare la corsa del cucciolo, in modo che attraversasse il portale lentamente. L’intero sforzo di recupero sarebbe stato vanificato se il matos fosse stato scagliato verso la stella verde che stazionava vicino alla Starplex. Una volta rallentato a una velocità ragionevole, il cucciolo fu messo nella direzione necessaria per attraversare la sfera tachionica con la giusta angolazione. Le prime a passare dalla scorciatoia furono alcune boe gravitazionali, ma alla fine passò anche il cucciolo. Il punto cominciò a inghiottirlo, allargandosi, avviluppando il matos, spalancando labbra color porpora per circondare e infine per avvolgere la grande sfera nera. Jag si chiese che cosa pensasse il matos durante il passaggio, sempre che fosse ancora vivo. E se era vivo, e se proprio a quel punto avesse ripreso coscienza (qualunque cosa fosse la coscienza), allora, si chiese Jag, cosa sarebbe successo se si fosse fatto prendere dal panico? Se fosse stato incapace di dare un senso al fatto di trovarsi parzialmente in un settore di spazio e parzialmente in un altro? Avrebbe potuto opporsi alla spinta e fermarsi. E se fosse morto a metà strada, nel bel mezzo della scorciatoia, forse sarebbe stato impossibile sloggiarlo di lì. Il portale aderiva con precisione a ciò che lo attraversava, per cui non sarebbe stato possibile coordinare i generatori di gravità dall’una e dall’altra parte. E per la PDQ e la Rum Runner, questo avrebbe significato rimanere intrappolati per sempre all’estremità del braccio di Perseo, a decine di migliaia di anni luce dai loro mondi di origine. Il matos si deformò lievemente nell’attraversare la scorciatoia, lo si vide dagli spostamenti dei confini del portale. Quegli spostamenti erano normali, e i loro effetti sui rigidi scafi delle astronavi erano trascurabili, ma i matos erano composti principalmente di gas… un gas esotico, fatto di quark-lucenti, ma pur sempre gas. Jag temette che il piccolo potesse essere segato in due, come in un processo di nascita normale, che poteva però risultare fatale verificandosi in modo inaspettato. Il nucleo della creatura risultò invece abbastanza solido da impedire alla scorciatoia di tagliarlo in due. Alla fine il matos passò completamente. La scorciatoia collassò alla sua consueta esistenza adimensionale. Jag avrebbe voluto ordinare immediatamente a Lunga Bottiglia di tuffarvisi, per poter vedere il risultato dei loro sforzi. Dovettero però aspettare per ore, in compagnia di Anguria Scavata sulla PDQ, per essere certi che il matos si fosse spostato abbastanza lontano dalla scorciatoia da evitare che una collisione o anche soltanto le forze di marea, provocate dalla sua immensa gravità, distruggessero le loro navi subito dopo l’emersione dalla scorciatoia. Alla fine, dopo che una sonda ebbe loro comunicato che la strada era libera, Lunga Bottiglia programmò il computer per tornare a casa. La Rum Runner si spostò in avanti. La scorciatoia la inghiottì e passarono dall’altra parte. Ci vollero alcuni secondi perché Jag afferrasse il significato di ciò che vedeva. Il piccolo era là, questo era chiaro. E c’era anche la Starplex. Ma la Starplex era circondata da ogni lato da matos e sembrava morta: tutte le sue luci erano spente. 24 Il punto che costituiva la scorciatoia cominciò a espandersi, iniziando come una pallina violetta di radiazione Soderstrom ma crescendo inarrestabilmente in un anello color porpora. Il primo oggetto che emerse fu una delle boe antigravitazionali costruite in fretta e furia sulla Starplex, poi ne arrivò un’altra e ancora un’altra. Sfrecciavano nel cielo come pallottole. Fino a un istante prima avevano rimorchiato il cucciolo matos, ma da quando erano emerse dal portale non erano più state trattenute dalla sua massa ed erano partite per la tangente. Ben presto, però, il corpo del cucciolo matos cominciò a emergere, spuntando nel cielo da un anello color porpora. Sul ponte della Starplex, Thorald Magnor diede l’avvio a un applauso entusiasta, che trovò subito eco in centinaia di altri applausi provenienti da ogni parte della nave, mentre tutti assistevano allo spettacolo da un oblò o da uno schermo. Occhio di Gatto si spostò verso la scorciatoia insieme con una decina di adulti matos, chiamando a gran voce il piccolo. Dagli altoparlanti del ponte, Phantom trasmise una traduzione di ciò che diceva Occhio di Gatto, anche se molte parole mancavano. Il capo dei matos non limitava il suo vocabolario alle poche centinaia di parole che Rissa e Hek avevano imparato. “Vieni avanti… avanti… verso… tu sei… noi… vieni… corri… non fare… avanti… avanti…” Rombo stava usando anche gli iperscopi del ponte 1 per monitorare il cucciolo in emersione, ma fino a quel momento il piccolo non aveva trasmesso una sola parola, a meno che non avesse usato una banda lontana da quella dei 21 centimetri. Lianne Karendaughter scuoteva la testa. «Non compie nessun movimento autonomo» disse. «Deve essere morto.» Keith serrò i denti con forza. Se era morto, tutti gli sforzi che avevano fatto erano andati a vuoto. «Può darsi che un matos isolato non possa muoversi» disse infine, sforzandosi di convincere tanto Lianne quanto se stesso. «Potrebbero avere bisogno di sfruttare le reciproche forze gravitazionali e repulsive, e il cucciolo potrebbe essere ancora troppo lontano per riuscirci.» «Avanti» disse Occhio di Gatto. «Avanti… vieni… tu… avanti…» Keith non era a conoscenza di nessun passaggio così lento attraverso una scorciatoia, in precedenza. Anche se nessuno ne parlava mai, c’era sempre un senso di urgenza quando si passava: attardarsi significava stuzzicare il destino, consentire alla magia di ritrarsi. Alla fine il cucciolo completò il passaggio e la scorciatoia collassò, anche se dopo qualche istante si riaprì per far passare, una dopo l’altra, varie boe antigravitazionali. Il piccolo matos si allontanava dall’uscita, ma spinto soltanto dall’inerzia. Non aveva ancora… «Dove… dove…» Un’altra voce con accento francese si fece udire. Phantom, con un raro impulso di creatività, aveva scelto per tradurla un’inflessione infantile. «Casa… torno…» Thor diede via libera a un fragoroso applauso. «È vivo!» A Keith si inumidirono gli occhi. Lianne piangeva apertamente. «È vivo!» gridò ancora Thor. Il cucciolo matos cominciò finalmente a muoversi e si diresse subito verso Occhio di Gatto e gli altri. Gli altoparlanti tornarono a trasmettere la voce che Phantom aveva assegnato a Occhio di Gatto. «Da Occhio di Gatto alla Starplex» disse. Keith premette il pulsante del microfono. «La Starplex risponde» replicò. La risposta di Occhio di Gatto tardò più di quanto fosse richiesto dal tempo di viaggio del segnale, come se il matos stesse cercando un modo per esprimere ciò che voleva dire con il vocabolario limitato di cui disponeva. Alla fine disse semplicemente: «Siamo amici.» Sul volto di Keith si allargò un sorriso. «Sì» rispose. «Siamo amici.» «La vista del piccolo è danneggiata» disse Occhio di Gatto. «Diventerà… uguale a uno, in futuro, ma occorrerà del tempo. Tempo e assenza di luce. La stella verde è brillante; non qui, quando il piccolo è andato.» Keith annuì. «Potremmo costruire un altro scudo, per proteggere il piccolo dalla luce della stella verde.» «Altro» disse Occhio di Gatto. «Tu.» Per un attimo Keith rimase perplesso. «Ah, sì, certo. Lianne, spegni tutte le luci esterne e, dopo avere avvisato l’equipaggio, abbassa tutte le luci nelle stanze che danno sullo spazio. Se vogliono alzarle a un livello normale, di’ loro che prima tirino le tende.» Sul bel viso di Lianne campeggiava un ampio sorriso. «Provvedo subito.» La Starplex piombò nel buio e la comunità dei matos avanzò verso la grande nave e verso il bimbo appena ritrovato. La Rum Runner sbucò dalla scorciatoia, seguita dopo qualche secondo dalla PDQ. Le comunicazioni radio rassicurarono ben presto i loro equipaggi che sulla Starplex tutto andava per il meglio, e le navette fecero manovra per dirigersi ai moli d’attracco. Subito dopo l’atterraggio della Rum Runner, Jag si precipitò sul ponte. Keith stava ancora parlando con Occhio di Gatto, quando Jag arrivò sul ponte. Il direttore si girò verso il waldahud. «Grazie, Jag. Grazie di cuore.» Jag fece un cenno di assenso, accettando il ringraziamento. La voce di Occhio di Gatto risuonò dagli altoparlanti. «Noi a te uno sbaglio» disse. Un errore, pensò Keith. Ci dicono che abbiamo fatto un errore. «Tu nel punto che non è un punto non dovevi muovere con alta velocità.» «Be’, non è andata poi così male» disse Keith, ma in lui parlava il diplomatico. «Grazie a quell’errore abbiamo visto il nostro gruppo di centinaia di milioni di stelle.» «Noi chiamiamo questo gruppo…» Phantom tradusse il nuovo segnale… “galassia”. «Avete una parola per definire la galassia?» domandò Keith, sorpreso. «Esatto. Molte stelle, isolate.» «Giusto» confermò Keith. «Ebbene, la scorciatoia ci ha portati a sei miliardi di anni luce da qui. Il che significa che abbiamo visto la nostra galassia com’era sei miliardi di anni fa.» «Comprendiamo il guardare indietro.» «Ah sì?» «Sì.» Keith era impressionato. «Be’, è stato affascinante. Sei miliardi di anni fa, la Via Lattea non aveva la forma che ha adesso. Mmm, immagino che voi non lo sappiate, ma attualmente la galassia ha la forma di una spirale.» Una luce lampeggiò sulla consolle di Keith: Phantom lo informava che aveva usato una parola per la quale non esisteva alcun equivalente matos nel database di traduzione. Keith fece un cenno verso le telecamere di Phantom per indicare che aveva capito. «Una spirale» disse nel microfono «è… è…» Cercò una metafora che avesse un qualche significato: parole come “girandola” non sarebbero state di alcuna utilità con i matos. «Una spirale è…» Phantom fornì una definizione che comparve su uno dei monitor di Keith. La lesse parlando nel microfono: «Una spirale è il percorso seguito da un oggetto che ruota intorno a un punto centrale allontanandosi da esso a velocità costante.» «Comprendiamo spirale.» «Bene. La Via Lattea è una spirale con quattro… voleva dire “bracci”, ma non avrebbe avuto senso per i matos… con quattro parti.» «Sappiamo questo.» «Lo sapete?» «Fatto.» Keith guardò Jag, che per tutta risposta mosse su e giù le spalle inferiori. Che cosa intendeva dire il matos? Che lui era stato fatto per imparare questo concetto, nell’equivalente della scuola elementare per gli esseri di materia oscura? «Fatto?» ripeté Keith. «Un tempo semplice, adesso… adesso… niente parole» disse il matos. Intervenne Lianne. «Adesso “elegante”» esclamò. «Scommetto che è questa la parola che sta cercando.» «A guardarla, uno più uno è più grande di due?» domandò Keith, parlando nel microfono. «Sì, più grande. Più della somma delle parti. La spirale è…» «È “elegante”» disse Keith. «Più della somma delle parti, dal punto di vista di chi la osserva.» «Sì» confermò Occhio di Gatto. «Elegante. Spirale è elegante.» Keith annuì. Non c’era dubbio che le galassie a spirale fossero più interessanti da vedere che non le galassie ellittiche. A Keith faceva piacere che umani e matos avessero concetti estetici simili, ma non era poi troppo sorprendente, dal momento che la maggior parte dei principi dell’arte si basano sulla matematica. «Sì» disse Keith. «Le spirali sono molto eleganti.» «È per questo che le facciamo» disse la voce sintetizzata dall’altoparlante. Keith sentì un tuffo al cuore e vide Jag allargare pensosamente le sedici dita delle sue mani, l’equivalente waldahud di un’improvvisa comprensione. «Le fate voi?» chiese conferma Keith. «Affermativo. Spostiamo le stelle… con piccoli rimorchiatori, che impiegano molto tempo. Spostiamo le stelle in nuovi schemi e ci sforziamo di tenerle lì.» «Avete trasformato la nostra galassia in una spirale?» «Chi altri avrebbe potuto farlo?» Già, chi altri… «È incredibile» mormorò Keith. Jag si stava alzando dalla sedia. «No, è perfettamente credibile» disse il waldahud. «Per tutti gli dèi, spiega ogni cosa! Ho detto che non esisteva alcuna teoria sensata per spiegare come facessero la galassie ad acquistare, o a mantenere, la forma a spirale. Il fatto che a questo provvedano creature intelligenti fatte di materia oscura è… qualcosa che scuote l’intelletto, ma che è perfettamente credibile.» Keith spense il microfono. «E le altre galassie? Hai detto che tre quarti di tutte le galassie sono a spirale.» Jag si esibì nella doppia scrollata di spalle waldahud. «Chiediglielo.» «Avete trasformato in spirali anche le altre galassie?» «Non noi. Altri.» «Voglio dire, altri della vostra razza trasformano le galassie in spirali?» «Sì.» «Perché?» «Guardale. Sono eleganti. Sono… sono… una cosa per esprimersi non matematicamente.» «Arte» disse Keith. «Sì, arte» confermò Occhio di Gatto. Avendo abbandonato la sedia, Jag si lasciò cadere a quattro zampe. Keith non l’aveva mai visto fare una cosa simile. «Dèi» abbaiò in tono sommesso. «Dèi!» «Be’, questo riempie certamente la lacuna teorica di cui parlavi» commentò Keith. «Spiega perfino un particolare cui hai accennato, il fatto che le galassie antiche sembrino ruotare più rapidamente di quanto prevede la teoria: sono state messe in rotazione artificialmente, perché estroflettessero i bracci della spirale.» «No, no, no» latrò Jag. «No, non capisci? Non lo vedi? Non si tratta semplicemente del meccanismo di formazione delle galassie che ha finalmente trovato spiegazione. A loro dobbiamo tutto, tutto!» Il waldahud si afferrò a una delle gambe di metallo della consolle di Keith e si tirò in piedi su due gambe. «Te l’ho già detto: molecole geneticamente stabili sarebbero state impossibili in un ammasso di stelle troppo ravvicinate, a causa dei livelli di radioattività. È solo perché i nostri mondi si trovano lontano dal nucleo, all’esterno, nei bracci a spirale, che in essi si è potuta formare la vita. Noi esistiamo… e con noi ogni forma di vita costituita da ciò che arrogantemente chiamiamo “materia normale”… semplicemente perché le creature di materia oscura si sono messe a giocare con le stelle e le hanno spostate in eleganti forme a spirale.» Thor si era girato a guardare Jag. «Ma le galassie più grandi dell’universo sono ellittiche, non a spirale.» Jag sollevò le spalle superiori. «È vero. Forse plasmare quelle era uno sforzo troppo grande, oppure richiedeva troppo tempo. Anche disponendo di un sistema di comunicazione più veloce della luce, la radio-due, ci vogliono comunque decine di migliaia di anni perché un segnale giunga da un capo all’altro di una galassia ellittica gigante. Forse è troppo, per uno sforzo di gruppo. Ma per le galassie di media grandezza, come la nostra o Andromeda… be’, qualunque artista predilige una certa scala di grandezza, no? Una tela di certe dimensioni, o magari preferisce le novelle ai romanzi. Le galassie di media grandezza sono la materia prima… e… e “noi” siamo il messaggio.» Thor faceva cenno di sì con la testa. «Cristo, ha ragione.» Guardò Keith. «Ricordi quel che ha detto Occhio di Gatto quando gli hai chiesto perché aveva tentato di ucciderci? Ha risposto: “Fatto voi. Non fatto voi.” Lo diceva anche mio padre, quando era arrabbiato: io ti ho messo al mondo, ragazzo, e io dal mondo ti posso togliere. Loro lo sanno. I matos sanno che sono state le loro azioni a rendere possibile il nostro tipo di vita.» Jag stava per perdere nuovamente l’equilibrio. Infine cedette e cadde di nuovo a quattro zampe, in una posizione che lo faceva sembrare un centauro grassoccio. «A proposito di umiliazioni» disse. «Questa è la più grande di tutte. All’inizio, ciascuna delle razze del Commonwealth pensava che il suo mondo fosse al centro dell’universo. Ovviamente non era vero. In seguito abbiamo stabilito attraverso il ragionamento che doveva esistere la materia oscura, e in un certo senso questo è stato ancora più umiliante. Significava, infatti, che non soltanto non eravamo al centro dell’universo, ma che non eravamo nemmeno fatti di ciò che costituiva la maggior parte dell’universo! Siamo come la schiuma sulla superficie di uno stagno che osa pensare di essere più importante di tutta la gran quantità d’acqua che costituisce lo stagno stesso. E ora questo!» La pelliccia gli vibrava per l’emozione. «Ricordi che cosa ti ha risposto Occhio di Gatto quando gli hai chiesto quanto tempo fa è sorta la vita di materia oscura? “Fin dall’inizio di tutte le stelle insieme” ha risposto. Dall’inizio dell’universo.» Keith annuì. «Ha detto che loro “dovevano” esistere già allora… dovevano!» La pelliccia di Jag era tutta arricciata. «Io avevo pensato che fosse una posizione filosofica, invece era la verità letterale: la vita doveva esistere fin dall’inizio dell’universo, o almeno da quando ne ha avuto fisicamente la possibilità.» Keith fissò Jag. «Non capisco.» «Quanto siamo sciocchi, e arroganti!» esclamò Jag. «Davvero non capisci? Fino a questo giorno, malgrado tutte le umilianti lezioni che l’universo ci ha impartito, ancora ci sforzavamo di riservare a noi un ruolo importante nella creazione. Abbiamo elaborato teorie cosmologiche secondo le quali l’universo era destinato a dare origine a noi, che era obbligato a evolvere una vita come la nostra. Gli umani lo chiamano “principio antropico”, la mia gente lo definisce il principio “aj-waldahudigralt”, ma non fa differenza: non è che il disperato e profondamente radicato bisogno di credere di essere significativi, di essere importanti. «Nella fisica quantistica si parla del gatto di Schroedinger, o del kestoor di Teg… l’idea che ogni cosa sia fatta di semplici potenzialità, di fronti d’onda, che non prendono consistenza finché qualcuno di noi qualificati osservatori non piomba nei paraggi, crea un picco, e, attraverso il processo dell’osservazione, provoca il collasso del fronte d’onda. Noi in realtà consentiamo a noi stessi di credere che l’universo funziona davvero così… anche se sappiamo benissimo che l’universo ha miliardi di anni e nessuna delle nostre razze è qui da più di un milione di anni. «Sì» abbaiò Jag «la fisica quantistica richiede osservatori qualificati. Sì, è necessaria l’intelligenza per determinare quali potenzialità diventano realtà. Ma nella nostra arroganza abbiamo pensato che l’universo potesse funzionare per 15 miliardi di anni senza di noi, e che tuttavia fosse stato congegnato chissà come per dare origine proprio a noi. Quale hubris! Gli osservatori intelligenti non siamo noi… piccole creature isolate su un manipolo di mondi nell’immensa vastità dello spazio. Gli osservatori intelligenti sono gli esseri di materia oscura. Per miliardi di anni hanno messo in rotazione le galassie, dando loro una forma a spirale. Sono il loro intelletto, le loro osservazioni, la loro consapevolezza che guidano l’universo, che danno realtà concreta alle potenzialità quantistiche. Noi siamo ‘niente’… nient’altro che un fenomeno recente, locale, un granello di polvere in un universo che non ha bisogno di noi e che non si cura della nostra esistenza. Occhio di Gatto aveva assolutamente ragione quando ha detto che siamo insignificanti. Questo è il ‘loro’ universo, l’universo dei matos. Loro l’hanno fatto, e hanno fatto anche noi!» 25 Keith era seduto nel suo ufficio sul ponte 14, e leggeva le ultime notizie da Tau Ceti. I rapporti erano telegrafici, ma mettevano in chiaro che su Rehbollo le forze fedeli alla regina Trath avevano soffocato l’insurrezione contro di lei e avevano giustiziato sommariamente 27 cospiratori secondo il metodo tradizionale, cioè gettandoli nel fango bollente. Keith spense il blocco-dati. Quella storia metteva a dura prova la sua credulità… non c’era mai stata nessuna rivolta su Rehbollo. Poteva anche essere tutto vero, ma più probabilmente si trattava del disperato tentativo del governo di prendere le distanze da un’iniziativa finita male. Trillò un campanello e la voce di Phantom disse: “Jag Kandaro em-Pelsh è alla porta.” Keith sospirò. «Fallo entrare.» Jag entrò e prese una multisedia. I suoi occhi di sinistra erano puntati su Keith, ma quelli di destra esaminavano la stanza nell’istintivo schema combattimento-o-fuga. «Immagino che in questa congiuntura» disse «io debba riempire alcuni di quei moduli che stanno tanto a cuore a voi umani.» «Quali moduli?» domandò Keith. «Quelli per dimettermi dall’incarico che ricopro sulla Starplex. Non posso più lavorare qui.» Keith si alzò in piedi per sgranchirsi un po’. Da qualche parte doveva pur cominciare… la maturità, lo stadio successivo alla crisi della mezza età, la pace. Da qualche parte doveva pur cominciare. «I bambini giocano con i soldatini» disse Keith, ora guardando Jag negli occhi. «Le razze bambine giocano con i soldati veri. Forse è tempo che noi tutti cresciamo un po’.» Il waldahud rimase silenzioso a lungo. «Forse.» «Noi tutti abbiamo obblighi e legami che sono incisi nei nostri geni» continuò Keith. «Non per questo ti spingerò a dare le dimissioni.» «La tua osservazione sottintende che io sia colpevole di qualcosa. Questo lo rifiuto. Ma anche se fosse vero, tu ancora non capisci. Forse il tuo popolo non arriverà mai a capire il mio.» Jag fece una pausa. «No, per me è tempo di ritornare a Rehbollo.» «Qui è rimasto moltissimo lavoro da fare» fece notare Keith. «Senza dubbio. Ma il lavoro che avevo pianificato per me stesso è stato portato a termine.» «Ah» disse Keith, con il primo barlume di comprensione. «Intendi dire che hai accumulato gloria a sufficienza per vincere Pelsh.» «Esattamente. Il mio contributo alle scoperte sulla materia oscura e sui matos farà di me il più stimato scienziato di Rehbollo.» Fece una pausa. «Pelsh prenderà la sua decisione entro breve. Non posso trattenermi qui ancora per molto.» Keith rifletté sulle parole di Jag. «Nessuna femmina waldahud ha mai lavorato a bordo della Starplex. Quando scadrà il mio incarico, sarà un ib a ricoprire il ruolo di direttore, e ho la sensazione che toccherà a Bicchiere da Vino. Nel turno successivo, però, l’incarico spetterà a un waldahud… e so che i waldahudin reclameranno un capo femmina. Tu e Pelsh potreste venire sulla Starplex insieme, che ne dici? Da ciò che ho sentito, lei mi sembra la scelta ideale per il ruolo di direttore.» La pelliccia di Jag si arricciò per la sorpresa. «Non sarebbe possibile: siamo entrambi parte di un gruppo più grande. Lei manterrà il proprio entourage per tutta la vita.» Keith sgranò gli occhi. «Vuoi dire che i maschi che non hanno avuto successo con lei non avranno la possibilità di tentare la sorte altrove?» «Certo che no. Rimarremo una famiglia. Noi tutti siamo impegnati con Pelsh fin dall’infanzia.» «Forse sulla Starplex potreste venirci tutti e sei.» Jag mosse le spalle inferiori. «La Starplex è per i migliori e per i più brillanti. Non parlerei mai con disprezzo degli altri membri dell’entourage della mia signora di fronte a un waldahud, ma a te dirò la verità: non c’è mai stata competizione tra me e altri quattro. Mai. La competizione era con un solo individuo. Questo è stato chiaro fin dall’inizio. Gli altri… mancano di distinzione.» «Ma io pensavo che Pelsh fosse legata alla famiglia reale. Perdonami, ma perché una come lei si è ritrovata con pretendenti scarsamente qualificati?» «L’entourage deve continuare a funzionare anche dopo la scelta del maschio. Un entourage selezionato con intelligenza conterrà molti membri che si accontenteranno di una condizione di inferiorità. Invece un entourage composto interamente da quelli che voi umani definite “maschi alfa” sarebbe condannato fin dall’inizio.» Keith assorbì l’informazione. «Be’, se l’unico modo in cui possiamo averti è quello di prendere con noi tutta la tua famiglia, provvederò che così si faccia.» «Io… non credo che andrai fino in fondo in questa idea.» Keith socchiuse gli occhi. «Sono un uomo di parola.» «La vera competizione per Pelsh era fra me e un altro. L’altro, ovviamente, ha un nome.» I quattro occhi di Jag erano puntati sui due occhi di Keith. «Questo nome è Gawst Dalayo em-Pelsh.» «Gawst!» esclamò Keith. «Lo stesso che ha guidato l’attacco alla Starplex?» «Sì. È sfuggito ai matos e adesso si trova di nuovo su Rehbollo.» Keith rimase immobile per dieci secondi, poi cominciò ad annuire. «E tu eri obbligato ad aiutarlo, vero?» «Non ammetto niente» disse Jag. «Se non l’avessi aiutato, tutta la gloria nel portare la Starplex a casa a Rehbollo sarebbe toccata a lui, e sarebbe stato lui a essere scelto da Pelsh. Dandogli assistenza, ti sei assicurato che una parte della gloria spettasse a te.» «Ci sono 260 waldahudin a bordo della Starplex» disse Jag. La frase rimase sospesa tra i due per parecchi secondi. Poi Keith annuì: aveva capito. «Se non l’avessi aiutato tu, avrebbe trovato senza difficoltà qualcun altro disposto a farlo» disse Keith. «Lo ripeto» disse Jag. «Non ammetto nulla.» Rimase silenzioso a lungo. «È chiaro che il governo della regina Trath potrebbe incriminare Gawst di gravi reati. Ben presto potrebbe perdere la libertà, o perfino la vita.» «La mia offerta rimane valida.» Jag chinò la testa. «La prenderò… la prenderemo in considerazione.» Poi il waldahud fece qualcosa che Keith non aveva mai visto fare da nessuno della sua razza. Aggiunse una parola: «Grazie.» Era sera: l’illuminazione del corridoio era attenuata. Come sempre prima di cena, Keith fece un salto sul ponte per scambiare qualche parola con il direttore del turno gamma, un waldahud di nome Stelt. Tutto filava liscio come l’olio, disse Stelt. Non era una sorpresa: Keith sarebbe stato chiamato immediatamente se fosse accaduto qualche guaio. Il direttore augurò a tutti la buona notte e lasciò il ponte, per recarsi allo stelo centrale. Lì trovò Lianne Karendaughter, seduta su una panca nello slargo del corridoio appena prima degli ascensori. Appariva flessuosa e sexy nell’aderente tuta nera da ginnastica. Era certamente una coincidenza, si disse Keith. Di sicuro lei non era al corrente delle sue abitudini, non sapeva che lui passava di lì ogni sera a quell’ora. Doveva essere in attesa di qualcun altro. Lianne aveva i capelli sciolti, Keith non aveva mai notato che le arrivavano a metà schiena. «Ciao, Keith» disse lei, con un sorriso caloroso. «Ciao, Lianne. Hai passato una buona giornata?» «Oh, certo. Hai visto com’è andato oggi il turno alfa, no? Una passeggiata. E nel periodo del turno beta ho nuotato e tirato di scherma. E tu?» «Tutto bene.» «Mi fa piacere» disse Lianne. Rimase zitta per un attimo, poi abbassò lo sguardo sul pavimento plastificato. Quando rialzò la testa evitò lo sguardo di Keith. «Io, ehm, so che Rissa è via, oggi.» «È vero. È tornata a Grand Central con una scialuppa da viaggio. Credo che stia cercando di escogitare una scusa per non dover accettare una medaglia o una parata in suo onore.» Lianne annuì. «Ho pensato» disse dopo un attimo «che forse non avevi compagnia per cena.» Il cuore di Keith accelerò i battiti. «Io… direi di no» ammise. Lianne gli sorrise. Aveva denti bianchi e perfetti, una perfetta pelle di alabastro e bellissimi occhi a mandorla, scuri e incantevoli. «Forse ti farebbe piacere farmi compagnia. Nel mio appartamento ho una pentola wok,potrei prepararti quella cena cinese che ti ho promesso.» Keith fissò quella… quella “ragazzina”, pensò. Di ventisette anni. Due decenni meno di lui. Sentì un brivido all’inguine. Probabilmente era un invito innocente: le dispiaceva per il vecchio, o forse cercava di ingraziarsi il capo. Una semplice cena cinese, magari con un po’ di vino, magari… «Sai, Lianne» disse Keith «tu sei davvero una donna bellissima.» Alzò una mano. «Lo so, nel mio ruolo non dovrei dire cose del genere, ma siamo entrambi fuori servizio. E tu sei una donna bellissima.» Lei abbassò gli occhi. Lui attese in silenzio, passandosi i denti sul labbro inferiore. E un pensiero si fece strada nella sua mente. Non fare del male a Rissa. Faresti solo del male a te stesso. «Ma credo che per me sia meglio ammirarti da lontano» disse infine. Lei lo fissò per un attimo, poi distolse gli occhi. «Rissa è una donna molto fortunata» disse Lianne. «No» la contraddisse Keith. «Io sono un uomo molto fortunato. Ci vediamo domani, Lianne.» Lei annuì. «Buona notte, Keith.» Tornò a casa, si preparò un panino, lesse qualche capitolo di un vecchio romanzo di Robertson Davies e si coricò per tempo. E dormì come un bambino, completamente in pace con se stesso. Il turno alfa del giorno successivo cominciò nella maniera consueta. Rombo era arrivato esattamente in orario, ovviamente; Thor entrò, mise i piedi sulla scrivania del Timone e cominciò a dettare istruzioni al computer di navigazione; Lianne, già nel pieno del lavoro, istruiva le miniteste olografiche dei suoi ingegneri sui compiti da svolgere nella giornata. Nella seconda fila, Keith parlava serenamente con Rissa, appena rientrata da Grand Central. In quel momento, però, il panorama stellato si aprì e Jag entrò con un’andatura che sembrava più una corsa che non il suo solito passo deciso. «Ce l’ho!» gridò, anche se, a giudicare dalle onde di eccitazione che agitavano la sua pelliccia, forse la traduzione più appropriata sarebbe stata “Eureka!”. Keith e Rissa si voltarono a guardare Jag, che non si diresse alla sua postazione, ma andò nel centro della stanza fermandosi a due metri dalla consolle di Thor. «Ce l’hai, che cosa?» domandò Keith, trattenendo ogni possibile battuta. «La risposta!» abbaiò Jag, emozionatissimo. «La risposta!» Riprese fiato. «Sopportatemi per un momento e arriverò a spiegarmi. Ma una cosa voglio dirla subito… noi “abbiamo importanza”! La nostra presenza conta. Per tutti gli dèi delle montagne, dei fiumi, delle valli e delle pianure… è “soltanto” la nostra presenza che conta.» I suoi occhi puntarono in direzioni differenti, uno su Lianne, un altro su Rombo, un terzo su Rissa e il quarto su Thor e Keith, che dal punto di vista di Jag si trovavano sulla stessa linea, uno dietro l’altro. Ormai sappiamo che il viaggio nel tempo dal futuro al passato è possibile «esordì.» L’abbiamo visto applicato alle stelle di quarta generazione e con la capsula temporale costruita da Hek e da Azmi. Ma avete considerato quali conseguenze ne derivano? Immaginiamo che domani a mezzogiorno io usi una macchina del tempo per spedire me stesso fino a oggi. Che cosa ne consegue? Rispose Keith. «Be’, che ci sarebbero due Jag. Quello di oggi e quello arrivato da domani.» «Esatto. Adesso pensate a questo: se ci fossero due Jag, la mia massa sarebbe raddoppiata. Io peso 123 chili, ma se ci fossero due versioni di me stesso allora ci sarebbero 246 chilogrammi di massa-Jag a bordo della nave.» «Credevo che fosse impossibile» intervenne Rissa «a causa della legge di conservazione di massa ed energia. Da dove verrebbero i 123 chili aggiuntivi?» Jag la guardò, trionfante. «Dal futuro! Non capite? Il viaggio nel tempo è l’unico modo concepibile di violare la legge. È l’unico modo per aumentare la massa totale del sistema.» La sua pelliccia continuava ad agitarsi. «E che dire delle stelle venute dal futuro? Più ne arrivano e più aumenta la massa dell’universo attuale. Dopo tutto, ogni stella di quarta generazione è costituita da preesistenti particelle subatomiche riciclate. Spingerle indietro nel tempo, in pratica, è come duplicare queste particelle, raddoppiando la massa complessiva.» «Un interessante effetto collaterale, senza dubbio» commentò Rombo. «Ma non spiega perché le stelle siano state mandate indietro nel tempo.» «Certo che lo spiega. Il raddoppio della massa non è un semplice effetto collaterale, niente affatto! Al contrario, è il solo obiettivo della missione!» «Missione?» domandò Keith. «Sì, la missione di salvare l’universo! Quelle stelle sono state mandate indietro nel tempo per aumentare la massa dell’universo.» Keith spalancò la bocca. «Buon Dio!» Tutti e quattro gli occhi del waldahud conversero su Keith. «Esatto!» abbaiò Jag. «Lo sappiamo da più di un secolo che la materia visibile rappresenta meno del dieci per cento della quantità di materia che dev’essere presente. Il resto è costituito da neutrini e da materia oscura, come i nostri giganteschi amici qui fuori dalla nave. A questo punto sappiamo di che cos e fatta tutta la materia dell’universo, ma ancora non sappiamo quanta ce ne sia in totale. E il destino dell’universo dipende proprio da quanta massa esso contiene. Ci sono tre alternative, a seconda che il totale sia superiore, inferiore o esattamente identico alla cosiddetta densità critica.» «Densità critica?» domandò Rissa. «Proprio così. L’universo è in espansione, e lo è fin dall’istante del Big Bang. Ma questa espansione durerà per sempre? Dipende dalla gravità. E l’ammontare della gravità, ovviamente, dipende dalla quantità di massa presente. Se non ce ne abbastanza, cioè se la massa dell’universo è inferiore alla densità critica, la gravità non vincerà mai la forza dell’esplosione originaria e l’universo continuerà a espandersi per sempre, e la materia in esso contenuta si diffonderà in un volume sempre maggiore. Tutto diventerà freddo e vuoto, con i singoli atomi distanti anni luce l’uno dall’altro.» Rissa rabbrividì. «Se invece è vera l’altra possibilità, se cioè la massa dell’universo supera la densità critica, allora la gravità “vincerà” la forza del Big Bang, rallenterà l’espansione dell’universo e alla fine la invertirà. Ogni cosa ricadrà su se stessa, collassando nel Big Crunch, ovvero schiacciandosi in un unico elemento di materia. Se le condizioni saranno favorevoli, questo elemento finirà per espandersi in un nuovo Big Bang, creando un universo nuovo, che con ogni probabilità sarà completamente diverso da questo… ma, nel frattempo, tutto ciò che componeva questo universo sarà stato distrutto.» «Non sembra un destino migliore» commentò Rissa. «È vero» concordò Jag. «Però, se… “se”!… l’universo avesse esattamente la densità critica di materia, allora e soltanto allora potrà continuare a esistere per sempre in condizioni favorevoli alla vita. L’espansione causata dal Big Bang sarà rallentata in pratica fino a fermarsi: la velocità di espansione si avvicinerà asintoticamente a zero. L’universo non patirà la morte fredda e vuota, né collasserà su se stesso. Continuerà invece a esistere in una configurazione stabile per triliardi e triliardi e triliardi di anni. In pratica, diventerà immortale.» «E qual è la situazione?» domandò Rissa. «L’universo è sopra o sotto la densità critica?» «Secondo le nostre migliori stime attuali, la massa di tutto ciò che vediamo sommata alla massa di tutto ciò che non possiamo vedere (materia oscura compresa) è sotto alla densità critica di circa il cinque per cento.» «Il che significa che l’universo si espanderà per sempre, giusto?» disse Lianne. «Esatto. Ogni cosa continuerà ad allontanarsi da tutto il resto. Il cosmo morirà con l’intera creazione ridotta a un’infinitesima frazione di grado sopra lo zero assoluto.» Rissa scosse il capo. «Invece non accadrà» disse Jag. «Se porteranno a termine la missione.» «Chi dovrebbe portare a termine la missione?» chiese Keith. «Gli esseri del futuro… i discendenti delle razze del Commonwealth. L’hai detto tu stesso, Lansing: tu sei destinato a diventare enormemente vecchio, a vivere per miliardi di anni. In altre parole, sarai immortale. Be’, delle creature che siano veramente immortali devono prendere in considerazione, primo a poi, la morte dell’universo. Resterebbe il solo evento in grado di porre fine alla loro esistenza.» «E l’entropia?» domandò Lianne. «Be’, sì, il secondo principio della termodinamica predice una morte calda per qualunque sistema chiuso. Forse però l’universo non è completamente chiuso. Dopo tutto ci sono buone ragioni teoriche per credere che il nostro universo faccia parte di una serie di infiniti universi. Potrebbe rivelarsi possibile trarre energia da un’altra dimensione, o semplicemente conservare l’energia disponibile producendo una quantità minima di entropia, cosicché questo universo possa ospitare la vita virtualmente per sempre. In ogni caso, loro avranno triliardi di anni prima di dover fronteggiare questo problema, triliardi di anni a disposizione per trovare una risposta.» «Ma… ma è un progetto inconcepibile» esclamò Keith. «Voglio dire, se adesso siamo sotto la densità critica del cinque per cento, quante stelle dovrebbero essere spedite indietro? Anche se ne arrivasse una da ogni scorciatoia, ancora non basterebbero, vero?» «No» confermò Jag. «La nostra stima è che ci siano quattro miliardi di scorciatoie nella nostra galassia. Supponiamo pure che questo dato sia tipico, che cioè sia stata costruita una scorciatoia ogni cento stelle non soltanto nella Via Lattea, ma in ciascuna galassia dell’universo. Resta il fatto che le stelle costituiscono grosso modo il dieci per cento della massa dell’universo, il restante novanta per cento è di materia oscura. Di conseguenza, inviando una stella di media grandezza attraverso ciascuna scorciatoia, la massa dell’universo viene accresciuta soltanto di un millesimo, rispetto al valore attuale. Per aumentare la massa di un ventesimo, cioè del cinque per cento, da ogni scorciatoia dovrebbero arrivare almeno cinquanta stelle.» «Ma, avendo a disposizione il viaggio nel tempo, che bisogno c’è di salvare l’universo?» si chiese Keith. «Si potrebbe vivere per dieci miliardi di anni, poi tornare al punto di partenza e vivere per altri dieci miliardi di anni, e così via, all’infinito.» «Oh, certo… e chissà quanti cicli di questo genere i nostri discendenti hanno attraversato, prima di sviluppare il coraggio e la tecnologia per mettere in atto un progetto simile. Il metodo del salto all’indietro ripetuto all’infinito fornisce soltanto una pseudo-immortalità… è chiaramente una possibilità di livello inferiore rispetto a quella di un universo eterno. Significa infatti che edifici e strutture di qualsiasi genere possono avere una durata massima di dieci miliardi di anni, ma anche, cosa più importante, che l’immortalità sarebbe limitata agli esseri che possiedono il viaggio nel tempo.» «Capisco» disse Keith. «Ma il progetto è davvero enorme!» «Effettivamente» disse Jag. «E il suo obiettivo potrebbe essere perfino più grande di quanto appare a prima vista. Dimmi: qual è l’età attuale dell’universo?» «Quindici miliardi di anni» rispose Keith. «Anni della Terra, è chiaro.» Jag mosse le spalle inferiori. «In realtà, benché questa sia la cifra citata più di frequente, nessun astrofisico ci crede: quindici è un compromesso fra le età dell’universo dedotte seguendo due diverse linee di pensiero. I casi sono due: o l’universo ha dieci miliardi di anni, oppure ne ha venti. Fin dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, il valore riconosciuto della costante di Hubble (un numero legato al ritmo di espansione dell’universo) è stato di circa 85 chilometri al secondo per megaparsec. Il che significa che l’universo sta tuttora espandendosi a grandissima velocità… finora la gravità ha fatto ben poco per rallentare l’espansione… e quindi non può essere molto più vecchio di dieci miliardi di anni. «Ma gli studi spettrali di stelle estreme di prima generazione, in particolare di quelle che si trovano negli ammassi globulari, suggeriscono che in queste stelle avvengano processi di fusione nucleare da un tempo lungo almeno il doppio. Noi fisici abbiamo sempre dato per scontato che uno dei due sistemi di calcolo fosse sbagliato. Forse invece sono entrambi corretti. Forse ciò che si osserva adesso non è che la prima fase di un progetto a più stadi. Forse sono stato troppo sbrigativo, qualche tempo fa, quando ho scartato l’idea di Magnor che parlava di spingere ammassi globulari dentro le scorciatoie. Forse questi ammassi, ciascuno dei quali contiene decine di migliaia di stelle, sono stati spinti qui dal futuro. È possibile che, in origine, questo universo contenesse una quantità di materia molto, molto inferiore al 95 per cento della densità critica, e che ormai il progetto sia arrivato nella fase della sintonizzazione fine.» «Ma il raddoppio della massa dev’essere per forza temporaneo» osservò Lianne. «Per tornare al tuo esempio originale, se tu viaggi all’indietro da domani a oggi, oggi ci saranno due Jag, ma domani uno di loro svanirà per andare nel passato.» «Forse è vero» disse Jag. «Ma per tutto il periodo che intercorre tra il punto di partenza nel futuro e il punto di arrivo nel passato, la massa viene effettivamente raddoppiata. È se i due punti sono separati da dieci miliardi di anni, allora la massa resta raddoppiata per un tempo molto lungo… abbastanza lungo perché i suoi effetti mettano un freno all’espansione dell’universo. Se si calcolano i tempi con precisione, non c’è bisogno che l’incremento di massa sia permanente: è sufficiente che duri abbastanza a lungo da permettere all’attrazione gravitazionale di fermare il ritmo di espansione imposto dall’esplosione originaria. Se i tempi sono studiati bene, anche senza un incremento permanente della massa si può ottenere un universo che nel lontano futuro sia esattamente bilanciato… un universo che vivrà per sempre.» Jag si interruppe per riprendere fiato. «Si tratta del più gigantesco progetto di ingegneria che sia mai stato preso in considerazione» disse. «Ma di sicuro batte la sua alternativa, ovvero quella di permettere che l’universo muoia.» Lanciò uno sguardo a tutti i membri dell’equipaggio che si trovavano sul ponte. «E siamo stati “noi” a metterlo in atto. Noi creature di materia normale, noi creature con le “mani”! Alla fine… mi correggo, “per impedire” la sua fine, l’universo avrà bisogno di noi!» La cerimonia, brevissima, si tenne nel loro ristorante waldahud preferito. Gli astanti erano molto più numerosi di quelli che avevano presenziato alle loro originali nozze in famiglia, a Madrid: a bordo della Starplex ogni celebrazione era la benvenuta. Per quel giorno Thorald Magnor era stato promosso direttore vicario, perché potesse celebrare legalmente il servizio nuziale. «Vuoi tu Gilbert Keith» disse «prendere nuovamente in sposa Clarissa Maria, per amarla, onorarla e proteggerla, in salute e malattia, in ricchezza e povertà?» Keith guardò sua moglie. Ricordò quel giorno di vent’anni prima, il giorno in cui avevano compiuto per la prima volta quel rito: era stato un giorno felice, bellissimo. Il loro era stato un buon matrimonio, stimolante intellettualmente, emotivamente e fisicamente. E oggi lei era, se possibile, ancora più bella di allora, e costituiva una sfida ancora più interessante. La guardò nei grandi occhi castani e disse: «Sì.» Thor si rivolse a lei, ma prima che iniziasse a parlare, Keith strinse la mano di sua moglie e aggiunse ad alta voce, perché tutti sentissero: «Finché morte non ci separi.» Rissa gli sorrise, raggiante. Dopo tutto, pensò Keith, in vent’anni c’era appena il tempo di scalfire la superficie… Epilogo Ormai erano settimane che Keith Lansing dormiva benissimo. Ora giaceva nel letto, vicino alla sua bella moglie, mentre il sonno scivolava via da lui. Che importanza aveva se lui, Rissa, Jag, Lunga Bottiglia e Rombo e tutti gli altri miliardi di cittadini del Commonwealth non contavano nulla in quel folle universo? Che importanza aveva se tutti loro erano soltanto un retropensiero, un sottoprodotto inaspettato dell’arte della materia oscura? Un giorno sarebbero stati loro a contare… sarebbero stati gli unici a contare… Keith si svegliò di colpo. Spostò la plasticarta che copriva l’orologio: erano le 01:43. Si alzò a sedere nel letto e ascoltò il lieve rumore di statica che Phantom trasmetteva dagli altoparlanti della stanza. “Cristo” pensò. “Gesù Cristo.” Quei miliardi di stelle in arrivo dal futuro avrebbero cambiato il passato… l’avrebbero cambiato radicalmente, caoticamente. Non sarebbe stato possibile che la linea temporale si ripiegasse sul percorso originario… non era possibile che quel passato desse origine allo stesso futuro. I paradossi erano inevitabili, a meno che… A meno che non fosse tornato indietro nel tempo lui stesso, fino a un tempo precedente all’arrivo della prima materia dal futuro. Keith sentì i battiti del cuore accelerare. Tutte le creature del lontano futuro devono essere già qui, chissà dove, nel presente. Ricordò le fotografie di quella liscia palla di metallo, il metallo che un tempo era stato il “boomerang” inviato da Tau Ceti alla scorciatoia di Tejat Posterior, metallo alterato da una scienza incredibilmente avanzata. Gli Sbattiporta avevano davvero chiuso la porta in faccia al Commonwealth… avevano chiuso la porta al proprio passato. Avevano messo bene in chiaro ciò che desideravano, ciò di cui avevano bisogno: rimanere isolati dalle primitive versioni di se stessi. A usare quella scorciatoia, e innumerevoli altre senza dubbio, erano i popoli del futuro. E tra loro c’era la versione di lui stesso che aveva firmato il messaggio della capsula temporale, la versione di lui stesso che, a quanto pareva, era uno dei capi del progetto per salvare l’universo… un Keith Lansing con miliardi di anni sulle spalle, un Keith Lansing che era diventato, in senso letterale, il grande vecchio della fisica. Quanto gli sarebbe piaciuto incontrare il suo altro io… Keith guardò Rissa nella penombra. Era ancora addormentata, ma i movimenti di lui le avevano fatto scivolare il lenzuolo di dosso. Lui lo rimise a posto, quasi con un senso di tristezza, poi si sdraiò a pancia in su e scivolò a poco a poco nell’incoscienza, sognando un uomo di vetro. FINE